V) ~ i:: -~ t:l.. ~ °' ...... .si ~ E ~ ~ !:! <u .C) g bilità scartata dall'evoluzione che persiste o riemerge inopinatamente a contestare l'univocità rigida della norma. II mostruoso, intersezione del reale con l'immaginario, fa da ponte, a ritroso, tra le cosmicomiche e la produzione precedente, penso in particolare a La giornata di uno scrutatore. Per quanto riguarda la postazione di coda, vi troviamo i Racconti deduttivi che, del resto, privi come sono di Qfwfq, occupavano già il finale di Ti con zero e de La memoria del mondo. Il fatto è che a Ca}vino premeva evitare una chiusura definitiva: e cosa meglio di un rifacimento che alludesse al-_ la eventualità futura di rimettere tutto in gioco? Ecco allora spiegata l'insostituibilità de Il conte di Montecristo, ipertestuale pastiche dumasiano inteso a svolgere, dalla scrittura altrui, una serie di congetture e di potenzialità, verso quella «saturazione d'altre storie», enunciata poi, e praticata anche, in Se una notte d'inverno un viaggiatore. e oerente con se stesso, il nuovo montaggio non resta tuttavia un esperimento isolato. Non casualmente la stessa immagine della sabbia, che nei Cristalli indicava lo scomporsi e ricomporsi del mondo, compare anche nell'avvio, e fin nella sede privilegiata del titolo, dell'altro volume pubblicato da Calvino, pressoché in contemporanea con la riproposta di Cosmicomiche: si tratta di Collezione di sabbia, raccolta di brani a mezza via tra letteratura, saggio, reportage. Qui, nella sabbia, l'autore riconosce le caratteristiche della propria scrittura, in quanto residuo cristallizzato del vissuto, sostanziale eppure variabile: ,<quella sabbia di parole scritte che ho messo in fila nella mia vita, quella sabbia che adesso mi appare tanto lontana dalle spiagge e dai deserti del vivere. Forse fissando la sabbia come sabbia, le parole come parole, potremo avvicinarci a capire come e in che misura il mondo triturato ed eroso possa ancora P etrarca diceva degli antipodi «che 'l dì nostro vola I a gente che di là forse l'aspetta». Chissà cosa illuminava il sole laggiù, nella sua immaginazione? Un mondo del tutto nuovo e sorprendente, con foreste non foreste, fiumi non fiumi, città non città? Oppure un mondo simile al nostro, magari con qualche pittoresca variazione nel colore o nell'umore della gente? Qualche secolo più tardi, Giacomo Leopardi, nel Mai, deplorava che quel mondo fosse stato scoperto: «E figurato è il mondo in breve carta; I Ecco tutto è simile, e discoprendo, I Solo il nulla s'accresce». Non c'è niente, niente di veramente nuovo in ciò che si conosce, una volta conosciuto; anzi ogni cosa è eternamente uguale a un'altra e solo inventando e immaginando noi possiamo illuderci che il «nuovo» esista. Fra queste due folgorazioni della mente, una aperta alla possibilità di conoscere il nuovo, l'altra negatrice di questa stessa possibilità, ci furono i viaggi veri e propri, da qui al nuovo e ad altri mondi (raccontati dal Carletti, dal Ricci, dal Della Valle, dall'Algarotti... ) e anche diverse teorie del viaggio, come quella picaresca, quella donchisciottesca, quella formativa di Smollett, Lesage, Fielding, quella sentimentale di Sterne o magan quella blandamente astratta di De Maistre, che trovarvi fondamento e modello». Fissare per avvicinarsi a capire: è proprio in questi termini che si muove lo sguardo dello scrutatore (ed è la stessa strategia dell' «attenzione» che domina Palomar); attraverso le occasioni visive che gli si offrono - esposizioni, libri, viaggi - per decifrare il mondo come mappa di segni, anzi, dato l'intrecciarsi delle dimensioni e delle intenzioni, come «nodo» di segni accavallati. Il linguaggio della cultura e quello della natura si sommano e si attraversano, e il testo esegue su di essi una scrittura che è nel contempo lettura. Lo sguardo