Alfabeta - anno VII - n. 74/75 - lug./ago. 1985

privilegiato per tradizione del suo «dominio» o della sua rimozione. La morte non è ancora metaforizzata nel rito, e nessuno è riuscito a compiere il suo dovere del lutto. Il partito è presente non nella sua forza, ma nella sua fragilità, non nella sua idea, ma nella sua comunità emotiva, riel suo margine di sfaldamento nella vita quotidiana: estrema ricchezza della politica. L'esperienza collettiva della morte di un capo per un gruppo sociale è sempre un rito di rassicurazione per chi sopravviverà e avrà le medesime leggi. Il rito codifica il dolore nel sociale, ma non è sicuro che il rito consegua il suo successo, specie in società dove l'aggregazione è un elemento del lutto. Tuttavia etichetta e cerimoniale cercano, nella ritualizzazione, di ripetere il potere e tutte le forme del sistema rispetto al quale il morto diviene l'occasione per la rappresentazione. A questa fenomenologia del rito appartiene certamente, per stare nell'area del Partito comunista, il funerale di Togliatti: la commozione popolare era enorme, ma all'interno di una disciplina che trasformava le esequie in una esecuzione non priva di tracce quasi militari. Solo all'apparenza il dolore è uguale: la consapevolezza, la responsabilità e l'intelligenza gerarchizzano chi piange, chi è triste, chi riflette, chi sa. Immaginario e simbolico non si paralizzano in un opaco silenzio, sono quasi una divisione territoriale. L'esperienza della morte di Berlinguer non ha avuto queste caratteristiche, il rituale non ha codificato il lutto, le mediazioni non hanno mediato, e qualsiasi apparato aveva l'aspetto di un criterio d'ordine atteso e disatteso. Prevaleva l'addio senza genere, la continua ossessiva ripetizione della mancanza, così che se il futuro si presenta come immagine, esso contiene questa falla, si presenta già sbrecciato, la linearità dell'avvenire è veramente spezzata ed esso scorrerà come un nastro inceppato. ( f è una osservazione molto povera di contenuto analitico e che vale più che altro per la sua forza di approccio supercilioso: siamo forse in un caso di «culto della personalità»? L'espressione può essere usata quando ogni atto pubblico nomina una persona come fondatore garante e mediatore della norma della legittimità e del senso: e questa funzione s'inscrive positivamente nelle forme stesse di distribuzione dei poteri. L'immagine in questo caso personifica .l'organicità dell'insieme come bene, e ha un rilievo simile a quello del corpo del sovrano nella filosofia del diritto di Hegel. Tutto questo non ha nulla a che vedere con una società come la nostra dove esistono persone che hanno poteri molto grandi (i quali vanno anche al di là di ciò che le regole stabiliscono), ma la loro pubblica immagine è proprio il nascondimento del potere e la sottolineatura degli elementi di uguaglianza e di comunanza con tutti gli altri. In questo gioco di spazi Berlinguer probabilmente veniva percepito come diverso sia dai leaders dei paesi comunisti, sia rispetto alla media dei leaders nazionali, in quanto figura priva di un suo potere istituzionale, e tuttavia diverso dall'eguaglianza demagogica con l'uomo comune proprio perché interprete di un senso collettivo che ha il solo potere, non indifferente, di se stesso. In questa idealizzazione si costruiva così un carisma affettivo, un riconoscimento del margine della propria speranza, un al-di-là, spesso poco dicibile, del proprio modo di essere. Era forse il lut!o per la morte di 'ùna figura paterna o per quella di un capo che risarcisce nel gruppo il disastro caratteriale che viene provocato nei singoli da un eccesso di figura paterna? Sono modelli di comprensione psicoanalitica e sociologica degli anni Venti e Trenta, che tuttavia non sfiorano alcuna verità. Da tempo non siamo in una vita sociale che valorizzi il bisogno emotivo di una forte autorità paterna, ed è alle nostre spalle il mondo nel quale l'esperienza frustrante del padre struttura personalità vuote risentite e potenzialmente violente. Viviamo in una dimensione collettiva dove ha larga prevalenza lo scambio narcisistico, fragile ma insuperabile, quel narcisismo che provoca una «cura di sé» puntigliosa ed esecutiva di interminabili frammenti mitici: siamo, come si dice, nel mondo delle occasioni, delle circostanze, della non-cumulatività, del nomadismo dell'io, dell'affettività breve e pervasiva. In queste condizioni il lutto collettivo non può seguire una elaborazione direttiva