Giorgio Caproni Tutte le poesie Milano, Garzanti, 19842 pp. 632, lire 30.000 e redo che pochi altri poeti nel Novecento, come Caproni, possano essere immediatamente riconosciuti da un brevissimo «attacco», un po' come accade con i massimi musicisti. E senza che ciò - va subito aggiunto - sia da imputare a un gioco di tenace manierismo sulle proprie originali risorse, come sucçede con altri poeti. Rileggendo di fiato questi cinquant'anni di poesia, la più grande sorpresa è infatti accorgersi che il «sigillo» caproniano è sempre invenzione quanto più lo si rincontra. E il vantaggio del corpus garzantiano è poter osservare, in blocco, come si siano articolati e sedimentati i ben noti «segni particolari» di questa poesia, relativi alla rima, l'immagine, il linguaggio. Riguardo alla rima, già da tempo (da sempre) la critica ne ha sottolineato le rilevanti e irripetibili caratteristiche: il suo saldo discendere dalla tradizione, la sua alta qualità musicale, il costituirsi come una guida e un margine del discorso. Se comunque la rima di Caproni discende dalla tradizione, essa non è certo un residuo, ma una profonda invenzione; non ha nulla di nostalgico, come invece in Saba, con il quale - a questo riguardo - Caproni non ha niente a che spartire; e i pochi effetti comuni, proprio per la loro esiguità, andranno ascritti a convergenze o coincidenze, ma non a presunti influssi che nel testo non sussistono. Per Saba, nel suo orgoglioso artigianato, la rima è un ferro del mestiere indispensabile, amata in quanto tale, naturalmente, e solo successivamente piegata a particolari esiti di canto. Per Caproni la rima è da subito lo strumento principe per il suo bisogno di canto; e naturalmente non il solo, ma alla guida di un elaborato tessuto fonico del testo che dà un particolare esito madrigalesco alle sue prime prove. Capronil,a rima Sono immediatamente i versi di Marzo - la prima poesia di Come un'allegoria (1935), la prima rac- • colta - a testimoniarlo, con la loro levità: «Dopo la pioggia la terra/ è un frutto appena sbucciato.I/Il fiato del fieno bagnato ... ». La rima rimane sempre così chiara e scattante, anche se non facile e prevedibile; una rima più tassiana che metastasiana, insomma. È un trobar lou che si differenzia prepotentemente dal trobar clou dei fratelli maggiori (Ungaretti, Montale) e degli altri coetanei (Luzi, Sereni), ma anche dal ben diverso trobar lou di un Penna. Anche se già originariamente operante negli anni Trenta, la rima caproniana arriva ai suoi esiti più alti e straordinari nell'età matura, a partire dal Seme del piangere (1959), con già significativi accenni nelle poesie datate 1948 (L'ascensore; Su cartolina, ecc.), in appendice a Il passaggio d'Enea (1956). È Caproni stesso nel canzoniere per la propria madre, che costituisce il Seme, nella poesia Per lei a spiegarci che le sue rime sono «chiare», «verdi, elementan», augurandosi inoltre che «a distanza/ (Annina era così schietta) / conservino l'eleganza / povera, ma altrettanto netta». La canorità di queste poesie non solo è al di fuori di ogni modello della tradizione (come il madrigalesco del primo periodo), ma anche promuove un «grado zero» della scrittura: l'elementarità della rima produce una poesia verginale, di forte proprietà proprio nel momento - la morte della madre - di maggiore intimo pianto; e il bisogno di chiarezza, che la rima alimenta, se non abbandona la sua antica ariosità, acquista tuttavia in urgenza di essenzialità esistenziale. L e raccolte successive confermeranno questa via; nel Congedo del viaggiatore cerimonioso (1965), la forte rima dà sempre uno squillo secco alle parole che si delineano sempre più discorsive ed usuali, rendendole davvero semplicemente «eleganti», poiché risalta, nel fragore delStefano Verdino la rima, il loro nitido contorno e con esso la loro semplicità e nudità, parole inequivocabilmente ·«cristalline» e per questo un poco straniate da se stesse, riscattate dal logoramento cui le ha sottoposte l'uso per la loro convenzionalità: «... vi dovrò presto lasciare./Nogliatemi perdonare I quel po' di disturbo che reco. I Con voi sono stato lieto ... ». La rima nel Congedo soccorre a una particolare chiave di lettura, distribuendo assieme tenerezza e arguzia in queste carene di versi che sembrano modesti e smilzi nella loro forma, ma ben resistenti nella loro sonora ostinazione. Successivamente, a partire dal Muro della terra (1975), Caproni spezza ogni forma organica del testo e tende a una particolare