deve valere a distinguere nella selva oscura dei segni, e a penetrare gli strati dei palinsesti: «vedere vuol dire percepire delle differenze», scrive Calvino. Ma è chiaro che ogni profondità raggiunta è una nuova superficie: non solo, per Calvino, la comprensione è un «avvicinarsi» inesauribile, ma l'osservatore stesso è continuamente in movimento lungo un percorso che ne moltiplica i punti di vista. La collezione, priva di gerarchie e mai del tutto conclusa, costringe, appunto, a una ricognizione orizzontale. In questo modo lo sguardo è coinvolto in una sequenza temporale. E la riflessione sul tempo viene in primo piano, in molti brani del libro (anche la sabbia segnala lo sbriciolamento di ogni durezza o durata): tutto il capitolo sui viaggi è intitolato La forma del tempo, e viene a porsi in preciso parallelismo con il cosmicomico La forma dello spazio. Sembra che anche il giudizio, deducibile dai dati raccolti, risenta della coscienza della propria «caducità»: è un giudizio spesso posto in dubbio e in confronto con il contrario. Questa incertezza, costitutiva delle operazioni di Calvino, la riscontriamo esemplarmente, al fondo di Collezione di sabbia, nelle pagine sull'Iran: tra i cortei di pietra, che sfidano il tempo mediante la resistenza monumentale, e le carovane nomadi, che imbrigliano la morte uniformandosi al ciclo della natura, il viaggiatore rimane insoddisfatto di entrambe le soluzioni: «In un caso o nell'altro, qualcosa mi trattiene; non trovo il varco in cui potrei introdurmi per accodarmi alla fila». Ciò significa non dirimere gli opposti, ma saggiare la consistenza del loro confine. È proprio quanto accade nei racconti cosmicomici, dove le avventure fantastiche si svolgono negli interstizi aperti fra mondi diversi, colti nel momento della separazione, quando tra l'uno e l'altro sono ancora possibili passaggi e mescolanze; quando, insomma, le opposizioni Disegno della medaglia commemorativa per la ricostruzione delle Hal/es falistici ed euforici, anche quelli assunti dalla letteratura. Lo ribadisce nell'Implosione: c'è un modo corrente di guardare al testo in chiave di esibizione e di.potenza, per cui «le passioni, l'io, la poesia, sono visti come un perpetuo esplodere». La preferenza per l'implosione («Continuo a scavare nel mio buco, nella mia tana di talpa») suona a rifiuto degli atteggiamenti spettacolari, e di qualsiasi discorso culturale troppo sicuro di sé, dogmatico, e quindi imposto. A pplicata al piano letterario, l'implosione si traduce in lavoro riflessivo (critico e autocritico) sui materiali toccati dal1'esperienza, la cui interpretazione è intrinseca alla organizzazione di agglomerati e di insiemi; un metodo distante, quindi, da qualsiasi psicologismo o realismo semplificato. L'interscambio letteratura-logica è ancora fortemente attivo nel gioco linguistico di Calvino. I testi di Palomar si collocano in questa direzione di ricerca; anch'essi composti a tasselli brevi, e ripartiti in sezioni e sottosezioni, sono attraversate da «brecce» e collegamenti. Si potrebbe dire che, per Calvino, distinzione e indecisione procedono di pari passo; e lo confermano le cosmicomiche «nuove»: così il Qfwfq de Il niente e il poco, che si lancia agli estremi esaltandosi per la «totalità» o per il «nulla», di volta in volta canzonato da un silenzioso personaggio femminile, fino a comprendere il valore del «relativo». secondo una dislocazione ternaria. Di primo acchito, il signor Palomar sembra un alter ego esattamente inverso a Qfwfq: tanto umano e familiare, quanto quello alieno; tanto «signorilmente» ri11 spettoso, quanto quello sbrigliato; 2 tanto personalizzato, quanto quello metamorfico. Eppure il nome Palomar rimanda a un osservatorio astronomico (in più c'è, forse, un riferimento alla paloma, emblema di pacifismo). L'ultimo