rienze si sedimentassero e si consolidassero davvero nell'apparato scolastico. Fra il momento in cui un'esperienza supera gli arg1m della «sperimentazione» marginale e il momento in cui l'entusiasmo si volge ad altro intercorre, mediamente, un tempo insufficiente a produrre qualsiasi mutamento inc1s1vo. Si spiega così l'apparente paradosso di una struttura educativa che riesce ad unire un'adamantina, secolare staticità della prassi didattica a una successione sempre più convulsa di cose da introdurre, generalmente connesse alle tecnologie di comunicazione e di informazione che sono sedimentato (loro sì) nella cosiddetta «scuola parallela». Tempo addietro era d'uso citare, in proposito, il fatto che un ragazzo americano di 18 anni trascorre in media più tempo davanti al televisore che a scuola; l'indagine di base Istel, datata dicembre 1984, indica che, verosimilmente, non abbiamo più bisogno di guardare ali'America. Nella media delle famiglie italiane, il televisore rimane acceso per 5 ore e un quarto al giorno; ma se nella generalità delle famiglie si osserva un ascolto televisivo «medio» o «forte» (più di 4-6 ore al giorno) nel 62 per cento dei casi, nelle famiglie con bambini e ragazzi (sotto i 14 anni) la percentuale supera il 70 per cento. La medesima indagine ci assicura che il semplice passaggio dal televisore in bianco e nero a quello a colori (per non dire della moltiplicazione dei canali privati) è stato un potente fattore di reclutamento della «scuola parallela» e di incremento degli orari medi delle sue «lezioni». La dinamicità della «scuola parallela» non fa che sottolineare la prassi statica di quella ufficiale. E ci fa capire meglio perché il mondo della scuola cerchi in modo così schizofrenico qualche scorciatoia per recuperare il terreno perduto. E se la cresta dell'onda fosse già passata anche per il «computer a scuola»? I segni di ripensamento si moltiplicano. Un ottimo servizio pubblicato çiall' Europeo all'inizio dell'anno·(Cervellone, io ti boccio, ,17 gennaio 1985,•p. 98) riportava, con ampiezza di ·dati e opinioni qualificate, critiche e scompensi <:henegli Stati Uniti vanno configurando una vera e propria controtendenza. Un rimbalzo sull'Italia si può dare per scontato. Manderemo dunque i 10.000 o 20.000 microcomputers a raggiungere nelle soffitte della scuola italiana I~ migliaia di videoregistratori (spesso fuori standard), di videocassette spaiate, di film e filmine che nessuno ha mai visto (per non parlare dei pacchi di giornali che ingialliscono nelle «sale di lettura» che non sono mai esistite)? Sarebbe un peccato. Così come è stato un peccato mandare in soffitta i «quotidiani in classe» e Telescuola (salvo accorgersi, anni dopo, con la Open· University inglese, che la televisione avrebbe più di una carta da giocare nell'istruzione delle nazioni). Si tratterebbe di mettere al centro dell'attenzione non tanto il sin~ golo mezzo tecnico, il «canale» attraverso cui passa l'informazione, ma l'informazione come tale; vale ;:;:; a dire il suo sistema di produzione c::s e di distribuzione, i modi con cui i:::: -~ essa viene generata, elaborata, c:i.. trasmessa, consumata. Fare del ~ computer una sorta di totem, °' -. oscurando il fatto che esso è, ap- .9 punto, un elaboratore di informa- gg c::s zioni e sarà, sempre di più, un noi:: do in una sterminata rete di tele- ~ comunicazioni (telematica, se pre- ~ ferite), non è stato saggio. Neppu- ~ re per i suoi apostoli scolastici, l neppure per l'industria che (non ~ solo in Italia) vede nella scuola uno dei terreni decisivi per espandere il mercato e per assicurare alle diverse aziende la «fedeltà alla marca» dei consumatori del futuro. Forse chi, come Egidio Pentiraro, autore del best-seller A scuola con il computer (Bari, Laterza, 1983), lanciava lo slogan della «seconda alfabetizzazione» (quella del computer), non era consapevole di prestare il fianco ai medesimi equivoci che avevano già contribuito ad arenare quotidiani in classe, audiovisivi, ecc. Per inciso, lo slogan ha avuto una grande fortuna, anche all'estero (cfr. La deuxième alphabetisation, in La Microinformatique, dossier di Le Monde, settembre 