Alfabeta - anno VII - n. 73 - giugno 1985

Lamostradettadi «Corrente» V isito con ritardo la mostra di Corrente e con ulteriore ritardo ne scrivo; forse è un ritardo che mi deriva dall'inconscio: speravo di non dover vedere una mostra così pasticciata di qualcosa che ricordavo, quale giovane testimone, ben diversa. È una mostra a tesi costruita a tavolino, poco meno di mezzo secolo dopo, con forzature mistificanti, per far aderire ciò che fu alle odierne esigenze di alcuni protagonisti. Innanzi tutto si forza e incanala l'immagine antifascista di Corrente verso un modello che, a mio giudizio, impoverisce quella che fu la realtà di allora. (È un aspetto curioso nel quale ci si imbatte, sempre più frequentemente, parlando di fascismo - vedi le recenti mostre sugli anni Trenta -: qualche ricordo parziale; foto e oggetti recuperati quali reperti, per lo più notizie dimenticate o rimosse; qualche testimonianza diretta, di solito si tratta di poesie uscite dal cassetto dopo quarant'anni e poste come ciliegine su una torta casalinga riscaldata; il tutto condito da tanta nostalgia di «come eravamo» .. .). La mostra di Corrente per questo aspetto non sfugge al rituale. Sottolineo solo due particolari come esempio: il quadro di Sassu su piazza Loreto e il recupero dell'immagine di Ciri Agostani. Il quadro di Sassu è stato certamente dipinto più tardi, come rivela la dimensione, lo stile, la tecnica; è tratto da una foto circolata dopo, ma nella mostra è datato 1944, giocando sull'equivoco della data dell'avvenimento e quella dell'opera stessa. Ma, anche se fosse stato dipinto in quello stesso anno (cosa impossibile), certo in quel- ['anno non fu visto, non circolò né in pubblico né in privato, non ebbe peso politico o culturale, non suonò come sfida al regime, fu viceversa testimonianza postuma di biasimo. Ciri Agostani viene citato quale simbolo di una lotta che poneva in gioco la vita stessa (anche noi più giovani al nome di Ciri avevamo intitolato la nostra cooperativa alla fine della guerra). Si cerca di creare intorno ai personaggi un alone eroico, ma il clima era molto diverso: eroico nei discorsi privati, nelle intenzioni; in realtà molto più modesto, anche se per l'ottusità del regime sempre abbastanza rischioso. Ma proprio nella modestia, nel bisbigliare sommesso era la forza «poetica» del gruppo, la sua validità. Era un clima altamente più positivo di quanto gli organizzatori o alcuni protagonisti di allora cercano di accreditare. Qualcosa di più «delicato», povero, semplice, ma al tempo stesso quanto più stimolante, coinvolgente. Era un clima di speranze culturali, che passavano attraverso una sommessa protesta politica, dove la rivoluzione era sempre in versi (o nell'uso di colori più stridenti); versi declamati sottovoce in certi bar, verso sera, o a voce leggermente più ferma in qualche soffitta, studio-abitazione di pittori e scultori - soffitte non ancora trasformate in miniattici - in un'atmosfera anche molto «bohème»; se il tono diventava protesta più aspra c'era sempre qualcuno che si defilava eclissandosi timoroso. La rivoluzione era una rivoluzione mitizzata sui libri o attraverso le immagini dell'Ottocento; di più recente, avevano peso la morte di Lorca, l'ombra poetica di Majakovskij. Ma in quegli incontri quanti sogni e speranze, quanto desiderio di sapere «oltre» l'ottusa protervia del regime che toglieva, restringeva sempre spazio a ogni idea, desiderio di scrivere, dipingere, nella piena libertà «dell'arte». Ed anche i pochi e rari «politici» presenti, membri di partiti e movimenti clandestini di opposizione, in quegli incontri, più che riunioni, erano sempre preAlik Cavaliere senti come «intellettuali» senza l'obbligatorio impegno politico, recuperato nel gruppo di Corrente più tardi, e come coscienza piena solo nell'immediato dopoguerra. Capisco che oggi quel clima parrebbe ai più giovani o a chi non l'ha vissuto incredibile o molto più lontano nel tempo di quanto realmente fosse, e mi rendo conto della necessità di tradurlo in qualcosa di più facilmente comprensibile per una celebrazione o una diffusione di massa. .. Ma un altro aspetto ancora più inutilmente mistificante è costituito dal voler recuperare al gruppo una continuità di «movimento» e un peso, una presenza di' mezzo secolo nella vita italiana. Si forzano così certi avvenimenti e si velano o cancellano altri momenti: per esempio, si tace l'adesione nell'immediato dopoguerra di quasi tutti