personaggio di Calvino nota, del resto, la parabola dalla prospettiva cosmico-comica a quella antropocritica: «ora capisce che è col trovare una pace interiore che doveva cominciare. L'universo forse può andare tranquillo per i fatti suoi; lui certamente no». Calvino vuole ironicamente contestare gli atteggiamenti trionMa l'esplorazione del «dentro» si riapre, dialetticamente, nel «fuori» (poiché, in Calvino, dentro e fuori sono interrelati e invertibili addirittura); verso il rapporto con un universo imperfetto, «pencolante» e «contorto»: ed è la Lascuola di Paloma, fece un lungo viaggio intorno alla propria camera. Ma se viaggiaresia utile o possibile, se sia una condizione necessaria del conoscere il mondo o se stessi (o tutti e due), o se al contrario non sia che la simulazione di una conoscenza impossibile, questo, ancora oggi - e oggi soprattutto -, non lo sappiamo. Italo Calvino, in Collezione di sabbia, pone intanto a se stesso e a noi una domanda: «Se un Nuovo Mondo venisse scoperto ora, lo sapremmo vedere?». Il problema non è tanto di capire se noi, oggi, siamo o meno legittimati a conoscere, a scoprire nuovi mondi, né se questi mondi esistano o meno, quanto di accertare, per via empirica e metodica, se abbiamo qui, nel nostro mondo, gli occhi per vederne un altro eventuale. Giorgio Ficara questa possibilità e sulla sua stessa attesa, ora si apre un varco nel linguaggio e cerca nelle cose stesse qualcosa di nuovo. Collezione di sabbia, che è un po' la scuola di Palomar, allinea, in successione solo apparentemente casuale, una serie di cose viste, nei musei, alle mostre, nei libri e infine nel mondo: da un'esposizione al Grand Palais sulla «Nascita della scrittura», a un' esposizione alla Maison de Balzac dedicata ai disegni di scrittori francesi del XIX secolo, a un libro di Mario Praz (in cui, tra l'altro, si studia la legge d'economia di un paesaggio m rapporto a quella dei mobili in un salotto), a uno studio scientifico di Pierantoni su L'occhio e l'idea, lo sguardo metodico di Calvino ci procura, al pari di quello profetico dei poeti, frequenti illuminazioni. Come gli occhi dei poeti nell'impazienza della visione, così i suoi, nella pazienza del vedere, ci svelano qualcosa che mai, prima, era stato visto. Ma qual è, poi, la dinamica di questo sguardo? Nel più avvincente dei capitoli del libro, La forma del tempo, Calvino, insieme a silenziosi giardini giapponesi, rovine di templi messicani, sfilate di re e nomadi in Iran, descrive l'itinerario del proprio sguardo: la cui prima virtù è di non definire la cosa vista, ma di sfiorare e tentare invece il suo eventuale mistero e la sua certa complessità. Ogni cosa, per Calvino, è quasi indefinitamente problematica, a ogni cosa lo sguardo concede di essere estranea alla sua preveggenza e al suo sapere; viaggiare, e guardare, riconoscendo la natura problematica del mondo, significa cioè porre, ancora oggi, dei problemi al mondo, vedere è soprattutto un vedere il problema. Anche quando gli pare di essere vicino alla conclusione del suo ragionamento, osservando meglio, Calvino scopre che un lato del problema la smentirebbe. A Kyoto, per esempio, colpito dall'armonia dei giardini delle ville imperiali, fa una riflessione: che una natura così padroneggiabile dalla mente umana sia stata costruita perché «la mente possa ricevere a sua volta ritmo e proporzione dalla natura»; ma quando vuole applicare questo principio e comporre un haiku su quel paesaggio scopre che «non ha senso aspettarsi che un paesaggio (. .. ) detti delle poesie, perché una poesia è fatta di idee e di parole e di sillabe, mentre un paesaggio è fatto di f oglie e di colori e di luce». Oppure a Palenque, di fronte agli alti templi a scale e alla foresta soprastante, considera come i. bassorilievi istoriati spariscano invasi da una