Charles J. Lumsden Edward O. Wilson Il fuoco di Prometeo. Le origini e lo sviluppo della mente umana trad. di Delio Zinoni Milano, Mondadori, 1984 pp. 272, lire 16.000 I capiscuola della sociobiologia, Charles J. Lumsden ed Edward O. Wilson (autore quest'ultimo del testo base Sociobiologia. La nuova sintesi, Zanichelli, 1979) hanno subìto una violenta polemica internazionale soprattutto per merito del Gruppo di studio sulla Sociobiologia, costituito da esperti di sinistra che pubblicano diversi scritti oppositivi sulla rivista marxista americana Science for the people, e per interventi critici successivi di tutta una serie di scienziati. Ne Il fuoco di Prometeo, Lumsden e Wilson si dichiarano «pentiti» delle loro prime affermazioni che anch'io ho, a suo tempo, contribuito a contestare, intervenendo in Alfabeta a proposito di Etologia della guerra di Eibl-Eibesfeldt. Ma per non sovraccaricare ora la polemica di fronte all'autocritica dei due autori, la via più breve è riportare le loro stesse affermazioni conclusive da cui è anche facile dedurre i precedenti caposaldi della sociobiologia; il modo sociobiologico «di descrivere la vita umana, insistevano i critici, resta rozzamente inadeguato». «Gli esseri umani non sono automi, che si comportano semplicemente secondo gli ordini dei loro geni. Hanno delle menti, e una libera volontà. Possono rendersi conto e riflettere sulle conseguenze delle loro azioni. Questo alto livello di attività mentale umana crea la cultura, che ha raggiunto una vita sua propria, oltre i limiti ordinari della biologia. L'ambiente principale dove abita la mente umana è la cultura stessa da lei creata». Questi e altri aspetti delle vicende umane, sia individuali che collettive, «non possono essere spiegati dalla tradizionale analisi biologica riduzionista». Nel commento autocritico i due autori dichiarano: «Queste critiche rivolte alla sociobiologia umana, sostenute con forza anche dalla Science f or the people, erano in buona parte corrette». Proprio «i rappresentanti di Science f or the people - scrivono ancora i due autori - si opponevano alla sociobiologia umana perché il suo stesso fine implicava per loro la convinzione di una determinazione genetica del comportamento sociale, e il 'determinismo genetico' offre un sostegno al razzismo, alla discriminazione sessuale e allo status quo». Inoltre, «suggerire che la tendenza verso l'aggressione e la volontà di dominio sono parzialmente ereditate, significa dare una sanzione a questi caratteri distruttivi dell'uomo». F atta l'autocritica, gli autori pongono tre alternative: che la trasmissione lungo tutta la vicenda umana sia stata e sia puramente genetica o puramente culturale o genetico-culturale. Optato per la terza soluzione, la ricerca si sposta a trovare la legge generale. un'autocorrezione Questa legge viene così definita: «la cultura influenza l'evoluzione genetica, proprio come i gen'ì influenzano l'evoluzione culturale». Ma, come è ovvio, anche se è ammessa la reciprocità delle influenze, non si può scientificamente dire ancora nulla se la quantità e la qualità delle influenze non vengono, appunto, quantizzate e qualificate. Questo studio dovrebbe essere effettuato ricercando «leggi epigenetiche», cioè leggi del rapporto reciproco fra biologia e cultura. Gli autori partono già male se il primo esempio che portano è il seguente: «La presenza del veleno nel cibo o nell'acqua rappresenta la pressione selettiva. Gli individui dotati del gene che rende sensibili al veleno percepiscono la sostanza, la evitano e sopravvivono. Quelli che non lo posseggono, ingeriscono il veleno e muoiono. Come conseguenza, la frequenza dei geni sensibilizzatori aumenta, e una percentuale maggiore della popolazione acquista la capacità ereditaria di evitare il veleno». Questo esempio è falso. Difatti tutti sanno, a parte i cittadini che possono aver perso ogni contatto con la natura, che i contadini non sono in grado