Alfabeta - anno VII - n. 73 - giugno 1985

nianze storiche più antiche, poche righe disseminate in centinaia di pagine, ma è una presenza quasi fisica in sordi rombi di tuono, difficile da dimenticare e improbabile da inventare. Sotto il peso della saggezza Confucio si aggira tra corti e palazzi seguendo i suoi princìpi, che afferma essere quelli della tradizione, da lui stesso inappellabilmente reinterpretata e dagli altri disattesa. È estraneo a tattiche e opportunismi. Approva qualche morto, biasima quasi tutti i vivi. In visita di condoglianze a un signore feudale, si strappa le insegne del lutto perché il comportamento del duca è scorretto. Quando un signore accetta un dono· di ottanta danzatrici, che lo distraggono dai doveri di governo, come previsto dal donatore, Confucio parte. Come la motivata assenza, la sua semplice presenza anche muta è offensiva per i politicanti dediti a imbrogli sulle tasse, prevaricazioni pubbliche e private, promozioni ottenute per scambi provvisori di ·moglie meriti omosessuali. L'omicidio è praticato a livello di furto d'uso, ma talmente anomala (eppure tradizionalmente cinese) è la personalità del Saggio e così Franco Fortini • ~- Insistenze Milano, Garzanti,, 1985 pp. 306, lire 23.000 ( Lo sguardo è là ma non· vede una storia I di sé o di altri. Non sa più chi sia I l'ostinato che a notte annera carte I coi segni di una lingua non più sua / e replica il suo errore. / È niente? È qualche cosa?/Una risposta a _questedomande è dovuta». Sono versi di Paesaggio con serpente. Probabilmente i cinquanta articoli, che ora Franco Fortini ha riunito (dopo averli pubblicati fra il 1976 e il 1984 sul Manifesto, sul Messaggero e soprattutto sul Corriere della sera) in Insistenze, vogliono essere questa «risposta». L'atto di un dovere, dunque: «Una risposta ... è dovuta». Ma presuppongono gli interrogativi, anche autocritici, di uno scrivente «ostinato» che sente sfuggire il senso delle cose e quello della sua stessa scrittura. Se la poesia rappresenta il momento del dubbio e della domanda, le prose tentano risposte tanto «ostinate» quanto categoriche. C'è in esse, in effetti, un ritmo ossessivamente ripetitivo, un'aggressività immobile e come ghiacciata, fissa e caparbia, che non può essere intesa adeguatamente se collocata fuori delle interrogazioni radicali dei versi, della sensazione di smarrimento e di estraneità che essi suggeriscono e a cui l'autore fa fronte con un appello al dovere. Al solito, quando gli eventi sembrano smentire ogni speranza di destino o di «storia», Fortini reagisce con un movimento che è, insieme, di resistenza e d'innalzamento. E infatti più gli fanno intorno il vuoto, più la sua voce acquista vigore, e la sua difesa del passato e della memoria diventa annuncio solitario di futuro. Come intellettuale e scrittore, Fortini ha sempre avuto bisogno della risonanza sorda del vuoto intorno alle sue parole: è sempre cresciuto su se stesso. Solo il dissenso, la solitudine, il vuoto - dunque, quella estraneità e quello smarrimento - temuto il prestigio del suo sapere, che neppure osano liberarsene nei consueti modi ufficiali del tempo, la calunnia seguita da esecuzione immediata. Confucio è inevitabilmente nemico di tutti, nessuno osa manifestarsi suo nemico. Forse qualcuno gli era anche riconoscente per aver ridotto da oltre tremila a poco più di trecento le «odi» canoniche, quelle•che uno statista rispettabile doveva saper citare cantando, a botta e risposta. Si limitano a non dargli potere, vive fino a tarda età una vita errabonda e relativamente oscura. Dopo la morte prenderà il potere. In suo nome sarà esercitato per millenni dai confuciani che ne pietrificheranno l'ideologia in una pratica stravolta, contro la quale ancora oggi si combatte. Nei secoli sarà nominato conte, duca, re, infine dio. Non avrebbe approvato. L o Tso chuan è costruito in stilemi sintattici scheletrizzati, affrontando a colpi di ko (alabarda rituale) il problema dell'espressione. Stilisticamente è un unicum nella letteratura cinese, a parte la successiva pallida imitazione (in passato erroneamente attribuita a Tso stesso) del Chan K'uo Tze ovvero Gli intrighi dei Regni Combattenti. Per trovare qualcosa di equivalente è necessario arrivare alle ribollenti mezze pagine dei «saggi brevi» di Lu Xun. In anni recenti, Yoshikawa Kojiro e Burton Watson hanno dedicato al Libro di Tso dettagliate analisi, usando i più moderni mezzi di indagine. Watson ha anche indicato, per quanto possibile, di qualche brano una traduzione letterale, qui purtroppo non ritraducibile per ragioni di spazio. Qualcosa come «Bevvero» (cerimonia di riconciliazione tra signore e vassalli), «Odio divampò» (avevano riserve mentali), «Disse (un previdente) forse uccisioni (verranno)?» (tutti periranno di morte violenta in tempi brevi). Al confronto, Tacito diventa Daniello Bartoli. Se la