che ne accentui gli aspetti formali. Esso si compone di una serie di lutti propri poiché non si piange se non qualcosa che riguarda una mancanza che è veramente «dentro di sé». In caso contrario vi è la risposta di un comportamento standardizzato che deriva dall'incredulità, la teatralizzazione e l'abitudine alla proiezione di ogni evento nella dimensione dello spettacolo. Il dolore nella nostra epoca molto difficilmente è collettivo: come collettivi sono invece le autostrade, 1 divertimenti, 1 segni d'appartenenza. Ciò che è pieno, per così dire, può essere scambiato socialmente, il segno della sofferenza appartiene alla sfera del privato, e il pianto è per lo più la ribellione di una infanzia che non è mai stata aiutata a crescere. Così che la collettività del lutto, se non è un decreto o una convenzione istituzionale, deve essere necessariamente una costruzione di casi individuali. U n lutto sociale come quello per la morte di Berlinguer era quasi una costruzione di riflessi individuali, ciascuno rifletteva nell'altro la propria mancanza, e la collettività della mancanza diventava così la collettività del noi, anche se il dolore stentava a comporsi in un rituale. Era il linguaggio del sentimento che esprimeva questo percorso: esso collettivizzava le espressioni del sentimento privato e le modalità affettuose di ognuno, che poi sono eguali per tutti. Berlinguer non era mai oggettivato poiché le parole erano quelle della dialogicità dell'io costruito nella confiden- •zialità dell'affetto: tu ed Enrico. La morte, la cesura irreversibile, portava alla superficie del discorso il modo in cui ognuno nella sfera del desiderio aveva immaginato di potersi rivolgere al proprio leader. Pensare Berlinguer con il tu e con il nome è tutt'altra cosa dal dare del tu facendo precedere il cognome dalla parola storica di «compagno». In questo caso il tu non ha più nulla di personale, esso è istituito dal costume e da una appartenenza. È molto diverso dover essere uguali per una norma e costruire, come conseguenza di un affetto, la scoperta di un tu. Enrico è una collettiva percezione di affetto che cominciava a diventare costume anche in vita. Questa circostanza era resa possibile anche dal «noema», cioè dalla figura di Berlinguer, dalla sua aura:· e credo che in questa soglia si consuNe/o Risi masse storicamente la figura tradizionale del leader. Forse erano soprattutto due i sentimenti che si esprimevano in questa forma collettiva di elaborazione del lutto: la colpa e il riconoscimento. Due sentimenti che avevano le loro radici in quello che chiamerei il processo di affidamento. L'affidamento deve esseGabriele Frasca re, se pure sommariamente, analizzato, poiché vi sono differenti forme di affidamento. Nel caso di Berlinguer l'affidamento nasceva da due elementi che erano in qualche modo concomitanti. Berlinguer riusciva a conservare il partito come cultura collettiva in un momento di mutamenti radicali: la rivoluzione come strategia politica non era più credibile della vita eterna, l'Urss si mostrava un paese dai tratti di politica estera imperialistica, il terrorismo era la atroc~ caricatura della lotta di classe, gli interessi collettivi sfumavano in conflittualità periferiche, il sistema politico perdeva la sua relazione con il sistema della cultura e mostrava la propria efficienza soprattutto come macchina riproduttiva di poteri, il socialismo è facile a dirsi, ma è di una straordinaria difficoltà indicare mezzi e fini. Il mutamento tende al vuoto. Ora tutte queste cose sono «problemi», almeno quando si crede alla dignità dell'intelligenza. Ma queste medesime cose dette nel dialogo che ognuno ha con se stesso, quel dialogo su cui è costruita l'ambiguità della propria identificazione, ineriscono direttamente alla possibilità di «credere» e alla costellazione di sentimenti e di comportamenti che appartengono al «credere». Berlinguer era riuscito, tra gli scogli del mutamento, a evitare perdita e smarrimento, a congiungere tradizione e innovazione: un valore più generale che va al di là del consenso o del dissenso sulla linea politica specifica. Questo mi pare fosse il sentimento di affidamento. Ma esso era ancora più rilevante in una circostanza in cui si ripeteva da ogni parte (come fosse un'emancipazione ed era solo un fatto) che la politica non è il centro dell'esistenza poiché non è la salvezza propria dell'epilogo giusto e glorioso della storia. È, anzi, una pratica accanto ad altre pratiche. Diminuiva