di distinguere i funghi commestibili ( e spesso non tutti) da quelli velenosi per trasmissione soltanto genetica di generazione in generazione. Anzi, non possiedono una sensibilità genetica che possa aiutarli e sono «costretti» ad usare la trasmissione culturale. Certo gli autori hanno qualche ragione contro la perentorietà di affermazioni come quelle dell'antropologo Leslie White, che ritiene che la cultura abbia avuto un'influenza così decisiva sul livello biologico da renderlo «insignificante». Da cui ne discenderebbe che la cultura «muta e si sviluppa secondo leggi sue proprie» senza che l'uomo abbia il potere di controllarle e di dirigerne il corso. Al che gli autori replicano che, in effetti, «non esistono, per la mente umana, maggiori probabilità di essere schiava della cultura che dei geni». E con questo si vendicano gettando sull'avversario le stesse critiche ricevute. Roberto Guiducci Viceversa, White ha parzialmente ragione. Anche Marx aveva affermato che le ideologie dominanti per tutti sono quelle delle classi dominanti. Ma aveva anche precisato che le ideologie delre classi dominanti sono, a loro volta. «mistificate». Infine aveva supposto che se, da un lato, la scienza materialistica e, dall'altro, la «co-scienza» di classe avrebbero potuto, almeno in parte, «demistificarle», solo le «leggi oggettive» della dialettica storica sarebbero riuscite, in misura preminente, a compiere il processo. Ma Marx si era affrettato troppo a considerare «compiutamente storiche» queste leggi, mentre appartenevano a una zona intermedia fra leggi biologiche e leggi storiche, tanto che potremmo definirHamdija Demirovié le leggi ancora preistoriche e semibiologiche. Tuttavia dovremmo chiamarle «leggi semibiologiche di secondo grado», dove al posto dei «geni» stavano, e stanno ancora, i «congegni tecnologici» della rivoluzione industriale. Marx tentò l'impossibile attribuzione alle leggi storiche del carattere di «necessità» delle leggi biologiche, il che è evidentemente contraddittorio. Infatti, il celebre passo del Capitale dice: «La produzione capitalistica genera essa stessa la propria negazione con la fatalità che presiede le metamorfosi della natura». Ma il carattere di sovraimposizione di tendenze strutturali economiche in un dato periodo della vicenda umana, non può certo essere così costrittivo «a lungo periodo» come quello delle tendenze sottostrutturali biologiche. E il ruolo demistificante, da un lato, e progettuale, dall'altro, di sovrastrutture scientifiche, ms1eme chiarificatrici e programmatorie, può anche rapidamente aprire nuove prospettive e nuovi mutamenti sociali radicali. S e l'uomo non è più «schiavo» della biologia, può anche non essere «schiavo» della propria cultura (e, di conseguenza, dei propri sistemi di produzione e consenso, dei propri sistemi politici e di potere, dei propri sistemi di classe o di strato, ecc.). Il contributo che i sociobiologi possono dare (al di là della prima fase da loro stessi smentita) è di richiamare, a chi ancora idealisticamente ritiene che la vicenda umana sia da tempo pienamente storica (e, quindi, condotta.con lucida e precisa coscienza), che questo non è «un fatto» (smentito da milioni di fatti, e basti citare la corsa agli armamenti nucleari abbinata alla corsa a un consumismo senza più oggetto), ma una «progettazione» da effettuare, un «fine» da perseguire. Il problema è dimostrare (su prove che vengano da esperienze passate e presenti) se questo progetto sia possibile, cioè se l'uomo non abbia vincoli così forti, né biologici di primo grado, né semibiologici di secondo grado, da dover rinunciare responsabilmente a una simile «utopia astratta». Ma quello che gli autori sono disposti a concedere è invece, e purtroppo, molto meno. Essi sostengono che «i geni continuano a tenere 'al guinzaglio' la cultura» e che «ad ogni generazione le leggi epigenetiche prevalenti di sviluppo mentale influenzano l'invenzione e l'adozione