v1ere, rispetto alla quale l'unica cosa da fare è quel tentativo di «rifare la propria vita» nel quale Artaud sarà (inutilmente?) impegnato fino al 1948. Se la letteratura ha continuato ad avere in questo secolo l'idea dell'Opera come punto di partenza, e come ancoraggio anche nelle più spericolate avventure artistiche, per Artaud è diverso: quel che importa è trovare «un mezzo di liberazione totale dello spirito», operare una completa «metamorfosi delle condizioni interiori dell'anima». Di qui la solitudine irrimediabile di Artaud, il carattere unico e probabilmen_te irripetibile della sua esperienza. Per un certo periodo, in verità, sembrarono impegnati su questo terreno i surrealisti, e questo spiega l'adesione di Artaud al movimento, e il ruolo centrale che in esso giocò, sia pure per un breve periodo (ed è questo uno dei capitoli più interessanti della ricerca di Bonacina). Breton ha scritto che su una cosa i surrealisti erano sicuramente tutti d'accordo: sul fatto cioè che «il mondo sedicente cartesiano che li circonda è un mondo insopportabile, mistificatorio senza comicità, e contro il quale tutte le forme d'insurrezione sono giustificate». Ma, poi, prevalsero altre preoccupazioni, e in primo luogo l'eterna illusione di potere incidere direttamente sulla prassi, sui processi della realtà. Inevitabile la rottura, e il corollario abituale di insulti sanguinosi, di insinuazioni, di reciproche incomprensioni. Se Artaud diventò per i surrealisti poco meno che un «agente imperialista», per lo scrittore i surrealisti si trasformarono nella «peggior banda di fessi che io abbia mai incontrato». Un capitolo, quello dei rapporti tra i surrealisti e le varie dissidenIl ritorno Caro amico, in queste ultime settimane, con molti dei fuorusciti italiani a Parigi, abbiamo drammaticamente discusso dell'uccisione di Pedro Greco, a Trieste, mentre tornava dal/'esilio. Pour cause, ne abbiamo discusso: Pedro ha tentato di ritornare, lo hanno ammazzato. Tutti noi vogliamo tornare... Certi settori della magistratura e della polizia, con l'uccisione di Pedro ci hanno dato una risposta anticipata. A noi è sembrato che i mandanti di quest'assassinio potessero essere identificati in quei politici e in quei giudici che instancabilmente intossicano la stampa e i rapporti internazionali fra Stati, inventando che da Parigi si intessono intrighi terroristici e mene insurrezionali. Comunque, al di là delle responsabilità in questa morte, è certo che molti sono ancora coloro che non vogliono accettare di procedere sul terreno della pacificazione in Italia. Ora, la morte di Pedro Greco è imperdonabile. Non è con dei discorsi politici che ne dimenticheremo il dolore e l'avvertimento. Eppure essa è anche sintomo, ci sembra, delle contraddizioni che la proposta del ritorno, che da tempo presentiamo e che tutti fingono di ignorare, sta invece effettua/mente determinando. Intendiamo: ritorno dei fuorusciti al loro paese, ritorno dei carcerati alle loro famiglie, e soprattutto ritorno di una generazione alla vita civile e alla lotta politica. Pedro aveva tentato di ritornare: lo hanno ucciso. Noi vogliamo rientrare: non abbiamo altra risposta da attenderci da parte dello Stato? Per parlare di dissociazione senza ze (quella di Artaud in primo luogo, ma non meno importante fu quella del «Grand Jeu») fondamentale per gli sviluppi della ricerca letteraria negli anni tra le due guerre e subito dopo. Non a caso Jean-Paul Aron dedica uno dei primi capitoli del suo recente pamphlet Les modernes alla conferenza di Artaud al Vieux-Colombier. Per denunziare da un lato l'opportunismo e la fatuità di quegli intellettuali pronti a rendere ad Artaud il più esaltato degli omaggi, dopo averlo osteggiato, e magari sbeffeggiato e offeso negli anni precedenti; e dall'altro