gli ex partecipanti di Corrente a una recuperata informazione e circolazio_nedi idee, culminata a Milano nel movimento «Post Guernica»; tardivo riconoscimento e omaggio a una cultura moderna che il fascismo aveva rifiutata e violentemente contrastata - e Corrente, da tale violenta repulsa era rimasta inconsciamente coinvolta. Ma ben più settaria appare la scelta di far accuratamente scomparire la confluenza di alcuni nel movimento «neorealista». È vero che il neorealismo non coinvolse che alcuni artisti del gruppo di Corrente. La maggioranza (Morlotti, Cassinari, Valenti, ecc.) non solo non vi partecipò, ma ne prese le distanze. È però più vero che per oltre un decennio si sostenne, anche teorizzando, la continuità, la confluenza, lo sbocco logico e naturale del movimento di Corrente nel realismo socialista. Perché per certi artisti, di cui si recupera tutto, si tace solo quel momento (leggi per esempio Ernesto Treccani)? È quanto meno strano che gli ispiratori della mostra, che intendono recuperare e sottolineare la continuità e l'impegno politico del «movimento», accuratamente cancellino l'unico momento di attivismo militante «organico» nella loro storia di artisti. Ma si arriva al grottesco, con l'inserimento di Emilio Vedova. Presente solo perché era a Milano in quel periodo? O solo perché ha avuto successo dopo? O per dimostrare che nessuno, per quanto possa essere diverso, sfugge alla matrice di Corrente? Si dà così inizio a un balletto di date contraddittorie tra il catalogo, i cartellini dei quadri corretti a mano (da chi?), reincollati, cancellati, riscrittipiù volte, e le date sui quadri. Ma ogni sforzo risulta vano, a Vedova il vestitino della festa di Corrente va proprio stretto! E il discorso si potrebbe ripetere per altri; per esempio, Italo Valenti, una delle presenze più delicate e sottili del gruppo che se ne allontana ben presto, come molti altri (leggi, ancora solo per esempio, Cassinari) senza dover pagare tutta la vita una tangente fissa alle proprie esperienze giovanili. Così, per esempio, si dimenticano Luigi Grosso e Alfredo Chighine (la cui assenza è meno grave perché ci sono le copie del suo lavoro fatte da altri). O forse è sufficiente, per confermare la continuità, inserire qualche artista che ripropone la stessa opera rifatta come soggetto, materiale, fusioni o modellazione per un arco di quarantacinque anni? Ma mentre ritengo, come molti, inutile commentare la grande coda aggiunta, soffermiamoci ancora per quanto lo spazio lo consente sulla premessa, supporto e puntello alle tesi della mostra. Si cercano legami, antesignani, padri al movimento e si recuperano due tra i più interessanti artisti italiani: Scipione e Mafai, autentici protagonisti di un momento «italiano», parte di una cultura elitaria, stretta tra il caffè Aragno e l'ironia, tra premio letterario accettato e battuta ardita di rifiuto, tra il centro di Roma e Trastevere. Per dimostrare cosa? Che la «vera»pittura, quella buona, era sempre quella di Corrente, prima e dopo la durata del movimento? O per ricostruire e ribadire una storia che esclude (come scrive R. Guttuso su Repubblica, ripetendolo per quattro o cinque volte in una sola colonna) ogni apporto esterno, influenza, coinvolgimento o riferimento alle avanguardie culturali, ai movimenti a • quel tempo circolanti in Europa o in America, sottolineando che fu solo un movimento nostrano e casalingo? (Ma l'autarchia di pensiero non era anche una cosa desiderata dal fascismo?) Certo, ma su questo non c'erano dubbi: il gruppo, negli anni in cui gruppo era, guardava più alla storia dell'arte che ali'arte del nostro secolo; era un gruppo che si muoveva più su rifiuti che su scelte, ma proprio in queste sue particolari peculiarità, per chi visse quel momento, era tutta la validità del «movimento». Se lo si vuole, viceversa, come «fondale» della cultura italiana - anche solo di un periodo - ricordiamoci, per esempio, che c'erano contemporanei De Pisis e Licini (antifascista), De Chirico e Sironi (fascista), Funi e Cagli (antifascista), ecc.; e, scendendo le scale di Palazzo Reale, potremmo anche accorgerci della grande, inquieta, contraddittoria presenzà di Arturo Martini... E Martini, nel 1945, in uno scontro verbale al bar Titta, in via Brera, con un gruppo di artisti reduci da Corrente, si alzò di scatto e uscendo disse: «Siete delle isole e noi siamo stati dei continenti». Si sono così disturbati anche dei buoni artisti con una