così la giustificazione della propria forma di vita, si allargava l'area partecipativa alle gioconde banalità di ciò che è comune, iniziava la dissolvenza della propria specificità e perdeva forza la storia della propria giovinezza. Eppure nel partecipare al mutamento, nel fondo rimaneva forte una volontà di tradizione. Un complicato reticolo di compromessi e di desideri che coinvolgeva un paio di generazioni dal quale, probabilmente, usciva anche un sentimento di colpa, ma come per un peccato tanto diffuso da essere certamente veniale. Questo stato d'animo conduceva all'affidamento, e - se devo ricorrere proprio a una figura parentale - direi affidamento alla figura del «fratello maggiore» il cui lavoro ha consentito la nostra distrazione, la nostra vacanza, e, tuttavia, ha continuato a riflettere la certezza di appartenere a una famiglia. I n un momento, che ovviamente perdura, di diffuso discredito sul valore identificante del lavoro, credo che il modo della morte di Berlinguer abbia portato in primo piano una immagine del tutto diversa del lavoro. È sul difficile lavoro della parola che muore, fragile e ostinato nel mentre cerca di comunicare ciò che gli sembra la sua verità politica. È sulle parole che ormai inciampano che arriva il segno della morte. Era il suo lavoro, ma è un lavoro che chiede quella dimenticanza di sé di cui non siamo più capaci, o alla quale non crediamo come a una virtù. Tutto questo va bene sino a che si tratta di argomenti, ma in questa disputa quale è l'argomento della morte? Emerge il lavoro come dedizione, ma senza alcun elogio del fare e soprattutto senza sentirsi qualcosa - quel sentirsi che è uno dei più vergognosi peccati di orgoglio -: un lavorare senza fatica apparente, come fosse un compito di natura. Nell'immaginario collettivo questa morte evoca fantasmi di valori che giacciono nel silenzio imperfetto della nostra coscienza. La «morte rossa», come si sa, ha una lunga storia: è l'epilogo tragico di coloro che si sono dedicati alla causa politica e sono stati perseguitati, violentati e spesso uccisi. Questa è una antica storia di croci nel movimento operaio, ma rimane pure un alone di destino romantico anche nella «morte rossa». C'è una cura, una esclusività e un coraggio che qualche volta essa condivide con uomini che si trovano dalla parte avversa: poiché anche negli altri c'è onore. Questi sentimenti sono molto difficili e si possono sopportare più facilmente in tempi di sciagure, quando la paura è così intensa da generare aggressività e spirito temerario. Abbiamo passato, e giustamente, decenni per togliere alla politica il prezzo della morte, per stabilire regole del gioco che proteggano noi e i nostri avversari consentendoci le azioni che ci paiono giuste. Al punto che questo lavoro è stato persino dimenticato: la politica, diventava un'abitudine il dirlo, scende ormai su altre scale dell'esistenza: il potere, l'interesse e, persino, il gioco. Il modo in cui è accaduta la morte di Berlinguer ha congiunto in modo inaspettato, e a dispetto di tutte le nostre dimenticanze, la relazione sotterranea che ci può essere tra l'occuparsi della polis, tra la passione razionale per la città, e la morte. Nella miscredenza diffusa, nell'indifferenza quotidiana, spesso strumenti che ci aiutano a vivere come convenzioni della nostra reciproca estraneità, è ritornato improvvisamente, certo per un caso, ma che non è arbitrario assegnare al tracciato di un destino, il modello antico della «morte rossa», senza poesia epica, senza scenari, solo come un lavoro che a qualcuno spetta di eseguire con ordine. Così che sul nostro sereno affidarci era apparso il volto inaspettato della morte: si era aperta una fenditura fatale nella nostra esperienza nella quale sarebbe poi passata la nostra possibilità di elaborazione del lutto. Forse fu eccessivo l'affidamento al «fratello maggiore», e l'affidamento aveva stabilito un rapporto più debole poli- ~ ticamente, ma più profondo affet- <:::i .s tivamente di quanto non accades- ~ se nel caso lineare della rappre- I:). sentanza politica. Per questo il ~ °' movimento dell'affetto impediva ....,. la sutura istituzionale del lutto: «ci ~ c5 mancherai Enrico». ~ .$1 i Con il solo metodo a disposizione in questi casi, il rivivere immaginativo, ho cercato di ripercorrere quel lutto collettivo di un anno ~ ~ fa. Da questo punto di vista non ci K sono morali o giudizi. So solo che si dimentica.

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