1983). Come scrive lo stesso Pentiraro, «ci siamo posti l'obiettivo di parlare unicamente delle applicazioni alla didattica dell'elaboratore preso a sé» (p. 141); «non bisogna lasciare nulla di intentato pur di portare l'elaboratore nella scuola» (p. 182). Non che l'autore non sappia che è intellettualmente rischioso proporre alla scuola il microelaboratore come un ente preso a sé; è più probabile che la febbre del «bisogna introdurre nelle scuole» (il cinema, la radio, il video, il giornale, il computer. ..) sia più forte di qualsiasi anticorpo. Eppure di anticorpi la cultura pedagogica italiana dovrebbe averne sviluppati parecchi. Alcuni dovrebbero risalire alla preistoria. Nel 1955 Raffaele Laporta, tracciando un bilancio dell'uso scolastico del cinema, jndicava i seguenti fattori negativi: «impreparazione degli insegnanti, scarsità di cinesussidi utili, difficoltà pratiche circa il maneggio degli apparecchi da parte degli alunni» («Stato di una didattica», in Cinedidattica, febbraio 1955, pp. 3-4). Sembra di udire qualche lamentela di oggi sul software inadeguato, sulle scarse possibilità di formazione specifica dei docenti, sui sistemi che l'iMdustria «piazza» nelle scuole anche se non sono fatti per le scuole ... Che dire, poi, del provvedimento in cui il ministro della Pubblica istruzione Gaetano Martino, nel 1954, disponeva «la costituzione di emeroteche nelle scuole medie superiori»? O della dichiarazione del ministro Gonella su Bianco e Nero (novembre 1949, pp. 9-12) in cui si manifestava il «fermo proposito di dare alla scuola nel più breve tempo possibile (... ) questo potente strumento di formazione intellettuale e morale che può offrire il cinema, attraverso il rinnovamento e il potenziamento di un'organizzazione, la Cineteca Scolastica, la cui necessità si fa sentire oggi più che mai»? Sia detto senza tinture ideologiche, gli eroici sforzi italiani «alla spicciolata» (o quelli, più organici, del governo francese o inglese) di introdurre nelle scuole 20.000 o 120.000 computers, entro uno o due anni, ricordano un poco gli sforzì meritori con cui Radio Rurale, sotto la presidenza di Starace, fra il 1934 e il 1938, portò da 4.000 a 40.000 il numero dei ricevitori radiofonici installati nelle scuole (cfr. Philip V. Cannistraro, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, Bari, Laterza, 1975, e L. Ambrosini, «Origini e primi sviluppi della radiofonia scolastica», in Prob"lemi della Pedagogia, gennaio-febbraio 1964). In una relazione dell'Unesco, Sirkka Minkkinen e Jukka Oksanen hanno scritto: «il quotidiano fu visto come un materiale utile all'insegnamento già nel diciannovesimo secolo; il suo uso scolastico come fonte di informazione fu particolarmente favorito. Non appena la affidabilità dell'informazione trasmessa dalla stampa divenne oggetto di discussione, il quotidiano perse il suo status come ausilio didattico» («The press in the school, object of the media education»,. in La presse à l'école, Unesco, Berna 1981). Il problema dell'informazione a scuola, dopotutto, non è molto nuovo. Purtroppo non lo sono neppure gli errori e gli inciampi che incontrano le sue possibili soluzioni, anche se (come si diceva su queste pagine tre anni fa) il dibattito internazionale sull'argomento ha raggiunto alcuni punti fermi. Soprattutto sull'esigenza di considerare la comunicazione come un fenomeno da prendere nel suo intero. Nell'epoca in cui lo sviluppo tecnologico fa parlare correntemente di convergenza dei modi ( cioè delle tecniche e delle procedure di trasferimento e di trattamento delle informazioni) non si capisce bene perché questo punto di vista sia ancora considerato un po' «eccentricq», e si continui a «tifare» per questo o quel «mezzo». Oscillando fra l'esigenza di «introdurlo» al più presto nelle scuole e il dubbio che, essendo obsoleto (per definizione si potrebbe dire), forse sarebbe opportuno portarlo direttamente in soffitta, dopo averlo comprato a carico dell'erario. Aspettiamo a manda.re il computer in soffitta. Anzi, proviamo a riportare nelle aule i tesori polverosi e tecnicamente inutili che vi sono riposti. Forse anche quelli possono dirci qualcosa