scrittura cinese è quasi sempre concisa e polivalente, la prosa dello Tso è da cardiopalma. In molte frasi non è indicato il soggetto, o il verbo, o l'oggetto. A ogni brevissima frase è necessario fermarsi e imprimersi bene il significato per comprendere la successiva, o al contrario è impossibile interpretare la prima senza aver afferrato la seconda o la terza. A volte si incontrano di seguito tre brevi frasi dove mai è indicato il soggetto che è sempre diverso e in ciascuna uccide. L'interpretazione possibile è quasi sempre una sola, ma «sembra che l'autore abbia scritto per costringere il lettore a praticare un tale sforzo mentale, e da questo raggiungere un'alta soddisfazione intellettuale» (Watson). Leggere il testo cinese, riferisce chi è in grado di farlo, è sottoporsi a una continua scarica di colpi che arrivano da direzioni imprevedibili, come lampi nel buio. Una traduzione non può dare tanto, né tanto esigere dal lettore, e l'italiano è forse la lingua occidentale più lontana dal cinese nella concisione e nei suoni. Tomassini ha duramente lavorato per non tradire lo spirito del testo e aiutare il lettore. A mio avviso la sua versione, forse a volte un po' troppo formalmente esplicativa, è meno legnosa dell'inglese ottocentesco di Legge e meno accademica del francese invecchiato di Couvreur. Watson ha tradotto splendidamente (non alla lettera!), ma limitandosi per quanto ne so a poche L'insistente possono alimentare la durezza pertinace e tagliente delle «risposte». 'Il titolo del libro implica certamente i due sensi a cui accenna l'autore nella premessa al lettore: quello più semplice e immediato, e l'altro indotto dall'aggiunta di una e: inesistenze. Né si tratta di una boutade o, tanto meno, di una civetteria d'autore in vena di modestia: la crisi d'identità che i versi citati denunciano è già un presagio d'effettiva inesistenza («Non sa più chi sia/ l'ostinato ... »). E tuttavia la reazione a tale crisi, se da un lato si fa insistenza nel senso elementare del termine, dall'altro diventa aggressività. Non trascurerei il significato etimologico di «stare sopra» o anche, come .in Livio, di «incalzare», . «stare addosso»: hostibus insistere. Senza una qualche carica di sadismo (corrispettivo necessario, d'altronde, alla macerazione masochistica di chi punta sul momento superegotico) non si darebbe la costante tenuta polemica del libro. Su uno scenario vuoto, dantesco, Fortini fa ricadere, martellando, la sua sorda aggressività. Gli ideologi alla moda, i teorici della «differenza», i neognostici, i seguaci del «Nietzsche di tutti», sono 'incalzati' e straziati: Fortini gli 'sta sopra': «così 'l sovran li denti a l'altro pose / là 've 'l cervel s'aggiunge con la nuca». A Fortini l'isolamento giova. Romano Luperini ri», che infatti risale addirittura al 1973), ora non si cura affatto di conquistare proseliti di massa, di essere chiaro, semplice, facilmente persuasivo. Sa troppo bene che la chiarezza comporta una buona dose di acquiescenza alle idee correnti e dominanti. Anche in ciò è molto diverso da Pasolini. Naturalmente il 'genere' letterario è lo stesso: la prosa etico-politica destinata a un quotidiano, secondo un taglio che proprio Pasolini rinnovò in modo decisivo. Ma mentre questi, «luterano» e «corsaro», puntando sul vissuto e sulla visceralità, anticipò e in qualche misura promosse il «movimento» giovanile degli anni Settanta (la «critica alla politica», l'indistinDopo che con pochissimi aveva -• preparato il '68, la sua voce si era un po' affievolita negli anni successivi, quasi disturbata dal consenso che masse considerevoli di giovani sembravano dare alle sue profezie. Ora che i tempi gli sono contrari, è tornato il suo momento. F ortini non tollera il consenso: nemmeno con le proprie posizioni. Se nella prima metà degli anni Settanta si era preoccupato di distinguere e di distinguersi prendendo le distanze dall'immediatismo panpoliticista di quella «nu@vasinistra» che pure aveva contribuito a far crescere (si veda, in questo volume, I «limiti oscuzione fra «pubblico» e «privato», la scelta dell'immediatezza), Fortini ha optato sempre per la mediazione e per la dialettica, e tende a una scrittura ellittica, strabica, a un recupero, dissonante, della tradizione 'alta' da tagliare, e intagliare, a colpi d'accetta: che lo rendono non solo stridente, ma, spesso, volutamente sgradevole. Fortini gioca sul «valore», sulla «gerarchia», sulla contraddizione costitutiva della «scrittura-lettura»: esercizio «aristocratico» che esige l'eguaglianza ed è «un appello alla libertà-azione». Provocatoriamente ostenta i suoi maestri: tutti fuori di moda. Contro Nietzsche, Ritschl; e poi Marx e Mao; Lenin e Trockij, Sartre e Adorno, Gramsci e Lukacs. Altri, pure suoi maestri giovanili, come Proust e Benjamin, ora li rifiuta perché colpevoli di prestare argomenti ai suoi