Ma la nostra questione non si ferma qui. Non si ferma alla demarcazione con gli scettici. Un valore materialistico rigoroso e precisabile consiste per noi nel riuscire a distinguere fra due modi moderni «realisti» (e cioè non assolutamente negativi sul «reale» e sull'approssimazione cognitiva a esso). Ricorriamo per tutto ciò all'eccellente saggio di Enrico Rambaldi («Opposizione/contraddizione», in Enciclopedia ed. Einaudi). Definisce il «realismo idealista» come quello che «ritiene che il conoscere possa essere del tutto trasparente, poiché ragione e realtà sarebbero in ultima analisi due ambiti che riposano sullo stesso fondamento, la effettualità (Wirklichkeit) dello spirito, e dunque sono tra loro omogenei e simmetrici». E poco più oltre, ecco i termini divergenti e qui accuratissimi dell'altra posizione realista: «Quando invece si assuma la passività della conoscenza in tutto il suo peso, cioè che non solo debba aderire alle frastagliate determinazioni del reale, ma anche che sia sempre 'infetta' dall'inerzia materiale che alla ricapitolazione concettuale oppone il mondo esterno, eterogeneo ed asimmetrico rispetto al pensiero, allora si ha in senso proprio realismo (materialistico)». O, come preferisco dire, si ha materialismo rigoroso. In questa posizione è presente il carattere secondario del pensiero, e cioè si fa piuttosto discendere il pensiero da una realtà che si viene determinando per mezzo di contraddizioni reali. Non è il pensiero (o il linguaggio, tanto meno, il Verbo) ciò che viene prima. Ora in Hegel, stante l'omogeneità di ragione e realtà, opposizioni e contraddizioni sono, simmetricamente, sia del discorso sia del mondo. Ed è complesso il suo rapporto con Aristotele, a cui la cultura filosofica tradizionale lo oppone differenziando logica formale e logica dialettica; in quanto, secondo Rambaldi, le analisi di Aristotele sono state dalla tradizione «pervertite in stereotipi». Si può peraltro dire che in Hegel si tratta di «realismo idealista»; o al solito si può dire, per Hegel e più per gli hegeliani, «idealismo oggettivo» (per il quale la realtà non è solo residuo opaco, ma è l'altro dal soggetto). Ci preme qui di porre in evidenza che, dove sussiste al fondo una maggiore via lineare Hegel-Marx (e non in Lenin, per esempio), ciò produce l'effetto di una diminuzione di asimmetria. Esempio teorico autentico di tale effetto è Lukacs. L'attenzione materialistica rigorosa si dovrebbe invece porre così: «altrimenti che in Hegel e come in Aristotele, il movimento si basa non sull'unità simmetrica ed omogenea di ragione e realtà, ma sulla dipendenza asimmetrica ed eterogenea del pensiero dalla realtà; altrimenti che in entrambi, questo realismo materialistico sviluppa in forma estremamente radicale il concetto che il pensare è sempre 'infetto' di materia» (Rambaldi). E ciò, mi pare, in quanto nel pensiero stesso è presente una materia pensante, in termini anzitutto evoluzionistici (cibernetici, oggi). C. (Confronto breve con altri autori - Fortini, Pasolini, Sanguineti) Passando ora semplicemente ad alcuni riscontri di teoria della letteratura, non con fine polemico e neppure critico, ma per segnalare la prossimità e non coincidenza di questo mio con altri 'elaborati, va detto anzitutto che per F. Fortini è decisivo, come si sa, l'esempio lukacsiano: in un suo forte uso prolungato, e articolato attualmente. Conduce avanti in Italia lo scontro teorico (razionalistico e materialistico d'impianto hegeliano-marxista) che è stato di Lukacs. Ne viene un certo ombreggiamento della Spaltung; né, invero, ciò risulta nell'asse teorico stesso dell'autore, perché (come Lukacs, che è più aperto e materialisticamente netto in sede di riscontro antropologico e biologico o d'altre discipline) egli si rigorizza piuttosto in ambito culturalistico che teorico. Si tratta di un compito assunto; e certo il togliere via le sbavature di tendenza irrazionalistica ed evasiva - sia col linguaggio sia con altri enti - è un compito alto • • 1.:. • :-~---. . ,; :,.::~ del «marxismo critico» con le sue precise immissioni che non vogliono toccare le categorie. Emerge però, magari con più attiva utopia o con eticità più intrigante, una «asimmetria» attutita. Si sa come Fortini munisce bene il suo campo di altri interessi validi; e a dare alcuni esempi: «è per poter comprendere la trasformazione (le avanguardie storiche) che si sono sviluppate le ricerche dei formalisti. Ma queste ultime, sebbene si ponessero il problema di comprendere come 'funziona' un testo letterario, in pratica ebbero a diminuire, fino a renderli impercettibili, tanto il peso del fattore storico-sociale quanto la funzione dei destinatari. Le dichiarazioni sono là, nero su bianco; ci riferiamo a quelle di Jakobson, del 1921»... E dopo questa punta contro la «letterarietà», poco oltre dice di Lotman: «uno di quei paradossali rovesciamenti di posizioni ( ... ) che hanno condotto gli eredi del formalismo a recuperare storia e società nella semiologia della cultura» ... Per Fortini vale l'altro interesse, l'eteronomia. Ed ecco