frantumazione, non certo verso un atonalismo espressionista, quanto piuttosto verso un virtuosismo asciutto e paradossale, pronto al gorgheggio, al capriccio, all'improvviso, un po' come la musica di Sciarrino. La rima, in questi versi fatti ad arabesco, rimane l'appuntamento fisso, la consonanza che fa scattare il testo, come una tagliola, ne garantisce proprio il minimum di forma, illuminando i diversi brandelli del discorso, tra il niente che ha sempre più scarnificato, come una scultura di Giacometti, il verso caproniano. A eguale bisogno di chiarezza e nettezza risponde l'immagine. Nata «alla spagnola», o meglio alla Machado, è ben lontana tanto dall'analogismo quanto dal correlativo oggettivo. Proprio i suoi margini «spagnoli» la rendono diversa dalla medietas sabiana per via di un'aspra vivacità che cerca fin da Come un'allegoria una delibazione quasi tattile di ciò che si dice. Nelle migliori prove dell'idillio spesso festoso con cui comincia la storia di Caproni appare ben chiara questa qualità di sorgività, di costruzione vividissima e attimale di un quadretto sempre mitemente quotidiano. Credo che nessuna definizione della poesia di Caproni sia più persuasiva di quella di epica familiare che ha il pregio di distinguerla così precisamente dalla lirica familiare di Saba e da quanto si può definire sabismo novecentesco. La poesia di Caproni inventaria con sobrietà e pazienza un piccolo mondo fatto di passaggi, viaggiatori, cacciatori, ragazze sudate, vento e salite di Genova, latterie affumicate, mezzi di trasporto ... tutto estremamente dettagliato (chi può dimenticare i bicchieri e le tovaglie di Caproni?). L'immagine, spesso piegata in modo metonimico, incide nel testo tali precisi e concreti «protagonisti»; questi non sono propriamente punti di riferimento ed emblemi come nella tecnica del correlativo oggettivo, tanto più che le valenze allegoriche sono estremamente scoperte (la funicolare, la caccia, ecc.). Caproni tiene molto alla «cosalità» dei suoi oggetti, appunto protagonisti della poesia, in quanto elementi da cui, in qualche modo, parte il discorso e non elementi per cui esso viene catalizzato, come nell'oggettualità montaliana. In Caproni difficilmente l'immagine può avere un risalto emblema-, tico, tendendo invece a una sua· distesa misura narrativa. Se nelle prime prove tale misura, secondo il gusto del tempo, si concretava in un quadretto, ben presto - già nelle poesie di guerra - il «quadro», mai dimenticato, tende ad allargare i suoi confini, la sua trama di riferimenti, a incatenarsi con altri testi, a diventare poemetto e romanzo. L'immaginario familiare a un certo punto promuove anche le diverse voci nel testo, quando Caproni, sempre a partire dalla svolta del Seme, costruisce degli autentici personaggi (la madre) o ruoli (viaggiatore cerimonioso, preticello deriso, guardacaccia, ecc.) che invadono il campo dell'io lirico, riducendolo a narratore o a personaggio uguale alle altre voci che cominciano ad affollare questi versi, e perciò a contrastarlo («Bravo. Sèi stato lirico. I Lirico fino all'orgasmo. I Ora va' a letto. Dormi, I beato, nel tuo entusiasmo»). 11 linguaggio «basso», o meglio più che basso, banale, viene trattato da Caproni soprattutto nelle sue ultime raccolte in modo francamente sorprendente. Già ho detto del nesso tra parola e rima (su cui il lettore può arricchirsi nella divertente e acrobatica fucina dei Versicoli del Controcaproni, qui per la prima volta dati in luce), ma va ancora sottolineata l'eccezionale unicità di questo linguaggio, dove una massima ten- . sione conoscitiva (più volte si è accennato all'autonomo esistenzialismo nichilista di Caproni) viene calata e fatta vivere in un lessico apparentemente così incongruente, di straziata comicità, giocando appassionatamente sulle antifrasi, i paradossi, che, nell'umiltà e nella rabbia, rappresentano l'unico modo in cui per Caproni può sussistere una ricerca «metafisica» in versi. Una ricerca, va detto, assai particolare; infatti, da un punto di vista meramente contenutistico da anni Caproni non fa che ripetersi: il viaggiare erratico dell'uomo verso un nonsenso finale, l'imminenza della dipartita di cose e persone e della stessa realtà, sono motivi di lunga e ossessiva presenza. Ma proprio nel loro ostinato reiterarsi «sta il bello». È il loro sfacciato riproporsi a obbligare Caproni a una serie di «variazioni su tema», che producono continuamente sortite dalle prospettive più diverse. La ripetizione vuol