profusione di liane e nidi di serpente e conclude: «invano il linguaggio aveva sognato di costituirsi in sistema e in cosmo: l'ultistessa consapevolezza sulla necessità di non camuffare ideologicamente e di non fuggire evasivamente quanto di «approssimativo, limitato, traballante» pertiene all'esistenza, che raggiungono i recenti Qfwfq. L'implosione è inseparabile da un «altrove» specularmente inverso, con cui costituisce una connessione irregolare e contorta: «Ogni percorso nel tempo procede verso il disastro in un senso o nel senso contrario e il loro intersecarsi non forma una rete di binari regolati da scambi, ma un intrico; un groviglio... ». Intrico, groviglio (il secondo termine suscita inevitabilmente un'eco da Gadda). Collezione di sabbia concorda nell'interesse per la complessità del «tessuto» e del «nodo», fino al «groviglio intricatissimo» risultante dalle combinazioni genealogiche. Analogamente, negli appunti sul Messico, davanti al millenario «albero del Tuie», la proliferazione dei progetti e delle forme è vista come aggrovigliarsi mostruoso (proprio quel «mostruoso» che, lo abbiamo visto, marca ora le battute d'avvio dell'itinerario cosmicomico): «è un mostro che cresce( ... ). Il tronco sembra unificare nel suo perimetro attuale una lunga storia d'incertezze, geminazioni, deviazioni». L'esattezza geometrica e ordinatrice, procedendo nel raggruppare e nel circoscrivere, incontra la molteplicità dei «nodi», cioè delle relazioni (interne e esterne) degli elementi, per cui sollecita il riaprirsi di un sistema sempre in tensione, «sul piede di partenza» e «nell'attesa di un trasferimento», come accade al Colonnello Egg e ai suoi>bagagli in Fino a che dura il sole. Distinguere non significa eliminare, sembra dire Calvino; anzi, oggi, abbandonato il ruolo assordante ed eclatante di portavoce del mito, la ricerca letteraria guadagna una funzione di comunicazione, proprio nel senso di mettere in comunicazione ciò che è tenuto separato dalle barriere del senso comune. ma parola spetta alla natura muta». Ma poi capisce che anche questa conclusione è imperfetta, perché «da quando il linguaggio esiste, la natura non può abolirlo». Lo sguardo, per Calvino, è dunque la forma privilegiata dell'interrogazione e il grado più alto della responsabilità etica: non sapere nulla, ma saper dispiegare l'intensità e la precisione del proprio sguardo, essere certo della necessità di guardare, ma incerto - inquieto - sull'oggetto osservato. I viaggi compiuti da Calvino, nel minuscolo e nel fugace come nella vastità di mondi lontani, ci insegnano che il viaggiatore - con questo fine di interrogare ciò che si vede - ha come risultato di provocare sempre nuove interrogazioni, in una continua veglia. Se, poi, da questa mobile e ardita materia si possa trarre un libro vero, e non solo frantumi o schegge, non è concesso dirlo in astratto. Ma certo per Collezione di sabbia dovremmo ripetere l'epigrafe sterniana (del settimo libro del Tristram): «Non enim excursus hic ejus, sed opus ipsum est». Italo Calvino Collezione di sabbia Milano, Garzanti, 1984 pp. 223, lire 18.000 Così la prescrizione di queste pagine lungimiranti è: «riattivare l'uso degli occhi», incominciare a guardare, riconoscere delle differenze, distinguere tra un colore e l'altro, tra una prospettiva e l'altra, tra un rilievo e l'altro: si ha l'impressione di un risveglio, di una nuova disposizione verso le cose, di una richiesta di profondità spessore forma in ciò che si vede. Se nelle Città invisibili Calvino opinava che tutto fosse linguaggio (e m quanto linguaggio: inganno), se, scrutando la vastità del mare, aspettava che una nave passasse, ma era poi molto incerto su ~L------------------------------------------------------------------------------
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