bella storia «privata», per una mostra «inutile»; ma il rimpianto maggiore è di aver stravolto ciò che Corrente aveva significato: poco e tanto. L'irrappt11.entabile Riccardo Bonacina Artaud, il pubblico e la critica Firenze, La Nuova Italia, 1984 pp. 226, lire 19.250 Umberto Artioli Il ritmo e la voce Milano, Shakespeare & Co., 1985 pp. 276, lire 25.000 Jean-Paul Aron Les modernes Paris, Gallimard, 1984 pp. 318, ff 75 11diciannovesimo volume delle Oeuvres complètes di Antonin Artaud è uscito in Francia pochi mesi fa. E la rivista Magazine littéraire che, prendendo spunto da questo avvenimento, ha dedicato ad Artaud uno dei suoi utilissimi dossier, ha parlato del paradosso costituito dalla «formidabile espansione tipografica» di un autore che, in vita, aveva pubblicato solo alcune plaquettes. Paule Thevenin, che da quasi quarant'anni si occupa dell'edizione delle opere di Artaud, ha fatto sapere del resto che ci sono ancora molti inediti da pubblicare, in particolare gli scritti successivi all'uscita da Rodez e i taccuini preparatori della conferenza al VieuxColombier. Avremo dunque almeno altri due o tre volumi, prima di poter considerare completa la fatica della Thevenin e di avere a disposizione l'imponente corpus di scritture nel quale si racchiude l'e-: speiienza di Artaud. «Non si tratta di rileggere la sua opera - ha scritto il Magazine littéraire - ma di scoprirla, anche nella sua evoluzione». Un'opera che, per quanto possa sembrare una boutade, è in Italia ancora in grandissima parte sconosciuta. Una traduzione, molti anni fa, de Le Théatre et son double, tanto per consentire a qualche regista di far riferimento al «teatro della crudeltà»; un paio di edizioni adelphiane (i Tarahumara e Eliogabalo); una semiclandestina pubblicazione del Jugement de dieu qualche mese fa, e nient'altro, se si accettuano alcuni testi apparsi nel corso di questi anni sulla rivista Il piccolo Hans. Né è molto più ricca la bibliografia, che annoverava finora, come contributo originale, solo il libro Teatro e corpo glorioso di Artioli e Bartoli; con alcune traduzioni (a cominciare dal Colloque di Cerisy) e saggi apparsi su riviste. Va salutato quindi come un fatto positivo il libro di Riccardo Bonacina uscito molto alla chetichella presso La Nuova Italia col titolo Artaud, il pubblico e la critica. Un'opera, va detto subito, di uso quasi didattico (probabilmente una tesi di laurea, in origine) ma che proprio per questo si rivela di grande utilità nel momento in cui il discorso su Artaud, in Italia, si tratta ancora di avviarlo. Del resto questo Bonacina, a parte qualche imprecisione nei nomi, dimostra di avere tutte le carte in regola per un approccio non proprio superficiale a un'opera, e a una vicenda umana e letteraria, che hanno messo in serio imbarazzo molti altri critici e studiosi. Come è dimostrato dal fatto che, fino ai fondamentali saggi di Blanchot e Derrida, e con poche esclusioni, la critica artaudiana era costituita essenzialmente da balbettamenti e gravi fraintendimenti, da banali stroncature e da non meno banali e acritiche apologie, tendendo nella sostanza a perpetuare uno dei miti più consunti che esistano in campo letterario: quello del poeta maudit in vita e in morte, intorno al quale tessere leggende, meglio se dozzinali e di dubbio gusto. T utto questo, naturalmente, non è, senza motivo. Perché l'opera di Artaud è in effetti irriducibile ai canoni normali della letteratura e a quelli della critica, non sopporta formule e incasellamenti, non trasmette contenuti né fornisce messaggi ( «è estraneo al teatro della crudeltà ogni teatro che cerca di trasmettere un contenuto, di fornire un messaggio», ha scritto Derrida). Non è nemmeno, propriamente, un'opera, visto che i meccanismi di formalizzazione, compresi quelli delle avanguardie, sono oggetto di uno stravolgimento e di una messa in causa forse non deliberati ma ugualmente di un oltranzismo che non si era mai 'O ~ visto in un secolo che pure è fitto <::s i:: di estremismi e di negazioni. -~ Scriveva lo stesso Artaud: «Ho e:).. debuttato in letteratura scrivendo ~ dei libri per dire che non potevo -., scrivere niente del tutto ... Non ~ avevo mai idee e due o tre brevi libri, di 70 pagine ognuno, ruota- ~ "èQ ~ no su questa assenza, profonda, inveterata, endemica di qualsiasi ~ idea». ~ È la «spaventosa malattia dello l spirito» della lettera a Jacques Ri- ~

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==