Alfabeta - anno VII - n. 74/75 - lug./ago. 1985

I giudizi sono stati unanimi. Il trentottesimo Festival di Cannes, nonostante il colpo d'ala con cui la giuria ha assegnato la Palma d'oro a Papà è in viaggio d'affari di Kusturica (il giovane regista jugoslavo rivelatosi a Venezia nel 1981 con l'opera prima Ti ricordi Dolly Beli?), ha deluso le aspettative che, come è consuetudine per le kermesse di questo genere, aveva destato. Che il quadro della cinematografia mondiale presentato dalla manifestazione sia stato tutt'altro che entusiasmante è un dato di fatto tanto più incontestabile se si ha riguardo ai venti film ammessi in concorso (sette dei quali, oltre al vincitore, hanno ottenuto riconoscimenti col rituale dosaggio diplomatico tipico di ogni festival a premi), di cui almeno la metà non avevano i requisiti sufficienti e alcuni, addirittura, mancavano di qualsiasi giustificazione pertinente non solo per concorrere al più ambito premio europeo, ma per partecipare a ogni competizione che si rispetti. Ma tale unanimità di giudizi è appunto basata fondamentalmente sulla selezione ufficiale (comprendente anche opere fuori concorso e 'omaggi'), cioè sulla sezione più appariscente, della quale in prevalenza si occupano i quotidiani e la televisione, obbedendo alla regola per cui i media debbono amplificare la chiacchiera universale informando su ciò di cui tutti sono già o saranno al più presto informati direttamente. Inoltre non si deve ignorare che in questa selezione, sulla quale pesano in larga misura i compromessi con le varie cinematografie nazionali e con le grandi produzioni, erano pur presenti prodotti di alta qualità, a cominciare da Mishima di Schrader, Detective di Godard e La historia oficial di Puenzo (in concorso), per arrivare ·a Purple rose of Cairo di Woody Allen e Die Nacht di Syberberg (fuori concorso), passando per Le soulier de satin ( omaggio a Manoel De Oliveira). Fin d'ora, infatti, la critica relegata negli spazi di minor rilievo dagli organi di informazione - quella critica che non ha il dovere di occuparsi della vetrina più illuminata e del relativo contorno mondano - è stata meno severa con la «Quinzaine de réalizateurs» e la «Semaine de la critique» (le due sezioni nate dalla contestazione sessantottesca e dirette, rispet• tivamente, dai cineasti e dai critici), con «Un certain regard» (sezione gestita direttamente dal Festival in concorrenza abbastanza aperta con le prime due) e con le «Perspectives du cinéma français». È probabile, quindi, che le opinioni si articoleranno in giudizi più i:::s pacati quando la manifestazione .s gf verrà valutata con maggior medi1::).. tazione (i saggi sulle riviste specia- ~ lizzate inizieranno ad apparire do- -. po l'estate) nel suo complesso, te- ~ nendo,maggiormente conto di tutgf te le sue componenti. ] } Ef bene precisare che a Cannes, considerando anche «il mercato» - dove, fra i tanti telefilm gastronom1c1, si è potuta vedere, per fare un solo esempio, l'ultima opera di Krzysztof Zanussi Le pouvoir du mal - e tutte le svariate rubricazioCannes85 ni, spesso anodine e pretestuose, sotto le quali sono raggruppati i film (nella rassegna «Film ungheresi» è stato presentato, per dirne una, l'ultima pellicola di Kovacs La contessa rossa), vengono proiettate circa seicento opere. È su questo campione che va formulato il giudizio sull'avvenimento di maggior rilievo fra quanti in forme analoghe si propongono come punto di riferimento obbligato per la «gente di cinema» e i pubblici europei (è noto che un film premiato o anche semplicemente selezionato in un festival di Vittorio Boarini speriamo che la prossima Mostra di Venezia lo confermi - credo che il suo stato attuale sia stato colto nella sua oggettività, anche se nella rappresentanza avrebbe dovuto essere incluso Segreti segreti di Giuseppe Bertolucci. Un'altra conferma la si ha valutando lo spettro offerto