l'occhiom~/~9di Keplero Svetlana Alpers Arte del descrivere. Scienza e pittura nel Seicento olandese trad. di Flavio Cuniberto Torino, Boringhieri, 1984 pp. XVI-416, lire 50.000 Maurice Merleau-Ponty L'occhio e lo spirito trad. di G. Invitto Bari, Milella, 1971 Ruggero Pierantoni L'occhio e l'idea Torino, Boringhieri, 1981 pp. 242, lire 20.000 «L'arte non deve riprodurre il visibile, ma rendere visibile». Paul Klee L, attesa riapertura della Galleria Sabauda di Torino - che ha forse il maggior titolo di vanto nella ricca collezione di pittura olandese, eredità del principe Eugenio di Savoia - ha coinciso con l'uscita, presso l'editore Boringhieri, di un provoking book sui rapporti fra arte e scienza nell'Olanda del Seicento. In un clima di grande favore per gli studi iconologici, l'autrice americana, allieva «critica» di Gombrich, ha l'ammirevole coraggio di imboccare la direzione opposta: la ricerca di codici e stilemi figurativi più o meno inconsci non conviene alla pittura olandese del gran secolo, che è piuttosto, con poche eccezioni (Rembrandt), il regno della «superficie liberata» (p. 59). In antitesi all'arte narrativa del Rinascimento italiano, la pittura nordica è il prototipo visivo della modernità, spe.cchiodi una società agli albori dell'accumulo capitalistico e di una cultura della rappresentazione/descrizione che sostituisce il culto dell'esattezza al fascino ambiguo del simbolismo. Il quadro non è più allora un teatro dove mettere in scena «significati» - le gesta esemplari del mito classico o della storia sacra - bensì il luogo dove l'artista cattura il visibile nella ricchezza immediata delle sue forme e della sua tessitura. Questa civiltà dello sguardo, dai tratti marcatamente epicurei, si innamora dei nuovi strumenti ottici e affida ai suoi artisti il compito di inventariare «con mano sincera e occhio fedele» le meraviglie del visibile. Tutto ciò implica una teoria della visione strettamente «replicativa» (Abbildtheorie), dove la funzione dell'occhio è affine a quella della moderna lastra fotografica, o, per restare in ambito seicentesco, della camera oscura, descritta ad esempio con ingenua ammirazione nella celebre autobiografia di Christiaan Huygens (p. 32). L'immagine della camera oscura ricorre nei libri di ottica (come ~ il manuale di van Beverwyck) e c::s trova un riscontro puntuale nella .s ~ teoria della visione proposta in t::l.. quegli anni da Keplero: «La visio- ~ ne è prodotta da una pictura della °' ....... cosa vista che si forma sulla super- .9 ficie concava della retina» (p. 52). ~ ~ A Keplero il processo a monte _9 non interessa: «Lascio ai filosofi ]:i naturali il compito di discutere in ~ che modo questa immagine sia ~ raccolta dai princìpi spirituali del- ~ la visione, situati nella retina e nei ~ nervi» (p. 55). Siamo insomma al- ~ l'ipotesi del «fantasma dentro la 1 macchina», l'ipotesi di un impro- ~ babile occhio interno terminale in grado di «leggere» l'informazione retinica e di trasformarla in coscienza. In effetti, l'entusiasmo con cui la Alpers abbraccia la causa nordica contro l'egemonia dell'arte italiana, costruttiva, idealizzante, autori'zza a muovere alcuni rilievi teorici. La «novità» di Keplero è a ben guardare il limite gnoseologico della sua ottica: quello di isolare come una fase successiva di cui altri si occuperanno (i filosofi) la metamorfosi mentale dell'impressione retinica in immagine cosciente. Keplero segue lo schema lineare: A - B - C; dove A è la «cosa», B l'immagine retinica e C l'immagine mentale. Ma sappiamo che lo schema è fallace, perché C è in realtà la condizione da cui dipende la possibilità (pensabilità) dello schema. Converrà andarsi a rileggere quel mirabile piccolo libro che è mondo e qui nel cuore della visione» (p. 39). La teoria neurofisiologica parlerà, a questo riguardo, di un effetto «stereoscopico» del vedere: l'immagine mentale viene pensata alla stregua di una pellicola fotografica bidimensionale che si arricchirebbe, per un artificio illusionis ico, dell'effetto-profondità. Ma anche in questo caso l'atto del vedere viene appiattito su una sezione oggettuale del campo visivo, con un processo arbitrario di riduzione del tutto alla parte. Abbiamo qui un classico esempio di come il principio di non .,contraddizione tenda a ridurre l'esperienza fenomenica alle maglie rigide del Divide et impera: il nodo paradossale (Platone direbbe atopos, cioè non situabile) del senziente e del sentito nell'unità dell'atto percettivo viene disarticolato e ricostruito in una serie di momenti discreti e Linton Kwesi Johnson L'occhio e lo spirito di Maurice Merleau-Ponty, dove la critica della teoria cartesiana (qui kepleriana) della visione funge da premessa a una teoria della pittura molto lontana dai canoni imitativi. Il rapporto tra la cosa e l'immagine visiva «non si vede» (lo schema che lo visualizza è un'astrazione); e neanche l'immagine a rigore «si vede», perché l'immagine è piuttosto l'atto stesso del vedere: ciò che si vede, la