il successivo fronte: «la riduzione di qualsiasi testo a discorso sul silenzio - cui l'insegnamento di Heidegger conduce, e di Lacan e di non pochi altri del nostro tempo - salva bensì il senso profondo della Letteratura e della poesia in quanto appello a ciò che non è detto né dicibile e quindi ad un suo implacabile trascendimento: ma lo tradisce là dove essa è campo di tensioni con la realtà storica e sociale, sfida ad essa, di valore contro valore o disvalore». (Utilizzo per queste perfette precisazioni brevi: Lettura personale di un pacchetto di voci, specimen della Enciclopedia ed. Einaudi). Inutile dire quanto ciò sia lukacsiano, se presso Marx c'è solo il mito come «sostrato collettivo» a legare opera e processo storico-sociale nell' «individuo sociale», e in Engels-Lenin c'è lo sconcerto su Balzac e su Tolstoj a distinguere «autore» e sua biografia politica. Ma Fortini con la sua retorica al fondo e la sua passione ricercatrice non sbaglia: e per esempio discute e riprecisa il punto adorniaCaffè letterario no secondo cui in un'opera di poesia «la specificazione formale costituisce e determina un antagonismo al suo contesto storico-sociale» ( Questioni di frontiera, 1977, p. 142). Spostato invece, e non posto come problematico, è ogni quesito di questo tipo presso P.P. Pasolini, in quanto emerge piuttosto un conflitto ai due livelli, insieme, intellettuale e personale. E nel testo ciò figura come se le «buie viscere» contraddicessero non solo la razionalità, ma proprio l'analisi e l'approssimazione complessa, e insomma l'ipotesi materialistica, a cui si resta affidati come alla parte migliore di sé. Nell'intenso discorso teorico-critico, accanto (e prima che) alle istanze di un terzomondismo come purezza e corpo della madre, emerge lo spitzeriano «individuo ineffabile» che è l'«etimo» del trauma dell'autore, e a cui ci guida come rivelativo un certo «clic» nella lettura del testo. Si sa che Pasolini (come pur Longhi) ha preso Saussure per il corno della linguistica «affettiva» di Bally da cui viene la Stilkritik, invece che sul piano semiologico poi vincente. E viene da qui - non come in Fortini dalla tradizione post-hegeliana - l'avversione alle avanguardie. Ritengo non siano necessarie le citazioni, mentre sostengo che Pasolini oscilla fra l'espressionismo e il manierismo. Egli va tenuto presente nella questione che ho posta dei due «realismi» o «materialismi» perché è invaso dalla carenza storica di precisazione materialistica: è perciò indotto continuamente a sbandare, nel giusto tentativo di fondere la doppia istanza, presente in gran parte della cultura italiana oltre che in lui, fra l'impegno piuttosto «storicistico» e una forma di assoluto. Molto acuta, pungente e risentita, con vasta elaborazione, è la questione presso E. Sanguineti. Egli perviene quasi a dissolvere la tradizione materialistica accertata o maggiore, per riprendere i nessi delle avanguardie artistiche storiche con gli estremismi; mentre se li rimangia in sede politica dove si decide a diventare gramsciano. E riesce affascinante con gli stessi corni aperti, pur se comporta un ricorso a Saussure linguisticamente assolutizzato (tale che al con- . franto è più ancorato alla semanticità Eco che ribadisce sempre l' «interpretante» di Peirce). Peraltro è esplicitamente detta la sua ricerca al limite della difficoltà: «si trattava per me di superare il formalismo e l'irrazionalismo dell'avanguardia (e infine la stessa avanguardia, nelle sue implicazioni ideologiche), non per mezzo di una rimozione, ma a partire dal formalismo e dall'irrazionalismo stesso, esasperandone le contraddizioni sino a un limite praticamente insuperabile, rovesciandone il senso, agendo sopra gli stessi postulati di tipo anarchico, ma portandoli a un grado di storica coscienza eversiva» (1961, già; Della Volpe è uscito l'anno prima). Né è raro per lui - e qui mettiamo ovviamente insieme il testo proprio e la «estetica» - il riferimento al barocco, già decisivo in Anceschi; che richiama fortemente, mi pare, la formulazione di «espressionismo», per me più precisa. Ma va detto in generale che il suo lavoro di rinfrescamento e di rovesciamento, accanto alle avanguardie artistiche del '60 (informale, cinetica) e musicali di dopo Darmstadt, è assai fitto, con una provocazione straordinaria che rivela ancora oggi come in sede materialistica fosse trascurata l'evidenza dell'attività simbolica. Prima che si desse, nell'ultimo ventennio, al contrario Una decostruzione simbolica della realtà, che oggi patiamo, mi sembra. E credo di avere compiuto un minimo quadro di riscontri che ha una utilità complessiva; e nel quale come scrivente mi inserisco, in gran ritardo, e in una mia propria differenza. A un'altra puntata, infine, va rimessa la questione di una definizione attuale dei termini e concetti di «ricerca» e di «tendenza», con l'aspetto a mio parere decisivo oggi di una diversificazione interna fra i linguaggi delle arti, nella comune situazione dello stare sul proprio confine. , .
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