sul rapporto sapere/informazione che è destinato a tormentare nei prossimi decenni la tribolatissima pubblica istruzione. (Per la redazione di questa nota ci siamo largamente avvalsi di una ricerca svolta da Index, la cui prima parte è compresa nel volume L'informazione a scuola, Ancona, Il lavoro editoriale, di prossima pubblicazione). Mercato del bestiame della Villette La politica economica dell'arte Sir William Rees-Mogg è il presidente dell' Arts Council, organismo pubblico per la promozione delle arti, finanziato dallo Stato, fondato esattamente quarant'anni fa, sotto la presidenza di Lord Keynes. The Economist ha pubblicato il testo del discorso che Sir Rees-Mogg ha tenuto 1'11 marzo scorso nella sede londinese della Ibm. Il titolo e l'esordio del discorso richiamano esplicitamente le due lectures sull' «economia politica dell'arte» che John Ruskin tenne a Manchester nel 1856. «Oggi io debbo esortare lo Stato a quel medesimo senso di dovere verso l'arte cui Ruskin esortava i proprietari terrieri di Manchester» dice Rees-Mogg. Il parallelismo non è puramente retorico. Ruskin era socialista e si rivolgeva ai proprietari di Manchester. Rees-Mogg è un convinto anti-collettivista e si rivolge allo Stato per difendere l'intervento pubblico a sostegno delle arti, che il governo Thatcher vorrebbe bloccare ai livelli attuali di spesa, se non ridurre. Uno degli aspetti intriganti di questo testo sta proprip nel fatto che Rees-Mogg difende i sussidi statali all'attività artistica («un trionfo di ciò che si può realizzare con poche risorse») con gli argomenti stessi del liberismo, dicendosi convinto che in futuro il peso della spesa statale sul prodotto nazionale inglese, oggi pari al 47,4 per cento, dovrà ridursi a livelli vicini al 34,5 per cento del Giappone. Egli chiede però che il finanziamento statale aU' Arts Council passi dai poco più di 100 milioni di sterline attuali (circa 250 miliardi di lire) a 120 milioni di sterline. Allo stesso tempo, ammonisce gli ambienti culturali inglesi che «le arti non possono essere al sicuro se continuano a presupporre di poter contare su sussidi certi e crescenti ... Troppo spesso il sussidio ha creato dipendenza, e la dipendenza ha portato a una domanda di maggiori sussidi». Il testo non si consiglia solo per l'ampiezza di prospettiva (saporosa la battuta sulla Thatcher che si è proclamata campione del neoliberismo ma non è riuscita a diminuire realmente il peso del bilancio statale nell'economia inglese) e per lo stile limpido, colto senza erudizione, che ci piacerebbe trovare anche nei discorsi dei nostri assessori alla cultura. La spesa pubblica nel campo della cultura è un tema destinato a divenire sempre più rovente in Italia. I confronti che il discorso di Sir Rees-Mogg permette di istituire sono, da questo punto di vista, quanto mai istruttivi. Con l'equivalente di un finanziamento di 250 miliardi di lire cui si aggiungono contributi di enti locali e di privati per meno di 50 milioni di sterline (poco più di 120 miliardi di lire), l'Arts Council provvede al sostegno di gran parte delle attività britanniche nel teatro, nell'opera lirica, nella danza, nella musica e in altri campi artistici. Non è questa la sede per svolgere comparazioni contabili (sempre difficili) ma ciascuno, se vuole, potrà fare qualche rapido calcolo. Rees-Mogg preferirebbe sostituire progressivamente una parte del sussidio statale con la detassazione delle attività culturali e con sgravi fiscali sui contributi privati, analoghi a quelli in vigore negli Stati Uniti. Nello stesso numero dell' Economist, un editoriale dissente dalle tesi del presidente del1'Arts Council. Il finanziamento delle attività culturali - sostiene l'editoriale - dovrebbe basarsi soprattutto su ciò che i privati (consumatori, sponsors) sono disposti a pagare. Il sistema fiscale dovrebbe essere orientato a generare la partecipazione privata nelle iniziative culturali; oggi - afferma The Economist - i «baroni deU'arte» che chiedono le esenzioni dall'Iva e da altri gravami fiscali «usano i sussidi per praticare prezzi sotto costo - ciò che equivale a una redistribuzione regressiva dell'imposta». Che