Alfabeta - anno VII - n. 74/75 - lug./ago. 1985

(quale è nell'arte, con altre ricerche, non altrettanto in letteratura): e qui l'accento posto in modo rigoristico sul «significante», a scopo rivelativo, aveva un convincimento più facile, non più netto. La novità novecentesca viene sempre dall'attenzione al linguaggio e alla scomposizione analitica. E non si è puntato sull'E, che compie per primo un atto simile, o più denso, perché qui non è assolutizzato il significante per se stesso, e pare che qui si tratti di operazione meno tagliente; mentre essa è nell'E decisiva anche per la ricerca letteraria e per quella musicale. Ciò non toglie la grande importanza del futurismo, certo; e quindi dell'altro polo dell'avanguardia, formale, astratto, linguistico, analitico. Contini, dunque, differenzia fondamentalmente E storico e metaforico mentre mira a «precisare per via contestuale la perdita corrente di valore polare, e per così dire categoriale, che il termine è venuto assumendo nell'uso vulgato degli ultimi decenni». E sostiene appunto che «la definizione lata e metaforica non soltanto si differenzia e affranca dalla aneddoticamente esatta, ma anzi ha avuto bisogno, per nascere, che questa dimettesse ogni attualità presente». Il corno decisivo è qui: Contini descrive e teorizza l'espressionismo letterario del Novecento, che in Italia vale dai vociani a Gadda, ma vuole pur dire che esso sarebbe finito (e invece ricomincia almeno nell'arte nel '79), e anzi, dice che il suo valore è l'estensione agli altri secoli: per i quali è poi costretto a stabilire uno straordin<1-ricoriterio ·«a ritroso», dalla rigorizzazione di Joyce e Gadda (ecc. ecc.) via via al Trecento. Qui la cura di Contini contemporaneista, che sentenzia sul nuovo (Montale è poi Gadda nel suo percorso), si contagia con la stessa ampiezza storiografica che egli è uso a esercitare, fin dai suoi Dante e Petrarca: differentemente però, voglio dir subito, da Longhi e gran parte della sua ~cuoia (eccetto Francesco· Arcangeli), che riduce strettissimo il movimento novecentesco, prediligendo Carrà, De Chirico, Guttuso. E dunque viene da Contini posto «a ritroso», come se ciò non togliesse la marca stessa dell'E, il filone che ci interessa. Riferisce egli precisamente che «l'iniziale estensione metaforica ha luogo nell'ambito figurativo» per Vitale da Bologna, e tale estensione tendenziosa secondo lui è giustificata e anzi «appare normale in un critico come Roberto Longhi del quale è nota la frequentazione giovanile con gli scritti di W. Worringer, cioè proprio del critico che applicò precocemente (1911) quel termine, pazienza a Van Gogh e al primo Matisse, ma nientemeno che a Cézanne: implicando, di conseguenza, nel vocabolo una pregnanza costruttiva e assegnandogli un patronato autentico sul cubismo e sua discendenza». Ma questo costruttivo patronato su tutte le ricerche d'innovazione del Novecento, che Contini dichiara in una genealogia da Worringer a Longhi e a lui stesso, per mano di Longhi e in nome dei suoi giovanili studi e atti discepolari, viene a slittare tanto da non crescere di senso ma svanire ... È vero che i trecenteschi bolognesi sono strani e a loro si presta l'E. Tuttavia Krell critico tedesco degli anni Dieci sostiene già che l'E affiora nei papiri egiziani. Il valore metaforico non può tagliare la testa al rigore di gruppo scaricandolo come storico o peggio aneddotico ... Occorre, mi sembra, lasciare all'E il patronato su tutte le avanguardie per la sua propria opposizione alla classicità, alla distinzione, all'armonia, alla forma stessa, in nome della «espressione» appunto, che è connessa alla soggettività. L'uso di Longhi è suo proprio e singolare, pregevole quanto si sa e nient'affatto innocente, se sottrae appunto, con quel colpetto verso Vitale, a tutte le avanguardie novecentesche la loro marca di novità, di rottura, di Gestalt o di allegoria ... Più oltre Contini, mentre ricorda come da parte della romanistica tedesca con Spitzer in testa nel '24 l'E letterario francese si basa su Romains, comprendendo anche !'oltranza di Céline, osserva però: «mai !'E potrebbe avvicinarsi al significato d'una semplice oltranza espressiva». Giusto. E pur quella di Vitale è un'oltranza antica, mi pare. Raccogliamo anche una nota su Michaux, fra le preziose: «gli autentici surrealisti-(Breton, Éluard, ecc.) operano nella sfera dell'analogia, mentre il Michaux migliore (surrealista solo come disegnatore e visualizzatore) giunge a peculiarità grammaticali e perciò fa più che sfiorare il capitolo espressionistico». Giusto. Ma qui Joyce e Gadda, è chiaro, sono già la definizione matura di E secondo il nostro, per la loro eccezionalità grammatic.ale intensa («informale» secondo noi). C'è pure una scelta del legamento fra inconscio e linguaggio, che è presente a Contini sulla scorta del rapporto teorico appunto fra il saggio di Jakobson del '56 e quello di Lacan del '57 sul nesso dei due assi, metaforico e metonimico, e dei concetti di «spostamento» e «condensazione» presso Freud. Gran momento questo e grande buon uso, senza neanche dirlo, da parte di Contini. Ma non siamo per forza d'accordo a far riposare tutto l'E ~ul grammaticale. Ancora, «se altrove l'E fa assistere a un prolungamento dell'io nel mondo», in Italia invece «apEsther Ferrer pare evidente il prolungarsi dell'io in un suo corpo linguistico, che si governa con sue nuove leggi». Qui gli italiani sono più linguistici dei tedeschi; assistiamo dunque a una stilizzazione continiana per l'Italia che centra