Cfr. Schede I figli della scienza Marisa Fiumanò I figli della scienza e Il destino di Monique: una raccolta di saggi e una storia a fumetti che idealmente la illustra. Dell'una e dell'altra le autrici sono donne. La raccolta di saggi affronta, secondo ottiche disciplinari diverse, il problema della riproduzione artificiale; ha il merito di inaugurare in Italia la riflessione teorica su un tema inquietante e provocatorio. Inquietante perché l'agire scientifico, non più solo rivolto a intervenire sul corpo sterile della donna ma sul prodotto della procreazione, rompe l'involucro immaginario che nasconde il «reale» dell'origine e ne consente la rappresentazione (la scienza, denudando il «reale», pretende di rendere «visibile» il mistero della nascita attraverso l'isolamento delle su~ componenti primitive: ovulo/sperma o embrione). Provocatorio perché scardina i modelli culturali di paternità e maternità e costringe a interrogarsi su due funzioni che possono essere, ma non necessariamente sono, anche biologiche. Costretto ad assembrare tesi che richiederebbero un più ampio sviluppo tematico, il libro soffre del suo stesso pregio, vale a dire della tempestività nell'affrontare un problema così esplosivamente attuale, e di uno sforzo pionieristico. La prefazione della curatrice, Marina Sbisà, avverte che sono state intenzionalmente escluse considerazioni di carattere etico: questo è il tratto di stile che unifica i diversi saggi, per il resto eterogenei. Quello di ispirazione psicoanalitica, di Silvia Vegetti Finzi, avanza una tesi - in risposta alla domanda: perché le tecniche di fecondazione artificiale incontrano il favore delle donne? - che è una lettura .dell'immaginario femminile sulla maternità. Una donna incinta - sostiene quest'autrice - aspetta sempre un bambino e il suo doppio: il bambino reale, «figlio del giorno», che nasce e si stacca progressivamente dalla madre per entrare nel circuito simbolico dello scambio, e il «figlio della notte», mai nato, immagine perfetta elaborata fin dall'infanzia e conservata gelosamente intatta dentro di sé. La scienza può intervenire sul «bambino del giorno» che la donna, in qualsiasi modo venga fecondata, riceve come dono che viene dal di fuori, da un esterno a sé, ma non su quello «della notte» che continuerà, immaginariamente, a restare «dentro», a fare tutt'uno con la madre. Quella che ho chiamato l'illustrazione di questo tema, sono i deliziosi disegni di una matita ormai celebre. La storia di Monique di Claire Brétecher è una lunga strip che narra, con affettuoso sarcasmo, i paradossi del desiderio di maternità e gli effetti tragicomici provocati da un embrione congelato nel suo sconclusionato viaggio attraverso il mondo. La frizione• tra il «reale» dell'embrione, asportato dall'utero in cui è stato concepito, trapiantato in quello di un'altra donna, prelevato di nuovo, ' perduto e infine infranto, e il putiferio di·passioni che genera tra gli esseri umani che tocca, genera il comico. A un secondo livello, pm inquietante che umoristico - e da cui Io humour ha la funzione di proteggere-, al confine tra il vivente e no, tra l'umano e l'alieno, tra il meccanico e l'animato, l'embrione occupa il posto di perturbante e inafferrabile oggetto-resto del desiderio; in quanto tale circola, provocando il desiderio di ciascuno senza mai farsi annettere. Come un'erba maligna attecchisce facilmente: nel ventre di Monique, in quello della sua domestica e nella pancia di una mucca; sopravvive a ogni manipolazione fino a rompersi, col suo contenitore, per un incidente banale che, si suppone, è un espediente per chiudere la storia. Altrimenti, a rispettare la logica del percorso di questo «oggetto a», il suo viaggio non avrebbe avuto mai fine. L'embrione, quel «non ancora bambino» al di qua del sesso, dunque non ancora umano, persegue la logica di sopravvivenza propria della specie, indifferente al «come» e al «dove» del concepimento (in questa o in quella donna, da un rapporto sessuale o per innesto artificiale) e anche all'etica e ai sentimenti umani. Al fondo, quello che la sapiente ironia della Brétecher mette in scena, è la meccanicità - angosciante - della riproduzione biologica. I suoi aspetti paradossali, cioè disumani, vengono enfatizzati per produrre due effetti antinomici e sincronici: far balenare una verità inquietante e contemporaneamente tenerla a distanza. È la funzione del motto di spirito: esorcizzare un «reale» inconsciamente ammesso ma rimosso. In questo caso rappresentato dall'embrione, meccanico ammasso di cellule, «già» bambino solo nell'immaginario di Monique. Autori vari I figli della scienza. Riflessioni sulla riproduzione artificiale a c. di Marina Sbisà Milano, Emme ed., 1985 pp. 175, lire 18.000 Claire Brétecher Il destino di Monique Milano, Bompiani, 1984 pp. 72, lire 12.000 mune denominatore della 'condizione postmoderna'; supervisore e coordinatore filosofico dell'iniziativa è infatti Jean-François Lyotard. Le parole-chiave del volume, o almeno le principali, sono la fine del Soggetto, l'ibridizzazione, la Sfinge e, appunto, gli Immateriali. La fine del Soggetto, argomento comune a diverse filosofie del momento, corrisponde non solo al declino del cartesianesimo in quanto filosofia del soggetto 'misura delle cose', ma al passaggio a un'epoca - di lunga durata - in cui «le strutture, le matrici di senso non sono stabilite, ma devono essere incessantemente ristabilite». L'ibridizzazione - titolo di uno dei saggi più convincenti - si