dire dell'Italia dove un recente disegno di legge affianca a sussidi e facilitazioni creditizie estesissime esenzioni fiscali? Il tutto-privato, suggerisce Rees-Mogg, è un'assurdità. Ma l'«arte» (da noi anche le telenovelas stanno divenendo «arte») controllata dalla burocrazia statale e pagata dall'erario non è forse quel capolavoro di socialità e di «moltiplicatore dell'investimento» che aveva in mente Lord Keynes nel 1945. Quando sussidi e defiscalizzazioni servono a teatri ed enti lirici per pagare gli ingressi gratuiti di pubbliche autorità e maggiorenti (con i loro amici e parenti), bisogna chiedersi davvero se l'intervento· culturale pubblico non si trasformi troppo spesso in quella «tassazione regressiva» di cui parla The Economist. Quel che è peggio è il rapporto di mutua dipendenza che si instaura fra sussidiatore e sussidiato, per cui, come dice Sir Rees-Mogg, «è fatale entrare in un illimitato sostegno all'ordine esistente». Sir William Rees-Mogg Tbe political economy of art in 1985 in The Economist 9 marzo 1985, pp. 87-92 I Ricerche parapsicologiche Se non fosse per la qualità delle fonti, si potrebbe lasciare la notizia alla stampa più avida di sensazionalismo. The Japan Economie Journal è l'edizione settimanale in lingua· inglese del Nihon Keizai Shimbun, il principale quotidiano economico del Giappone. Nella ventitreesima puntata della speciale serie multimedia «La frontiera del 21 ° secolo» (diffusa anche dalle emittenti radio e televisive del gruppo Nks) compare un articolo il cui titolo può essere così tradotto: <<Glsi tudiosi di informatica cominciano a prestare attenzione alle ricerche parapsicologiche, a lungo disprezzate». Le fonti citate dal Nihon Keizai Shimbun sono autorevoli. Si va da Tadahiro Sekimoto, presidente della Nec Corp., il gigante dell'elettronica, a Hiroo Yuhara, già direttore dei laboratori di ricerca del ministero delle Poste e delle telecomunicazioni, «la più avanzata delle organizzazioni di ricerca in questo campo». Sekimoto auspica che il tema parapsicologico sia preso in seria considerazione dai ricercatori della Nec, poiché si dice convinto che «lo studio del sesto senso e della telepatia si rivelerà sicuramente una pietra angolare dei futuri modi di comunicazione». Sekimoto ritiene che le facoltà extrasensoriali si basino su forme di energia ancora sconosciute che potrebbero essere utilizzate in Luogo deUe onde elettromagnetiche e sonore sulle quali si fondano gli attuali sistemi di telecomunicaz10ne. L'opinione espressa da Hiroo Yuhara conforta le convinzioni di Sekimoto. «La scienza attuale - afferma - non spiega del tutto che cosa sia realmente un'onda elettrica. Ciò che sappiamo è che possiamo costruire meravigliosi congegrn di comumcaz10ne, se li costruiamo in base alle teorie dell'ingegneria elettronica. Ma ci sono molte questioni fondamentali che hanno bisogno di una spiegazione». Su un piano più generale, Hajime Karatsu, consulente tecnico della Matsushita, sottolinea che «lo sviluppo dei futuri computers dipende da una completa spiegazione delle funzioni cerebrali»; fra di esse, «i fenomeni finora non spiegati dalle scienze convenzionali dovrebbero essere presi m esame». L'articolo fa notare che la lingua giapponese è ricca di riferimenti alla sfera del sovrannaturale, ma che non sono stati finora svolti studi scientifici sui fenomeni implicati da tali termini, pur se essi potrebbero avere «applicazioni pratiche a vasto raggio». In chiusura, The Japan Economie Journal ricorda che Isaac Newton dedicò gli ultimi anni della sua vita a studi del soprannaturale e che il fisico Brian Josephson, premio Nobel per la teoria delle «giunziom» a superconduzione elettrica che portano il suo nome, si dedica ora completamente a studiare le attività spirituali dell'uomo. Un'occhiata alla data del giornale (2 aprile) desta, però, qualche perplessità. E se, nell'edizione originale del Nihon Keizai Shimbun, l'articolo fosse stato pubblicato il 1 ° aprile? Computer scientists begin to pay attention to long-shunned parapsychological research in The Japan Economie J ournal 2 aprile 1985, p. 7
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