Alfabeta - anno VII - n. 73 - giugno 1985

Sullafinedelmoderno Gianni Vattimo La rme della modernità Milano, Garzanti, 1985 pp. 191, lire 16.000 P erché volerci illudere, o peggio ingannarci, immaginando un «verso dove» dell'uomo, teorizzando con le categorie di progresso, sviluppo e superamento il novum possibile della storia? Intanto proviamo a capire perché gran parte della filosofia dell'Otto-Novecento, che è la nostra eredità più vicina, è la «negazione di strutture stabili dell'essere, alle quali il pensiero dovrebbe rivolgersi per 'fondarsi' in certezze non precarie» (G. Vattimo, La fine della modernità, p. 11), e allora anziché presumere di poter sapere su basi sicure dove voler andare, cerchiamo di vedere da dove arriviamo, o meglio, da dove stiamo uscendo. Credo che la filosofia di Vattimo ruoti intorno a queste questioni; ma se le sue precedenti analisi ci avevano abituato ad apprezzare interessanti e originali interpretazioni-«torsioni» del pensiero di _Heidegger e Nietzsche, tese ali' «indebolimento dell'essere», alla sottrazione della sua funzione di fondazione, ora questo suo ultimo libro si assume deliberatamente un compito «propositivo» e «costruttivo», complesso e ambizioso, perché spiegare il «da dove» non è meno difficile e impegnativo dello spiegare il «verso dove». Veniamo dalla modernità, dall'«epoca della storia» che è quella dello sviluppo progressivo, in cui il nuovo è valore grazie alla presenza operante del fondamento-origine. Nietzsche e Heidegger hanno messo radicalmente in discussione la nozione di fondamento e di pensiero come fondazione, ma in una tale forma che, dice Vattimo, «non possono criticare questo pensiero in nome di un'altra più vera fondazione» (p. 10): in questo senso sono i filosofi della postmodernità, della presa di congedo dalla modernità, dalle sue logiche di «sviluppo», di «superamento», di «fondazione». Si presenta così il primo nodo nel discorso di Vattimo: se sosteniamo che il post-moderno è «dissoluzione della categoria del nuovo, come esperienza di 'fine della storia'» (p. 12), c'è ancora la possibilità di andare oltre la pura e semplice Kulturkritik senza con questo riutilizzare le categorie del moderno? La risposta di Vattimo è affermativa; ritiene che in Nietzsche e Heidegger ci siano «momenti positivi per una ricostruzione filosofica, e non solo sintomi e denunce della decadenza» (p. 9). Ci dobbiamo allora chiedere come è possibile sostenere una trasvalutazione positiva del nichilismo pur senza ricorrere al novum e alla sua logica di sviluppo. E qui abbiamo di fronte il secondo nodo problematico che la filosofia di Vattimo si trova a dover sciogliere. È possibile una contaminazione nichilista di Heidegger? Vattimo ritiene che sia possibile: «certo un po' oscuramente» Nietzsche ha parlato «di un possibile nichilismo attivo e positivo; Heidegger ha alluso alla stessa cosa con l'idea di una Verwindung della metafisica, che non ne sia un superamento critico nel senso 'moderno', del termine» (p. 19). • È su queste basi che viene tentato l'esperimento più originale, e, credo, più discutibile, per una «ricostruzione filosofica», «per passare da una descrizione puramente critico-negativa della condizione post-moderna (... ) a una considerazione di essa come possibilità e chance positiva» (p. 19). Da un lato, allora, Vattimo vuol dimostrare l'implicito nichilismo «reattivo» presente in tutte le prospettive di riappropriazione, di instaurazione dell'autentico, e, dall'altro, vuol mettere in evidenza il modo in cui ha funzionato il nesso tra umanesimo, metafisica, tecnica. I ncominciamo dalle considerazioni sulla tecnica; essa rappresenta la crisi dell'umanesimo, sostiene Vattimo, non perché è il trionfo della razionalizzazione scientifica sui valori umanistici, ma perché rappresenta il compimento della metafisica. Se la metafisica concepisce l'essere come Grund, come fondamento che assicura la ragione, ecco che la tecnica, «nel suo progetto globale di concatenare tendenzialmente tutti gli enti in legami causali prevedibili e dominabili, rappresenta il massimo dispiego della metafisica» (p. 48). L'umanesimo è un aspetto della metafisica e non può rappresentare «valori alternativi a quelli tecnici» (p. 49), e lo stesso soggetto che voleva opStefano Zecchi porsi alla disumanizzazione tecnica «era proprio lui la radice di questa disumanizzazione», perché la soggettività «è pura funzione; del mondo dell'oggettività e tende anzi a divenire essa stessa oggetto di manipolazione» (p. 54). Come la fine della metafisica, anche la crisi dell'umanesiw.o si deve descrivere in termini di Ver- _windung,«appello a cui l'uomo è chiamato a rimettersi dall'umanesimo, a rimettersi ad esso, e a rimetterselo come qualcosa che gli è destinato» (p. 49). Ma il nichilismo, chiederei a Vattimo, non diviene in questo modo un telos, e suo malgrado - e malgrado le intenzioni di Vattimo - il perno di una filosofia della storia? Vattimo, però, dice che non si .. attua la Verwindung se