per rinnovare alcune vecchie accuse e luoghi comuni allo stesso Artaud, in nome di una sorta di processo di pentimento, alcuni di noi hanno, negli anni più terribili della repressione, dovuto attendere che un giudice irresponsabile e impunito mandasse il giovane Soldati a farsi uccidere a Cuneo. Perché solo l'indignazione rende aperte le intelligenze e irresistibile la necessità di comprendere i bisogni? Per parlare di ritorno, sarà stata forse inutile anche la morte di Pedro? Il tema del ritorno è, non occorre dirlo, tutto politico - ma anche singolarmente impolitico. È tema del ritorno di una generazione alla vita civile del pròprio paese. Non è quindi un problema esclusivamente giudiziario: come sarebbe possibile affidarne la soluzione a una magistratura spesso travolta da avventurismo inquisitorio e colpevole di eccessi punitivi? I limiti che la legittimità pone alla legalità sono stati cancellati - potremo più chiedere agli operatori della legalità una qualche sensibilità alla legittimità democratica? Non è neppure, questo del ritorno, un tema che si possa esclusivamente affidare ai politici dei partiti del sistema costituzionale. Su questo tema essi sembrano infatti bloccati da una specie di riflesso della pur defunta «unità nazionale» e da un paralizzante reciproco scarico di responsabilità - ciò ha come premio la subordinazione del politico ali'estremismo delle più repressive corporazioni, giudiziarie e no, quando non configuri un puro e semplice rigurgito reazionario. In queste condizioni il tema del ritorno, nella sua profonda politicità, appare dunque come singolarmente impolitico. Può solo essere affidato a tutti gli uomini di buona volontà che vivono fuori e dentro le istituzioni - governative, partitiche, parlamentari, ecclesiali, giudiziarie, ecc. Perciò, noi non chiediamo loro di unirsi sulla base della loro appartenenza istituzionale: noi chiediamo loro di operare unitariamente, con ragioazzeramento e normalizzazione che riporta dritti agli anni Cinquanta («si vede una sala in trance applauclire a quel discorso demente, la follia imporsi come un genere di consumo corrente ed esaltare l'ideologia del segno senza contenuto, del suono che non promette niente più di quel che procura»). In realtà, come dice Derrida con riferimento specifico al teatro (ma il discorso può facilmente estendersi all'intera esperienza di Arta ud), questo autore «non intraprende né un rinnovamento, né una critica, né una messa in questione del teatro classico: egli intende distruggere effettivamente, attivamente e non teoricamente la civilizzazione occidentale, le sue religioni, la filosofia che fornisce il nevolezza e onestà, affinché una generazione possa rientrare nella vita civile e politica. Noi chiediamo loro di organizzare una proposta efficace che garantisca pacifiche condizioni di ritorno alla legalità democratica attraverso la dissoluzione di ogni legislazione eccezionale, attraverso atti d'amnistia e ogni altro provvedimento giuridico atto a dissolvere la normativa del/'emergenza. Noi chiediamo loro di liberare troppi uomini «sepolti vivi» nel/'ergastolo e di riaprire il dialogo con troppi giovani dimenticati nell'esilio. Noi chiediamo infine a tutti gli uomini di buona volontà di organizzare una forte pressione per impedire a chiunque, facente parte degli apparati di giustizia o di sicurezza dello Stato, di ostinarsi in cieche campagne di repressione giudiziaria e di intossicazione politica. Non è possibile accettare quest'ultimo feroce dono che il terrorismo politico fa allo Stato e ai suoi organi di tutela e di difesa: la licenza di uccidere, oggi, in una fase di svuotamento dell'iniziativa terroristica e di sua incapacità di nuovamente attecchire in Italia: ciò equivale a una sì miserabile banalizzazione della ragion