l'E in un «significante metastorico» e poi legge la lingua di Gadda come tale che «s'instaura su una differenzialità di base ancora più antica ( ... ) e anteriore a un qualsiasi aspetto di simbiosi vernacolare». Ed ecco il punto 12 conclusivo che pone un quesito: «la parte svolta da Gadda sulla scena letteGiuseppe Chiari raria promuoveva un'urgente domanda di carattere storico: quali analoghi ha la 'funzione Gadda' e di che (discontinui) segmenti s1 compone la sua linea anticlassica» (sottolineatura da parte nostra per la bellezza della definizione inclusa qui). Riassumiamo Contini prima di contraddirlo. È gaddiano avanti lettera Faldella dove E è «la coincidenza di acme formale e acme tematica» (anche questa definizione è buona ed estensiva); predecessore è Folengo «nodo capitale», e pure è predecessore Rabelais grande argomento spitzeriano, «la cui ilare violenza è linguistica nello stesso momento che gnoseologico-morale» (ben detto, e vale per tutti i grandi espressionisti). Di Dante dice che «includeva, ma sottomettendole, le virtualità che un giorno si sarebbero dette espressionistiche, e che ai suoi tempi si liberano allo stato puro nel grottesco e nella tautologia di cui è principe Jacopone da Todi». Con ritocco, dunque, sul suo famoso Dante del '50. A dire .ancora la nostra: Contini motiva da tutto ciò una linea anticlassica, e ci affascina ancora. Ma di essa non pare facciano parte Bruno e Campanella filosofi e scrittori del Rinascimento, e anche barocchi (e predecessori dell'E). Né tanto meno Leopardi: quasi che abbia tutta la ragione De Lollis che appunto leggeva come petrarchesca la lingua di Leopardi ... L'analisi linguistica se diviene assoluta talora può rendersi superficiale. Va detto infine che la questione teorica sui timbri speciali che si dicono qui «espressionismo» è una questione acuta. C'è appena stata una polemica di Sklovski j verso Bachtin che sostiene come elemento decisivo di Rabelais la parodia, piuttosto che il discorso polifonico (e cfr. Alfabeta n. 38-39 luglio 1982). È importante inoltre che C. Segre a proposito di un suo studio in corso sul romanzo in Italia «con al centro Gadda» dichiari un riferimento bachtiniano (cfr. Alfabeta n. 58, marzo 1984) con qualche fastidio implicito verso l'E, che si deve forse intendere come fastidio verso l'abuso dell'estensione metaforica dell'E. Ora, certo il parodico è svuotante, in senso semantico, mentre il polifonico (o, se si vuole, il policentrico) può comprendere una radice materialistica, quale c'è in Bachtin; mentre esistono versioni fredde o astratte, le più avanzate, dell'E stesso. 2. Carte sul nuovo espressionismo artistico A questo punto, poiché in modo inconsueto mi avviene qui di trascorrere dall'artistico al letterario e viceversa, mentre non si usa più, devo ricordare brevemente che la differenza tra i due linguaggi, visivo e verbale, può venire posta, leggendo Gombrich che cita Biihler, così: «un atto linguistico è espressivo se ci informa sullo stato d'animo di chi parla»; inoltre «il linguaggio umano ha sviluppato la funzione descrittiva o espositiva»; mentre si può dire che «l'immagine visiva ha un'efficacia insuperabile nell'evocazione, ii suo uso a fini espressivi è problematico e da sola non è in grado di eguagliare la funzione espositiva del linguaggio» (in Le Scienze, 1973, settembre). Valga questo breve punto, dove è segnata la differenziazione m termini netti e non separanti, a permetterci di passare da un linguaggio all'altro. E si può collocare nell'autunno del '79 un discorso teorico-critico - nuovo su certe operazioni di tendenza definibile neo-espressionistica. In Italia troviamo nel n. 9293 della rivista mensile Flash Art (che poi diviene portatrice di tale indirizzo) anzitutto un articolo di guida di Thomas Lawson sulla pittura a New York. Che fra l'altro dice: «la pittura è fiorita mentre le forme dematerializzate si sono congelate nel mondo inferiore della ripetizione»; «con la fine dell'egemonia minimalista molti pittori si sono sentiti liberi di uscire dalle limitazioni della geometria per investigare le possibilità inerenti all'immagine caricata m qualche maniera di contenuto psicologico». Da parte dei maestri il segnale sarebbe venuto da una serie di cose di Frank Stella, «un insieme selvaggio di colore acido, vernice fluorescente e lustrini» con una espansione gestuale nonostante il controllo formale di Stella. Mi ricordo che si parlò allora negli Stati Uniti di «brutalismo», a partire da questo Stella. Poco oltre nel numero c'è la prima stesura dello scritto teorico di A. Bonito Oliva, «La trans-avanguardia italiana»: «intesa come attraversamento della nozione sperimentale dell'avanguardia, secondo l'idea che ogni opera presuppone una manualità sperimentale» e cioè «sotto la pulsione di una mano che affonda nella materia dell'arte, in un immaginario fatto di un incarnamento tra idea e sensibilità». L'orientamento molto acuto e tempestivo anche se teoricamente alquanto mobile di Bonito Oliva (mentre resta fissa o quasi la serie di artisti da lui prediletti) parla di «una transitabilità anche nell'ambito dell'avanguardia e nella sua tradizione, non più lineare ma fatta di affondi e di scavalcamenti, di ritorni e di proiezioni in avanti». C'è inoltre la «catastrofe», la «posizione nomade» e altre cose mischiate e giocate; il punto più spessoso a quella data risulta lacanizzante: «l'intensità è la qualità dell'opera di darsi, nell'accezione lacaniana, come 'doma-

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