delle innovazioni culturali. Ma la cultura non è soltanto un'entità passiva. ( ... ) È una forza così potente che trascina con sé i geni. Lavorando come un rigido fattore di mutazione, getta in pasto alla selezione naturale nuove varianti e cambia nel discorso delle generazioni le leggi epigenetiche». In breve, l'influenza della cultura (in tutte le sue manifestazioni) è ridotta al rango di «gettare in pasto» alla selezione naturale l'occasione di qualche mutazione in più rispetto a quelle che già il «caso» provoca (secondo quanto ha dimostrato Monod). Dunque la «cultura» è pari (o meno) del «caso» e può provocare solo lentissime «mutazioni» genetiche che, secondo gli autori, restano quelle fondamentali e irreversibili. Che il cervello umano possegga ormai cento miliardi di cellule (contro le centomila di un baco da seta estremamente «laborioso») conta relativamente, a parere degli autori. Questo cervello resta condizionato da meccanismi biolo· gici per fare anche scelte coscienti. Ancora più esplicitamente: «Le innovazioni culturali si sono comportate come una nuova classe di mutazioni, che ha accelerato l'evoluzione ed ha spinto la specie fino alla presente posizione genetica». L e cause evolutive possono essere, dunque, sia genetiche che culturali, ma il risultato che interessa non è quello culturale bensì quello genetico. Dicono ancora gli autori: «la mente umana è in grado di generare un meccanismo biologico che crea dei fini e da questi il suo stesso significato». Dunque non solo l'«oggetto» ma anche il «soggetto» sono stati e restano biologici. Di qui si passa all'ingenuità: «Al momento non esiste alcuna prova che le qualità essenziali di Carlomagno o del Quattrocento non possano essere spiegate in base a una teoria sofisticata della coevoluzione genetico-culturale applicata alla storia». Non ci metteremo qui a difendere l'originalità di Carlomagno e tanto meno di Cortés o di Napoleone (disposti a consegnarli a codici biologici primordiali), ina non possiamo «ridurre» la cultura del Quattrocento al «riduzionismo» subculturale di alcuni sociobiologi incapaci di controllare il campo in cui si avventurano. Ma, per tener sempre conto delle «ragioni dell'avversario» (anche se mal sostenute dall'avversario stesso, mal pentito e mal convertito a visioni più complesse), possiamo solo aggiungere che una maggior coscienza culturale dei vincoli genetici che abbiamo (e non riconoscerli sarebbe un «riduzionimo culturale» opposto al «riduzionismo genetico»), potrebbe allontanare le presunzioni astratte di una totale libertà umana e portare a una maggiore ricerca di liberazione concreta da quei vincoli. Si può capire, nel nostro campo teso e angosciato - ed esposto alla problematica sempre più aperta che offre la laicità - che si desideri chiarire il più possibile la questione dell'origine deil'uomo come essere del tutto «speciale» nelle vicende delle centinaia di milioni di «~eecie» succedutesi sulla Terra. Ma per affrontare seriamente questa ricerca la via non può essere semplificata. La vicenda umana dovrebbe essere esaminata almeno su tre livelli (ognuno dei quali è composto di numerosissimi sotto-· livelli): quello sovrastrutturale (dove, appunto, stanno la cultura, il pensiero, le idee, le ideologie, le religioni, le credenze e la stessa scienza), quello strutturale (dove stanno i fatti sociali ed economici) g:: e quello sottostrutturale (dove -~ stanno le tensioni psichiche collet- ~ tive e individuali e i fattori biologi- ~ ci e genetici). ~ È l'intreccio di questi livelli che ...., ha dato luogo alla «co-evoluzio- ~ ne». Ridurre questa complessità a ~ un solo elemento dominante e ~ prevaricante è uscire di pista, non trovare la legge o le leggi scientifij lQ che, perdere le orme e le tracce --- ~ dell'essere umano stesso dalle ori- '' gini fino a oggi. Per essere «iper- .:: realisti» inseguire un «fantasma». ~ .Q g 1:3
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