avversari di oggi. Anche in questo caso l'aspirazione alla inattualità appare così fondativa che può agevolmente essere definita organica, tanto è connaturata col suo progetto intellettuale (anche se ora viene alla luce con una felicità proporzionale all'opposizione dei tempi). A commentare un'immagine televisiva (quella dei soldati statunitensi che trascinano per i piedi i cadaveri dei negri caraibici ammazzati durante l'invasione di Grenada) può servire allora la pagina dell'Iliade in cui Achille trafora i tendini di Ettore e lo travolge intorno alle mura di Troia. Ma non si tratta di una civetteria letteraria o di gusto archeologico: è in questione qui quel «pessimismo biologico e storico» di cui l'autore parla nella premessa e che può essere vinto solo con un gesto di sublimazione etica. (Andrebbe meglio analizzato - vi accenno qui solo di passata - il nesso tra tale pessimismo e rigore politico o etico nel pensiero borghese e rivoluzionario di cui Fortini è indubbiamente erede: da Manzoni a Lenin, tanto per fare dei nomi estremi, entrambi legittimati dalle preferenze culturali dell'autore). N on che Fortini rifiuti l'irrazionale e l'inconscio; solo, avverte il bisogno - come scrive - di «guardarli in faccia»: che è espressione anche di sfida. Li vede, infatti, ormai pervasi e permeati dal lavorio sordo, costante, capillare della società del consumo e dello spettacolo: la società del surrealismo di massa, ove anche la memoria involontaria è un effetto dei meccanismi di produzione. Insomma, l'inconscio è politico, sembra avvertirci Fortini (in strana, ma non casuale, sintonia con l'ultimo libro di F. Jameson, A Politica/ Unconscious). E decine di pagine. La traduzione italiana è la sola recente integrale disponibile, a parte una in russo. Il Libro di Tso è un capolavoro • letterario. Lo si può leggere in italiano semplicemente abbandonandosi al martellamento della narrazione con l'aiuto delle note di Tomassini, superando o no la consueta difficoltà del lettore occiden- . tale a memorizzare i nomi cinesi. • Un impegno ulteriore può essere seguire le spiegazioni (invece di saltarle) che il testo di Tso dà delle enunciazioni sibilline di Primavera e Autunno. Interpolazioni arbitrarie o no che siano, è modo di conoscere un aspetto non •secondario della cultura cinese. Fermo il diritto dei turisti occasionali di andare in giro per il mondo ignari a stordirsi di forme e colori, un intellettuale di professione o equiparato che volesse viaggiare in un paese lontano togliendosi prima la sveglia dal collo, potrebbe predisporsi con la lettura di qualche libro scritto in quel paese. Per la Cina, metterei in nota il volume curato da Tomassini. A parte il piacere di viaggiare sulla· carta stampata. Chi lo pratica sarà preso dallo Tso chuan. , :là •dove schiere di sociologi e di sindacalisti, apologeti dell'ultima rivoluzione, industriale, scorgono nel rifiuto del tempo lineare e del • tipo di lavoro che gli corrisponde e nell'esaltazione del moratorium giovanile (ossia del tempo d'attesa dentro e fuori del lavoro) un modello ideale per tutti (anche per i lavoratori adulti), egli vede negli interminabili precariati un'esigenza del mercato mondiale («il mercato mondiale ci pensava lui a non far crescere figli e nipoti e a bloccarli in immaturità e impotenza»). È una citazione tolta da un articolo della terza sezione del libro, la più ricca e originale, quella in cui Fortini più si confronta con l' 'altro': i «limiti oscuri», le ideologie dei giovani, il rapporto fra pubblico e privato, «la retorica del suicidio». Se nelle altre il bisogno di dare «risposte» è prevalente sul dubbio o sugli interrogativi iniziali, qui, invece, anche se duramente «guardati in faccia», i «limiti oscuri», con la loro teoria di domande cruciali, costituiscono il fondo compatto entro cui si stagliano le argomentazioni dell'autore. È la sezione più vicina a Fortini poeta. Con Insistenze Fortini ci appare l'erede più rigoroso e coerente della cultura del '68. Può essere discusso; anzi, ovviamente, deve. Certi nodi (ad esempio, quello che nel suo libro unisce ecologia della letteratura e rivoluzione sociale) probabilmente dovrebbero essere stretti con maggiore cautela. Una cosa, però, non si può fare: far finta che non abbia parlato, oppure (ma le due operazioni hanno lo stesso effetto) reintrodurlo sottobanco nel grande .calderone della 'O perfetta equivalenza in cui non si c::s danno più opposizioni, tutto è -S ~ uguale a tutto e nessuno contraddice nessuno. Non è successo che ~ uno di-quei neognostici che Fortini ~ prende per il bavero si sia levato ~ tanto di cappello e, con un paio di ~ giravolte e quakhe esercizio di ·èi'o equilibrismo, abbia visto in Fortini ~ «la perentoria tenerezza della pie- ~ tas» (vedere, per credere, L'indi- ~ ce n. 2)? l - c::s

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