non ci si apre all'appello del Ge-Stell (dell'im-posizione, della totalità del «porre» tecnico) che è «un annuncio dell'evento dell'essere», pur non significando «un abbandonarsi senza riserve alle leggi della tecnica» (p. 54). Ma il problema, credo, non è tanto di vedere la tecnica come un sapere tra i saperi, quanto di considerare, nei suoi effetti, il fatto che la tecnica si pone come sapere universale. E del resto, nella sua celebre conferenza, non è questo forse il senso che Heidegger attribuisce alla nozione _di tecnica quando ne mostra l'originario significato di «apertura», la _presenza della funzione cogente dell' aletheia-verità-svelamento, quanoo ne sottolinea il nnv10 al sapere più che al fare e all'agire, quando, inserita nella storia della metafisica, diviene luogo di riconoscimento dello «sviluppo tecnico dell'essente come la vera filosofia del nostro mondo»? Vattimo sottolinea che «per togliere alla tecnica (... ) !;imponenza dell'ontos on metafisico, è indispensabile un soggeto che non si pensi più, a propria volta, come soggetto forte» (p. 55); ma tuttavia, credo, dovrà pur sempre essere un soggetto che «si pensa» in grado di «non abbandonarsi senza riserve alle leggi della tecnica» e, questo, attraverso quale «sapere»? Un sapere che trascende le regole dello sviluppo tecnico del1'essente? Ma non ritorna così quella forma di «resistenza», di tensione alla «riappropriazione» che Vattimo aveva criticato nel soggetto dell'umanismo? Superare il nesso umanesimo-metafisica-tecnica senza introdurre le modalità della «riappropriazione», dell'«autentico», è forse possibile affidandosi, come suggerisce Vattimo, all'appello del Ge-Stell, ma allora nell'appello del Ge-Stell si deve cogliere l'amor fati di Nietzsche-Zarathustra, il «Sì e Amen» alla semplice necessità dell'essere così e non altrimenti, e quindi abbandonare la pretesa «costruttiva», avanzata da Vattimo, di «scegliere e discriminare tra le possibilità che la condizione post-moderna ci mette di fronte» (p. 20). 11 secondo cardine intorno a cui ruota la riflessione di Vattimo è, appunto, la critica alle filosofie che hanno assunto l'atteggiamento difensivo di una zona in cui mantenere e proteggere l'«autentico», il «non reificato», il «valore d'uso» sottratto alla pura logica quantitativa del «valore di scambio». Ciò si vede nel marxismo, dice Vattimo, nella discussione che ha segnato la filosofia del Novecento, cioè nella fenomenologia, nel primo esistenzialismo dove domina il «pathos dell'autenticità», la difesa di «una zona ideale del valore d'uso - cioè un luogo dove non valga la dissoluzione dell'essere in valore» (p. 31). Ma la difesa, egli osserva, è senza consistenza, lo sforzo di oltrepassare l'alienazione intesa come reificazione, oblio della soggettività ecc., è sempre diretto verso la «riappropriazione», e il tentativo di «ristabilire un 'proprio' contro questa dissoluzione è sempre ancora nichilismo reattivo, sforzo di rovesciare il dominio del-' l'oggetto stabilendo una signoria del soggetto» (p. 35). Il nichilismo, sostiene Vattimo, non è però la caduta dell'essere, dalla sua sussistenza autonoma e fondante, nel potere del soggetto: «per capire adeguatamente la definizione heideggeriana del nichilismo e vederne l'affinità con quella di Nietzsche, dobbiamo attribuire al termine valore, che riduce a sé l'essere, l'accezione rigorosa di valore di scambio. Il nichilismo, così, è la riduzione dell'essere a valore di scambio» (p. 29). Questo è per Vattimo il «nichilismo compiuto», «la nostra unica chance» (p. 28). Il nichilismo arrivato nella sua fase di compimento consuma l'essere in valore: ossia, nell'interpretazione heideggeriana di •Nietzsche, il culmine della metafisica è raggiunto nella completa riduzione dell'essere in valore. Ma ecco che interviene l'interpretazione-«torsione» di Vattimo: «Se seguiamo il filo conduttore del nesso nichilismo-valori, diremo che, nell'accezione nietzscheano-heideggeriana, il nichilismo è la consumazione del valore d'uso nel valore di scambio» (p. 29). Ora, se pur si volesse ammettere con Vattimo che «la vicenda deila generalizzazione del valore di scambio nella nostra società, è quella vicenda che a Marx apparve ancora definibile solo nei termini moralistici della 'prostituzione generalizzata', della dissacrazione dell'uomo» (p. 34), e se si volesse ammettere che la fenomenologia si perde nell'ambiziosa ricerca di una «rifondazione dell'esistenza in 'O ~ un orizzonte sottratto al valore di o::s scambio e centrato sul valore d'u- .5 ~ so» (p. 32), la «riduzione», la ~ «consumazione» del valore d'uso :Q in valore di scambio si manifesta ~ (nell'analisi di Vattimo) come l'e- ~ voluzione necessaria di un proces- ~ so storico-naturale; sembrerebbe ·èò che qui Vattimo ricorra alla logica ~ dialettica deterministica della con- ~ traddizione con tutte le sue regole ~ (la Totalità-valore che si scinde in ;! due poli contrapposti), e parreb- ~

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