di Stato ad opera di agenti fanatizzati - pericolosissima, tuttavia, per le conseguenze che _può indurre. Tutto questo è tanto più inaccettabile in quanto, in questi ultimi mesi, si sono potuti apprezzare tentativi giudiziari e politici di restaurazione di margini minimi, ed essenziali, della legalità. Non è anche contro questi segni e aperture che l'assassinio di Pedro è stato ordinato? Questo mostruoso evento ha, nei confronti dei fuorusciti, il medesimo significato che hanno avuto, per esempio, i pervicaci sforzi di alcune mafie repressive per svuotare, se non annullare, gli effetti liberatori della nuova legge sulla carcerazione preventiva. Di contro, è sulla strada della suo supporto al teatro tradizionale sotto le forme in apparenza più innovatrici». Per questo il teatro della crudeltà «non è una rappresentazione», ma «è la vita stessa in ciò che essa ha di irrappresentabile». Il punto di partenza di Artaud è la percezione di uno «sprofondamento centrale dell'anima», il dramma della «erosione, essenziale e insieme fugace, del pensiero», l'uno e l'altra interpretati come «risultato della massiccia repressione della forza di vita instaurata dall'iper-razionalismo d'Occidente» (come ha scritto Artioli che, dopo il libro con Bartoli già citato, ha pubblicato di recente Il ritmo e la voce, un volume di saggi tendente a identificare, in ambito primonovecentesco, alcuni momenti significativi, all'interno di poetiche poco conosciute o dimenticate del tutto, di anticipazione del teatro della crudeltà. Un saggio è dedicato specificamente al Van Gogh artaudiano). L'umanità, dice Artaud, «non vuole darsi la pena di vivere». Essa «ha sempre preferito contentarsi semplicemente di esistere» e, si può aggiungere, soprattutto non vuole che qualcuno le ricordi il carattere dimidiato e coatto di questa sopravvivenza. È qui che scatta il rifiuto - mistico e anarchico insieme - di Artaud, la nostalgia di una pienezza e compiutezza di vita che sappiamo impossibile, ma alla quale non possiamo fare a meno di rivolgere ogni nostro pensiero, è questo ciò che provoca l'angoscia, il grido di disperazione, la «follia» di Artaud. Che ha voluto essere il pazzo, «le Momo», nella stessa misura in cui la società l'ha obbligato a esserlo, come aveva fatto in precedenza con Nerval o con Nietzsche. Con la rinuncia a un'opera restaurazione della legalità e del risanamento di una situazione profondamente corrotta dalle legislazioni del/'emergenza che si deve camminare. Per permettere il ritorno. Sia chiaro: il ritorno, dei fuorusciti al loro paese, dei carcerati alle loro famiglie, di una generazione alla lotta politica, non rappresenterà certo la fine delle contraddizioni politiche che abbiamo ereditato dagli anni Settanta. Il ritorno non ha nulla a che fare con il pentimento; tanto meno ha a. che fare con la trattativa individuale «in giustizia», con un certo losco utilizzo della dissociazione (senza infamia) e con la panoplia delle deroghe allo Stato di diritto. Noi proponiamo piuttosto il ritorno come riapertura di tutte quelle lotte che rendono ricca una democrazia. Su questo sfidiamo i nostri interlocutori. Noi accettiamo le condizioni democratiche della lotta politica. Come in Francia abbiamo saputo dare dimostrazione (e ne abbiamo ottenuto riconoscimento ai più alti livelli dello Stato) di un comportamento corretto nei confronti delle istituzioni del paese che ci ospita, così faremo in Italia, nel paese che ci ostiniamo a ritenere la nostra patria, per il cui rinnovamento abbiamo lottato e continueremo a lottare. Sono i nostri interlocutori disponibili ad accettare questa sfida? O preferiscono invece, come troppe altre volte è avvenuto nella storia del nostro paese, nascondersi dietro legalistiche ipocrisie e così motivare il rifiuto al