dal cine'fna tedesco: la Rft era presente, oltre che con il citato Die Nacht, con il bellissimo Das Mal-des Todes di Peter Handke e Tokyo-ga di Wenders («Un certain regard»); con Lieber Karl della giovane Marie Knilli («Quinzaine»); con Kolp di cinema, il suo irriducibile contenuto di pensiero. A questo punto si impone una considerazione sui festival e sulla funzione che Cannes si è assegnata nell'ambito delle analoghe manifestazioni che nel mondo si vanno moltiplicando - quasi a contraddire, ma in realtà a confermare, la crisi del cinema (si è inaugurata subito dopo Cannes a Tokyo una nuova mostruosa macchina festivaliera). Se il cinema è morto, i festival gli garantiscono una lunga vita al Thanassis Niarchos, Nicola Crocetti, Ghiannis Ritsos e Andonis Fostieris questo genere aumenta notevolmente il suo valore di mercato). Sembra allora corretto affermare che, ancora una volta, Cannes ha fornito, sia pure con vizi profondi ed errori vistosi, uno spaccato del tutto attendibile della cinematografia mondiale, una campionatura calibrata della situazione in cui versa la produzione dell'immaginario su pellicola, una situazione, può certo dispiacere, la quale conferma il globale e irreversibile processo verso la standardizzazione seriale, la subalternità ai modelli televisivi (molti film vengono ricavati dalla sintesi precostituita di serie televisive), l'omogeneizzazione del linguaggio cinematografico nei moduli della spettacolarizzazione e della fruizione passiva, l'imporsi - per usare l'espressione più sinteticamente esatta - dello standard tecnologico, cioè del vedere senza pensiero sul pensiero del vedere. Tale attendibilità viene confermata dall'esame delle cinematografie sulle quali posso esprimermi con maggior cognizione di causa come, ad esempio, quella italiana, presente con due film in concorso (Le due vite di Mattia Pascal di Monicelli e Scemo di guerra di Dino Risi) sui quali preferisco per carità di patria lasciare il giudizio agli spettatori; un film in «Un certain regard» (Il diavolo sulle colline di Cottafavi), di cui bisogna apprezzare lo sforzo anche se non riuscito di rompere le convenzioni televisive degli sceneggiati; un altro nella «Quinzaine» (il già noto al pubblico italiano Impiegati di Pupi Avati); più alcuni prodotti trascurabili presentati nel «mercato». Pur considerando che il cinema italiano può certamente esprimere ancora alcune punte più alte - e Suso Richter («Semaine») e con la consueta ampia rassegna della produzione più recente. Qui il discorso si amplia con la considerazione che se Cannes è un microcosmo che riproduce il cinema come universo concluso, uno schermo in cui si riflette il mondo •che si rappresenta come pura visibilità, la nuova nebulosa religiosa della spettacolarità diffusa, esso rivela anche le differenze, gli scarti della norma, l'emergere dall'esistenza tecnica del cinema della sua essenza non tecnica, l'affiorare dal magma del vedere senza pensiero di quel pensiero del vedere che costituisce l'essenza ontologica del Luigi Cinque di là della sua morte, e Cannes è stato il primo a comprendere questa lezione e a trarne le conseguenze. La lezione era impartita dalla critica alle istituzioni praticate dall'eversione in cui culminarono i movimenti avanguardistici degli anni Sessanta. Superata la fase acuta della contestazione che aveva instaurato gli stati generali del cinema, il festival della Croisette ha operato una pronta ristrutturazione che gli ha consentito di mantenere la funzione festivaliera tradizionale (un Grand Gala annuale in una cornice di sfarzosa mondanità e di lucrosi affari) adeguandola alla cinefilia di massa, alla festa funebre con cui si iniziava la celebrazione della morte del cinema che già si intravvedeva nell'esaurirsi delle avanguardie. La cinefilia di massa esige che il cinema venga accolto nella sua totalità coinvolgendo produttori e spettatori, mercanti