Alfabeta - anno VII - n. 74/75 - lug./ago. 1985

già tutto nella parola: è nell'eccesso verbale che le protagoniste lo inseguono, lo corteggiano e, infine, lo consumano. La Famiglia Umana non ha più una sede stabile, fissa, socialmente riconosciuta: la casa è divenuta un desolante ammasso di rovine, un tristissimo albergo periferico, un non-luogo di permuta e di passaggio dove si possono solo incontrare i fantasmi di un'era trascorsa, dove l'unica moneta di scambio consiste nel dare e nel ricevere morte. E anche l'altra mistica, quella del falansterio, della comunità LI editoria di danza in Italia sembra stare molto meglio che in passato. Nel giro di due anni - dal I 983 a metà 1985 - sono stati pubblicati almeno dieci volumi dai titoli importanti: da Storia della danza dalle origini ai nostri giorni di Gino Tani (tre volumi, Olschki, lire 245.000), a La «divina» Isadora Duncan di Curzia Ferrari (Sugarco, lire 20.000), da I grandi della danza di Mario Pasi (Sperling & Kupfer, lire 25.000) a Martha Graham e la modem dance di Chiara Vatteroni (Marsilio, lire 12.000), da Il balletto del Novecento di Autori vari (a cura di Lorenzo Tozzi, Eri, lire 40.000), a La danza e il balletto, guida storica dalle origini a Béjart di Mario Pasi (Ricordi/Giunti -Martello, lire 12.000), da Il sogno del coreodramma, Salvatore Viganò poeta muto di Autori vari (a cura di Ezio Raimondi, «Proscenio», Il Mulino, lire 25.000) fino a La danza contemporanea di Leonetta Bentivoglio (Longanesi & C., lire 45.000), a Il teatro di Pina Bausch di Leonella Bentivoglio (Ubulibri, lire 47.000). E altri testi potrebbero anche uscire durante l'anno e ancora presso case editrici di rilievo. Questo dato è confortante. Significa che sono stati finalmente conquistati spazi prima preclusi, che si stanno per aprire, pur lentamente, le barriere di un piccolo ghetto - l'editoria specializzata - battutosi per anni, nei casi migliori, tra la necessità di pubblicare libretti agili, con tante fotografie, vendibili a un pubblico di bambine che si accingono allo studio della danza classicae alle loro madri, e il desiderio di portare coraggiosamente alla luce trattati storici e imprescindibili traduzioni di testi stranieri come Le lettere sulla danza di Jean Georges Noverre, edito appunto dalla casa specializzata Di Giacomo. Più in generale, si trattaperò di stabilire se la conquista di nuovi spazi fisici per la danza corrisponda effettivamente alla conquista di spazi culturali, di apporti che superino il dato informativo, documentativa su artisti, scuole, movimenti, per allargare il dibattito delle idee. Il fatto che in Italia manchi totalmente l'insegnamento della danza tra le materie scolastiche, che l'università - e, si badi, persino le università orientate verso le discipline di arte e spettacolo come il Dams di Bologna - non contemplino ancora un settore, un ramo di studi sistematici sulla materia, non consente né la f ormazione di studiosi, di ricercatori, né tanto meno la compilazione di saggi e tesi di laurea. Questa carenza ha una prima, immediata, ripercussione sul panorama editoriale. Molto spesso gli autori di libri di danza e, in particolare, gli autori degli ultimi libri pubblicati, sono giornalisti, recensori di spettacoli. Per una materia come la danza, nulla vi è chiusa, esemplare nel suo assolutismo di modello (il socialismo dal volto umano, il socialismo della futura 'primavera di Praga') rischia di scomparire. Anzi, è già scomparso. Il piccolo gruppo è attraversato da correnti anomale. Non esiste più alcuna capacità d'aggregazione: la precaria addizione degli elementi che lo compongono annuncia un'inarrestabile involuzione. L'anarchia - e la sua presunta purezza - vengono stigmatizzate per sempre. Camus (che, nell'Uomo in rivolta, aveva ampiamente analizzato motivazioni e comportamento dal terrorista Necaev, il teorico del «tutto è lecito») pronuncia per bocca di Marta una sentenza inappellabile: «il delitto è solitudine». Forse quello che affascina, in un testo come Il malinteso, è l'impossibilità di trovare una risposta plausibile a tutte le pesanti ipoteche (morte di Dio; irrisione di una Divinità assente che rifiuta, benché provocata, di manifestarsi; sarcastici interrogativi; disperati tentativi d'agnizione) avanzate nel corso di un dramma