dire continuare a parlare, praticare la precarietà (e viverla) nella ineludibile coscienza del muro imperforabile. Proprio nell'affrontare continuamente una tematica di silenzio e pronta a chiudere la propria stessa voce, Caproni sonda uno spazio «agonistico» e resistente della poesia, che fu - pur nella diversità - quello del Leopardi. La ripetizione esalta la resistenza e alimenta la forza di uno dei nostri maggiori poeti che anche nel proprio aspetto fisico, fragile e tenace insieme, sembra così compiutamente esprimere la più intima immagine della propria poesia. Il versoliberononc'è Letteratura italiana diretta da A. Asor Rosa voi. III: Le forme del testo tomo I: Teoria e poesia Torino, Einaudi, 1984 pp. XX-620, lire 60.000 ( Esiste una storia delle forme letterarie, come di tutte le forme estetiche e come di tutte le tecniche, per il semc::s plice fatto che tali forme perman- .5 ~ gono e si modificano attraverso i ~ secoli. Sfortunatamente una simile ~ storia resta ancora una volta, per -. la maggior parte, da scrivere. Mi .si sembra che la sua fondazione sa- ~ rebbe uno dei compiti più urgenti t: oggi». Così scriveva nel 1972 Gérard t: Genette in «Poetica e storia», sag- ~ gio incluso in Figure III (trad. it. l Torino, Einaudi, 1976). E sembra ~ che i curatori e gli estensori del terzo volume della Letteratura italiana abbiano voluto rendere operativa tale indicazione metodologica riattandola e ritraducendola con queste parole che si possono leggere a p. XVI della Premessa asorrosiana: «Nel caso specifico di questo terzo volume ci siamo provati a vedere se fosse possibile scrivere una vera e propria 'storia formale' della letteratura italiana: cioè, una storia della letteratura italiana dal punto di vista dell'evoluzione e della dialettica delle forme». Va inoltre detto che la paternità del riferimento al critico francese spetta a Mario Lavagetto; che al recente seminario bolognese organizzato dall'Istituto Gramsci su questo volume einaudiano si riçhiamava alla posizione genettiana del '72; ma, per la verità, non è del solo Genette: appartiene a una Roberto Bugliani vasta corrente di pensiero novecentesco, secondo la quale in letteratura «l'oggetto storico» non è tanto l'opera quanto piuttosto gli elementi che la trascendono, definibili come forme. Ora, non è certo casuale che la riscoperta asorrosiana della storia delle forme venga affidata al volume che, citando dalla Premessa, rappresenta «la chiave di volta dell'intero sistema» della Letteratura einaudiana, e col quale «arriviamo al cuore del problema». Anzi, ci sembra che proprio con questo «discorso sbpra gli 'aspetti formali del testo», .che succede agli «approcci politico-istituzionale e sociologico» (vale a dire i due precedenti volumi dal titolo Il letterato e le istituzioni e Produzione e consumo), viene in piena luce, e nei suoi esiti più maturi, la scelta metodologica e concettuale che sta alla base dei singoli approcci al corpus storico della letteratura italiana. Si tratta di una separatezza che già Sanguineti e Luperini avevano lamentata, nel corso del dibattito organizzato da Rinascita (14 gennaio 1983) sul primo volume della Letteratura italiana. A questo livello l' «immagine plurale di letteratura» che questa iniziativa editoriale ha voluto consegnarci si sedimenta, volume dopo volume, in strati autonomi, in un'eclettica raffigurazione che è attribuibile solo in parte (e per la • parte meno rilevante) ali' «eclettismo coatto» che Luperini giudicava uno scotto, pagato da Asor Rosa, per la realizzazione di siffatto progetto culturale-editoriale. Si può dire che c'è una corrente di pensiero annoverante illustri antecedenti nei metodi formalistici primonovecenteschi (a cui anche il Genette delle Figure è debitore, e da essi in ultima istanza deriva la centralità del testo di telqueliana memoria, Barthes compreso) alle radici del punto di vista pluralista ed eclettico che attraversa questi volumi. È un punto di vista che ci pare abbia a che fare con quella «offensiva idealistica», di cui parlava Sanguineti in Rinascita, impegnata in questi anni a giocare i suoi atouts, e per la quale, a proposito di talune sue manifestazioni specifiche interne all'opera, egli parlava di «ritorno del rimosso» crociano. A ltro motivo di perplessità nei confronti di tale operazione giunta nella sua fase centrale concerne l'utilità (se non proprio la necessità) della sintesi culturale da essa proposta. Su ciò ha
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