dialogo? Altre volte appunto è avvenuto - ma le ridondanze di quest'assenza sonp state terribili. La morte di Pedro non chiude il tema del ritorno: anzi, lo riapre pesantemente. Per i fuorusciti, lo apre, radicalmente. In questi prossimi mesi si discuteranno nel parlamento della Repubblica progetti di pacificazione e di uscita dagli anni di piombo. Noi sappiamo che non fosse pura e lancinante interrogazione, testimonianza di un terremoto interiore che ancora non ha cessato di far sentire i suoi effetti. Di questo processo sconvolgente - e che non ha uguali nell'arte novecentesca - Bonacina ci dà il diligente resoconto, senza spaventarsi (è forse il suo merito maggiore) di fronte all'evidente constatazione che si tratta di un'impresa pressoché impossibile. E del resto tutta la seconda parte del libro è dedicata al «cammino della critica» artaudiana. Dal rifiuto e dalle preclusioni dei primi anni, fino al1'enfasi retorica e alle mitizzazioni del dopoguerra, passando attraverso il lavoro prezioso di Te/ Quel e della Thevenin, fino ad arrivare ai già ricordati Blanchot e Derrida, individuati come i momenti nei quali il discorso critico su Artaud «subisce una svolta fondamentale e definitiva, anche se fino ad oggi non ancora assimilata, ap{_)rofonditae sviluppata». E proprio con Blanchot che si chiude anche questa nota che, soprattutto con la segnalazione del lavoro di Bonacina, vorrebbe essere un invito a riaprire finalmente il discorso su Artaud anche in Italia. «L'esperienza del pensiero poetico come mancanza e come dolore è sconvolgente, sicuramente unica - scrive l'autore de L'infinito intrattenimento -. Essa impegna colui che la vive nella violenza di una lotta. Di tale lotta Artaud, misteriosamente, è stato il luogo. Lotta tra il pensiero come mancanza e l'impossibilità di sopportare questa mancanza, tra il pensiero come nulla e la prorompente pienezza che vi si cela, tra il pensiero come separazione e la vita inseparabile dal pensiero». che in queste sedi di dibattito parlamentare sono presenti molti uomini di buona volontà - al di là della loro appartenenza partitica. Noi chiediamo che in tale occasione il problema del ritorno dei fuorusciti sia preso in considerazione con molta attenzione. Questo problema non può essere esorcizzato né politicamente eliminato dal dibattito, come anche recentemente (in occasione della polemica sul viaggio à Parigi di De Michelis) si è irresponsabilmente tentato di fare. Fortunatamente, quel/'altissima autorità della Repubblica che, anche su questo motivo, aveva, meschina, cercato motivo per la propria rielezione, sarà nel seguito della discussione intesa (con tutta probabilità) solo come parlamentare. Alcune più positive condizioni politiche per una riapertura attenta e preveggente del dibattito sono quindi preparate. Noi chiediamo dunque che il problema del ritorno dei fuorusciti sia considerato centrale nelle soluzioni legislative e politiche che si stanno c0struendo per l'uscita dagli anni di piombo. I fuorusciti vogliono tornare presto in Italia. Così come vogliono vedere, presto, uscire dalle galere quegli infelici compagni che ancora vi stanno. Così come incominciano a intravedere una generazione che è stata repressa e che si voleva cancellaredalla vitapolitica, faticosamente ma sicuramente rientrarvi, per la trasjormazione del nostro paese. Not. ricominciamo a sentire il respiro . di speranza di moltissimi compà.gni. Caro amico, noi speriamo che tu possa far parte di coloro che su questo tema del ritorno, dei fuorusciti al loro paese, dei carcerati alle loro famiglie, di una generazione alla lotta politica-per la trasformazione, impegnano intelligenza e volontà. Assieme a molti compagni ti saluto Toni Negri Parigi, 27 marzo 1985
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