riferisce invece alla connessione 'innaCarmelo Pistillo ·turale' (secondo l'etimo di ibrido: 'anormalmente riunito') tra uomo e oggetti tecnici, tra sensi umani e loro prolungamento; l'ibridizzazione, dal greco hybris, non può che essere violenta, «poiché deve fondere esseri e cose di specie differenti». Nell'ibrido uomo-macchina (o Sfinge), la seconda acquista una relativa autonomia; nel funzionamento interattivo di un sistema informatico, la macchina sarebbe addirittura dotata di una certa 'responsabilità' (p. 126), essendo capace «di emettere a sua volta un messaggio» che non è semplice replicazione di un modello prefissato. Passando da un'immagine analogica delle cose a una digitale (numerica), «più particolarmente quando essa è associata a modi conversazionali, la situazione dello spettatore, o più generalmente del Soggetto di fronte all'Immagine, è divenuta tutt'altra» rispetto al cogito cartesiano, Soggetto pensante e affermativo. In questa rete di immagini numeriche, di segnali elettrici, lumir-·······················, 1Duelettere; idaspedirei i a testesso i : alfàbeta : ■ Mensile di informazione culturale : ■ diretto da: Balestrini, Calabrese, Corti, Di Maggio, Eco, Leonetti, ■ ■ Porta, Rovatti, Sassi, Spinella, Volponi ■ ■ Abbonamento per un anno (11 numeri) Lire 40.000. ■ ■ .,. Inviare l'importo a Cooperativa Intrapresa ■ ■ Via Caposile 2 20137 Milano ■ • Conto Corente Postale 15431208 • •••••••••••••••••••••••••• Un cambiamento lento e pesante Paolo Vineis Il volumetto a più voci Les Immatériaux, pubblicato a latere e a complemento della mostra - in corso al Centre Pompidou di Parigi dal 28 marzo al 15 luglio (cfr. Alfabeta n. 72 di maggio 1985) - riprende e sviluppa alcuni dei temi della mostra. Esso intende porre a confronto diversi campi del sapere (scienze, arti, diritto) sotto il conosi e di onde hertziane, di cavi, fibre ottiche e satelliti, si verifica un cambi,Ìmento «radicale nei rapporti tra l'uomo e la sua realtà: l'immaterialità. Gli immateriali sono concetti che l'uomo manipola per penetrare la materia, ma anche 'oggetti' con i quali l'uomo deve confrontarsi con l'intermediazione di una macchina, di un calcolatore, di un apparecchio di misura». Questo mutamento implica una situazione di crisi, poiché l'uomo è «disperatamente trascinato dalla tecnologia». La condizione postmoderna viene così identificata con un «cambiamento lento e pesante, lungo quanto la modernità», che è in costante ricerca di una legittimazione (Lyotard). Les Immatériaux. Modernes et après Paris, Ed. Autrement, 1985 ff 69 Prepotente musicalità Antonio Porta Quando si ripubblica, in una collana non diretta esclusivamente a «specialisti», un classico, sia pure «minore», viene spontaneo chiedersi se sia «attuale». Sarebbe meglio, come ha proposto Giuseppe Pontiggia qualche tempo fa, parlando di Virgilio, domandarsi: se noi siamo «attuali» per il classico che rileggiamo. In altre parole significa misurare la nostra capacità di disinquinarci dai nostri abituali, e dunque sempre «attuali», condizionamenti culturali. È questa la prospettiva di lettura che interessa, oltre l'apprezzamento per le pregevoli e indispensabili interpretazioni filologiche. Nel caso di una nuova edizione delle canzoni e dei sonetti di Dino Frescobaldi (1271-1316) occorre ammirare il paziente e informatissimo lavoro del curatore, Furio Brugnolo, in grado di soccorrerci, con chiarezza filologica, nell'individuazione delle scorie della retorica del tempo; ma bisogna fare subito un passo più in là, quasi chiedendo soccorso alla «macchina del tempo» e trovare i punti in cui noi, lettori inquinati, possiamo a nostra volta liberarci delle incrostazioni e cogliere quella trasparenza di senso che fa di un abile poeta quello che chiamiamo, appunto, un «classico». Ciò che colpisce e persuade in Frescobaldi e ci fa di lui «attuali», è la secchezza della pronuncia, la fulmineità del dettato che ha sì un valore storico (testimoniando del passaggio dallo «stil nuovo» a quello «medio», che sarà dell'Inferno dantesco, come si sa) ma con una forza autonoma che arriva fino a noi (o che ci fa arrivare fino a lui). Prendiamo, ad esempio, questi attacchi in medias res, capaci di intonare istantaneamente una prepotente musicalità: «Donna, dagli occhi tuoi par che si mova/ un lume che mi passa entro la mente ... »; oppure: «Quest'altissima stella, che si vede/ col su' bel lume, ma' non m'abbandona ... »; ancora: «No spero di trovar giammai pietate / negli occhi di colei, tant'è leggiadra. / Questa si fece per me sottil ladra, / che il cor mi tolse in sua giovane etate», dove colpisce la deliziosa immagine della «sottil ladra». La fortuna di Dino Frescobaldi attraverso i secoli è variamente testimoniata, ma vale la pena di ricordare la menzione di Boccaccio che lo indica come «in quei tempi famosissimo dicitore di rime in Firenze», definizione che ci riconduce alla poesia orale o anche scritta per essere detta. Allora si può azzardare l'ipotesi che la velocità di dettato di Frescobaldi (al pari di certe convenzionalità che smorzano una parte della sua pur esigua opera poetica) dipenda dalla necessità di una dizione che non poteva essere troppo elaborata. Su questo terreno la nostra attualità nei suoi confronti diventa più ricca perché teniamo sempre più in conto la necessità della pronuncia della poesia. Dino Frescobaldi Canzoni e sonetti a c. di Furio Brugnolo Torino, Einaudi, 1985 pp. XVIII-96, lire 7.000
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