che non ha - né può - aver fine. Il fatto che tutto continui ad accadere e torni a ripetersi con la ciclica insistenza di una maledizione atavica pone il pubblico in.una situazione curiosa, lo spiazza dalle abitudini ricevute, lo costringe a un impietoso scandaglio che è esattamente il contrario di qualsiasi «tranquillizzante» trattamento psicoanalitico. Il Tutto diventa il Nulla ed equivale al Vuoto e mai nessuna risposta contrasterà la cieca rabbia dell'animale-uomo. Lo spettacolo è un limpido essai quasi didascalico nella dialettica spietata che oppone l'una all'altra l'editoriadidanza di più importante che un'analisi dal vivo, in presa diretta, specie per la danza del presente. Ma questo modo di catturare la materia, proprio perché essa è facilmente catturabile, tutta visiva, tutta chiusa nel suo essere, divenire e morire anche in pochi minuti, implica da parte di chi non solo vede, ma vuole ordinare, confrontare, riscrivere, un bagaglio di conoscenze e di studi tangenziali che supera le necessità di chi lavora su testi non tramandati per via orale, come appunto la danza. Per fare un esempio riguardante il passato, potremmo dire che ricostruire attraverso gli anni, i secoli, i mutamenti stilistici corrispondenti a precisi cambiamenti di ordine non solo estetico di un «non-testo» come Giselle (1832) che tuttora si rappresenta, è un'impresa tra le più ardue che si possano immaginare. E sarebbe comunque un progetto perdente se affrontato da un punto di vista solo coreografico, perché un «nontesto», nonostante l'esistenza di un testo parziale come la musica di Giselle (del resto anch'essa tutta ridimensionata e corrotta rispetto all'originale), richiede approcci multipli. Per questi motivi stupisce e conforta la pubblicazione avvenuta l'anno scorso di un volume importante quale Il sogno del coreodramma (su cui vedi Alfabeta n. 62/63): testo compilato da studiosi universitari, testo d'équipe, preziosissimo, non solo per il fatto di avere riportato alla luce il sogno e il contesto del sogno coreografico del grande Viganò, ma proprio per la struttura, per il metodo compositivo, per la profondità e coralità d'analisi che ne deriva. Il volume si eleva nettamente su tutti i testi di danza pubblicati dal 1983 a oggi, se si esclude l'enorme materiale di ricerca e di studio soprattutto sulle danze antiche e folcloriche messo a punto, e solo ogMarinella Guatterini gi rilegato in una cornice raffinata, dall'ottantenne decano della critica di danza, Gino Tani. Premesso che ognuno dei dieci libri citati all'inizio meriterebbe un'analisi particolareggiata - poiché, ad esempio, persino il testo «inutile» di Curzia Ferrari (in Italia la Duncan è la danzatrice più amata dagli editori) rivela un inaspettato e lucido contributo sui rapporti della danzatrice con la Russia e con il poeta Esenin -, ci limitiamo qui ad appuntare le tenSalette Tavares e Antonio porta denze più appariscenti del nuovo scenario editoriale. Salta subito ali'occhio la predilezione per gli excursus storici, per i cosiddetti manuali che abbracciano la storia della danza dalle origini ai nostri giorni (o a quelli di Béjart che non sono più tanto nostri). Il manuale è ancora il testo di danza per eccellenza, il privilegiato dalle case editrici italiane e, certamente, come modelRiccardo Held lo, non rappresenta un'inversione di rotta rispetto a una linea di continuità delineatasi dagli anni Sessanta a oggi. Altra riconferma di tendenza, però nuovissima, e non priva di finalità molto positive, è il testo che punta sui personaggi, magari con linguaggio sbrigliato e giornalisticamente inappuntabile. A questa categoria appartiene anche Il teatro di Pina Bausch, grosso catalogo che ha avuto certamente il merito del tempismo (è uscito in occasione della grande «Antologia Pina Bausch» di Venezia). Un testo divulgativo che però non aggiunge e non toglie nulla a quanto già scritto sulla Bausch, che funge da raccoglitore di dati (gli articoli pubblicati sulla coreografia e le schede informative sui danzatori di Wuppertal), con un'impostazione ancora una volta soprattutto giornalistica, visto che sapere cosa ne pensa Federico Fellini di Pina Bausch senza analizzare per • esempio i possibili rapporti che esistono tra l'artista tedesca e il cinema in generale, interessa