cosa, è già a sua volta un momento di quel processo astrattivo che discrin1ina l'esperienza visiva in un polo senziente e in un polo sentito. La cosa sta al vedere come il cristallo alla sua acqua madre (p. 34). A che si deve allora la fortuna di tale modello ottico nel pensiero occidentale? Il fatto è che il modello cartesiano-kepleriano ha il grosso pregio apparente di eliminare quell' «ubiquità» in cui consiste il paradosso della visione. Quell'ubiquità per cui «la stessa cosa è laggiù nel cuore del rappresentabili (come nello schema). Ne segue una interpretazione del soggetto come recipiente passivo (la Alpers parla addirittura di un «occhio morto») molto vicino alla famosa statua di Condillac. Quando in realtà è proprio la fisiologia della percezione a sottolineare l'estrema complessità dei meccanismi che presiedono alla «costruzione» dell'immagine visiva (si veda ad esempio il bel libro di Ruggero Pierantoni, L'occhio e l'idea, pp. 54 sgg.). Non c'è insomma modello ottico più fuorviante della camera oscura. Nel processo stratificato del vedere e del riprodurre, accanto ai moduli percettivi studiati dalla teoria della Gestalt intervengono moduli stilistici che operano come criteri di selezione inconsci: «Ogni stile mira a rendere la natura e nient'altro, ma ognuno ha la sua concezione della natura» (E. Gombrich, Arte e illusione, p. 21). Da una teoria banale della pittura come mimesi si passerà allora a una concezione più complessa, dove «la visione del pittore non è più uno sguardo su un 'fuori', relazione fisico-ottica col mondo. Il mondo non è più davanti a lui per rappresentazione: è piuttosto il pittore che nasce nelle cose per concentrazione del visibile che arriva a lui» (L'occhio e lo spirito, pp. 65 sg.). Non riprodurre il visibile, ma sichtbar machen, secondo l'aurea citazione di Klee posta in epigrafe1 • I n questa ansia di annullare lo stile, di eliminare i diaframmi interpretativi avallando una teoria improbabile e tuttavia rigorosa dell'occhio vergine, c'è una passione riformatrice e «puritana» che la splendida documentazione iconografica testimonia con puntualità esemplare. Nella lucida recensione al libro termini moderni, una scelta della natura contro la cultura intesa come tradizione, patrimonio di conoscenze e credenze fissate in abiti mentali. Si profila dunque un paradigma conoscitivo per cui, come ogni cosa ha il suo nome, ogni cosa ha la sua figura (la Alpers non sembra qui rilevare che la varietà delle lingue già configura una varietà di stili, se non altro come stili di classificazione). È una condanna a morte della metafora, che diventa cartesianamente la «pazza di casa»: condanna solidale, non a caso, con la riduzione protestante dell'esegesi scritturale a indagine storico-critica. La dottrina dei livelli molteplici della Scrittura (fondata su una metafisica dell'analogia entis) si riassorbe nella presunta perspicuità della lettera, la pura e genuina lettera dell'Evangelo. Il forte contraFranco Beltrametti, Giovanni D'Agostino e Antonio Porta della Alpers pubblicata sulla New York Review of Books (n. 10, 1983), Ernst Gombrich critica il richiamo dell'autrice a Bacone come poco pertinente (perché sarebbe Bacone il primo a diffidare delle impressioni sensibili). E tuttavia c'è in Bacone un'ansia di riforma che la Alpers non può non sentire congeniale. Arte del descrivere è un libro essenzialmente puritano, o addirittura rousseauiano nella sua difesa della natura incorrotta contro le sofisticazioni della memoria storica. Se l'essenza della Riforma è il ritorno alla purezza della Parola liberata dalle mediazioni del clero, il programma baconiano vuol essere un ritorno alla natura sottratta alle mediazioni ingombranti dell' auctoritas. E lo strumento per réstituire la natura alla sua purezza è l'osservazione, lo sguardo non preconcetto dello scienziato induttivo che raccoglie i dati del suo sapere come l'ape laboriosa accumula il polline nei suoi favi. La lotta baconiana contro gli idola è, in sto visivo tra gli interni nudi, ascetici, delle chiese di Saenredam e l'enfasi barocca dei Miracoli di Sant'Ignazio di Rubens (figg. 113115) diventa così emblematico del contrasto fra due culture (latina e nordica, cattolica e riformata), ma più ancora di due paradigmi conoscitivi antitetici. Il movimento espressivo, la dialettica interno/esterno cede il passo nella pittura olandese a una celebrazione dell'apparenza come il solo luogo legittimo dei significati. C'è una stampa di Saenredam che non potrebbe illustrare meglio questo «disincanto» del vecchio mondo, fondato sul principio di similitudine. Negli anni della guerra contro la Spagna circolava una stampa popolare sulla miracolosa apparizione di strane figure nel midollo di un albero vicino ad Haarlem. Quelle figure apparivano come silhouettes di prelati romano-cattolici, segno funesto di una prossima invasione spagnola. Con gesto laico e illuminista, alla stampa del «miracolo» Saenredam
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