e critici nella rappresentazione dello spettacolo in cui la nostalgia subentra alla consapevolezza del passato e appiattisce la storia su un presente senza futuro. Il principio, enunciato da Godard • come bandiera avanguardistica, «Il cinema è il cinema», viene accolto nella fase di ristrutturazione restaurativa nel senso che tutto il cinema, anche il più intellettuale, sperimentale, povero, terzomondista, erotico,. porno, out e off, ha diritto di cittadinanza sulla Croisette. Se esso non ci sta, si allargano gli spazi, si acquisiscono nuovi locali, si costruisce un nuovo megagalattico Palais, si lotta per impedire che la speculazione edilizia, la quale non ha rispetto per le onoranze funebri, abbatta il vecchio palazzo per costruire un albergo (se la Direzione del festival, come alcuni sostengono, facesse solo una battaglia proforma perché non ha interesse a mantenere alla «Quinzaine» la sede che ha ereditato, dimostrerebbe miopia e tendenze autolesioniste). ( osì Cannes ha imposto il suo primato alle altre organizzazioni festivaliere spesso attardate nella ricerca di una nuova identità o più lente nell'adeguarsi all'incombente età del cinema come tecnica di spettacolarizzazione del mondo (anche Berlino si è mosso nella stessa direzione con la tempestiva istituzione del «Forum» ma con minore forza di impatto). Mentre la Mostra veneziana si estenuava in attardati riti contestativi e avviava una lentocratica riforma che la precipitava nell'abisso del partecipazionismo populistico, Cannes scartava decisamente l'unica alternativa vera alla totalizzazione del «Come eravamo», quella di trasformarsi in un Istituto permanente di cultura come alcuni in Italia auspicavano (si veda il Convegno tenuto alla Mostra di Porretta nel 1976) e come in qualche misura ha tentato tardivamente Venezia nel momento più felice della direzione Lizzani, per farsi senza esitazioni vetrina della totalità evitando le obsolete distinzioni fra cinema coine arte e cinema come industria, fra cinema d'autore (logora bandiera ora issata da Venezia) e cinema di spettacolo. All'Istituto permanente di cultura (che in Italia i pubblici poteri, in realtà, non vogliono, e ostacolano perciò chi, come le Mostre di Pesaro e di Porretta, vorrebbe costituirlo), il quale solo potrebbe assumere a oggetto l'ontologia del cinema, Cannes ha radicalmente contrapposto la fenomenologia del mondo che si rappresenta in forme spettacolari. Ma in questo universo finito, in cui tutte le immagini sono state prodotte e il cinema è divenuto altro da sé come oggettivazione della tecnica, resta, sia pure imprigionato, il cinema divenuto altro da sé come essenza non tecnica, come pensiero. Allo spettatore il faticoso compito di individuare il prigioniero all'interno della galassia filmica attraverso intricati percorsi, sfuggendo al canto delle sirene, agli incantesimi dei miti, alle tentazioni del nulla, cioè della natura sostituita dall'universo visuale. Impresa ardua che però può consentire di imbattersi, ad esempio, nelle ultime opere di Syberberg e Handke a cui ho accennato: le sei ore di monologo recitato da una straordinaria attrice (Edith Clever) che, attraverso la collazione di testi letterari riguardanti La notte, parla della morte dell'arte, e l'ora di osservazione a cui l'autore fuori campo, affetto dalla «malattia della morte», sottopone un suggestivo corpo femminile (Marie Collin) per scoprire il segreto del suo sesso, cioè della creatività, della vita, bucano lo schermo planetario e lasciano intravvedere l'essenza non cinematografica della rappresentazione, quel pensiero del vedere prodotto cinematograficamente e proiettato oltre lo schermo che proprio per voler racchiudere il tutto non può impedire di essere oltrepassato. Nell'universo in cui il cinema continua a finire c'è anche il cinema al di là della sua fine.

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