solo, crediamo, ai lettori dei rotocalchi. Del resto anche il manuale di danza vero e proprio dovrebbe servire soprattutto a un pubblico scolastico. Ma, in assenza di questo interlocutore, a chi si rivolgono tutti i manuali costosi o meno costosi pubblicati dall'83 a oggi? Indubbiamente a una popolazione di lettori-spettatori enciclopedico-dipendenti, senza curiosità specifiche, senza desideri di approfondimento. Più in generale, sconcerta nei manuali la facilità dei processi, del meccanismo che regola la successione delle scuole, l'avvicendarsi di maestri e allievi, l'allegra processione delle coreografie, l'imbarazzante mancanza di un punto di vista ideale e filosofico capace di riordinare le idee, più che i fatterelli e le date, le correnti di pensiero più che i gusti spiccioli di chi scrive, spesso senza avere il coraggio di prendere interamente posizione sulla materia che espone. Ancora a cinquant'anni dalla prima pubblicazione, il testo-manuale (ma la definizione suona a questo punto poco calzante) più prezioso rimane La storia della danza di Curt Sachs, mentre fa piacere scoprire che, coraggiosadue protagoniste del peso specifico della Valli e della Malfatti. E se la Madre dell'una, nell'ampiezza del gesto e nelle cupe risonanze vocali, precipita il personaggio nell'inferno dei tragici greci, la Figlia dell'altra trova nei toni acri, volutamente spiazzati, di una dizione secca, dominata dalle note alte, un diapason di natura quasi musicale, in bilico sul sottile crinale che divide la ragione dall'imperativo sotterraneo della follia. mente, forse per spezzare anche l'insensata catena dei manuali, sia nata l'anno scorso in Italia una collana di studi («La danza italiana», Edizioni Theoria) che, sul modello francese di La recherche en danse («Revue de travaux universitaires portant sur la danse», Università di Paris-Sorbonne), cerca contributi specifici e settoriali, saggi che espongano punti di vista tendenziosi e particolareggiati. Per la verità, c'è qualche autore che si espone più degli altri, che persiste nella ricerca della verità entro le coordinate strette e inadatte del manuale. Leonetta Bentivoglio, ad esempio, mette mano a un suo precedente La danza moderna (1977, Longanesi & C.) ribaltando l'ottica americanocentrica del testo per scoprire l'importanza dell'Europa nella storia dei processi e delle trasformazioni della danza attuale. Peccato che nel rinnovato e reintitolato La danza contemporanea, l'autrice non riesca a chiarire dal di dentro, secondo una concezione sempre più universalistica e sempre meno antiquata (cioè settoriale), la complessa materia che espone. Peccato soprattutto che il nuovo punto di vista non informi sufficientemente l'analisi degli artisti e delle loro poetiche. Sempre in La danza contemporanea colpisce il paragrafo dedicato alla « Via giapponese», interamente «tratto» e parafrasato da Balletto («L'avanzata giapponese», n. 12, 1983) e da Alfabeta («Il Buto», n. 54, 1983, e «Danza, America e Giappone», n. 47, 1983). Colpisce in particolare nel medesimo capitolo una nota a piè pagina dove l'autrice, nel tentativo di appropriarsi di analisi che non le appartengono, incespica in una fumosa oltreché molto approssimativa definizione della cultura giapponese che potrebbe far inorridire non solo lo studioso, ma anche il turista tornato dal Giappone con una vaga idea del concetto di ordine e geometria che informa tutta la cultura antica, specie la tradizione teatrale e di danza di quel paese. Ma l'approssimazione e la superficialità sono consentite. Sono anzi il risultato più ovvio nel caso si rincorrano senza approfondimento tutti i fenomeni che hanno una parvenza di attualità vera o di moda. Ciò che invece non è consentito anche se nessuno, nemmeno gli addetti ai lavori, se ne accorge (scrive infatti Vittoria Ottolenghi su L'Espresso, in «Freschi. di stampa», 9 giugno 1985: «La danza moderna di Leonetta Bentivoglio - ma il titolo nuovo è La danza contemporanea - ... è molto probabilmente il manuale più ampio e rigoroso che esista al mondo sulla danza moderna... ») è il metodo provinciale e assai poco rigoroso della citazione senza virgolette. Specie in un paesaggio editoriale che vorrebbe essere più ampio e serio di prima.

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