Alfabeta - anno VII - n. 72 - maggio 1985

narrativa del piccolo schermo e la loro ipertrofia. Non solo un numero esiguo di inquadrature è sufficiente per identificare il genere, la struttura dei personaggi, la natura delle situations in generale (cfr. F. Casetti, Un'altra volta ancora. Strategie di comunicazione e forme di sapere nel telefilm americano in Italia, Torino, Eri, 1984), ma in esso l'inevitabile operazione di selezione nel corpo di messaggi televisivo (il citatissimo telecomando) determina un esercizio sempre più sofisticato delle funzioni di riconoscibilità di modelli di genere, topoi narrativi, testi già noti, oltre a un'accettazione sistematica dell'uso forte dell'ellissi, che sono proprio i meccanismi di lettura dei trailers. In realtà non si tratta di un fenomeno di lettura che riguarda esclusivamente la comunicazione televisiva: anche il cinema ne è ampiamente investito. Se Wenders afferma che i registi americani in questo momento raccontano «solo la forma affermativa della storia, i punti culminanti», Streets of Fire di Walter Hill ha un attacco che potrebbe benissimo servirgli da trailer (come peraltro accade all'interno del film). Prima che i titoli di testa siano completamente scorsi, si sono già compiuti: la rottura dell'ordine iniziale che innesca la narrazione (il rapimento della protagonista femminile), il ritorno dell'eroe, la descrizione dell'ambiente e dei personaggi principali. L' «effetto» trailer è incredibilmente rafforzato dal lavoro di graffiatura e strappo che sfilaccia e lavora la superficie dell'immagine e del sonoro, e che ricorda certe confezioni di trailer anche italiani in cui l'inquadratura è lavorata con sovrapposizioni di colore, mascherini, effetti fotografici. Ma soprattutto è la musica con la sua rigida scansione ritmica che produce l'analogia con la sintassi e la retorica dei «prossimamente», in cui il tema musicale funge da raccordo tra tutte le sequenze. È come se il film includesse un «prossimamente» di se stesso in forma di incipit. Un supplemento del quanLettere Una verità e mezza Alla redazione di Alfabeta. Attraversare le stanze e i corridoi di una istituzione universitaria porta a constatare la presenza di un'ombra di smarrimento nelle facce di studenti e professori: viene taciuta con imbarazzo la domanda serpeggiante sul senso di una condizione e di una attività, quella letteraria, in un'epoca complessa e scorbutica dove 'trasformazione' è spesso parola maschera di una complicazione di meccanismi di produzione permanenti, di giochi già fatti. L'effetto è anestetico, quasi uno svenimento, di cui il 'tacere studentesco' non è che una delle manifestazioni. Se misuriamo questa situazione allo spessore degli argomenti anche stimolanti emersi al convegno di Palermo, non si può non notare una differenza, misurata dalla nostra inspirazione, tra le folate di aura degli atti palermitani e l'aria che si respira qui. Come tra il pregiatissimo e .decantato Urla del silenzio e un banale week-end in Cambogia. Essere stati chiamati in causa dall'intervento di Biancamaria Frabotta, nostra docente del corso di Letteratura italiana moderna e contemporanea, ci ha rivelato una immagine nella quale non abbiamo potuto che riconoscere uno stato di fatto: «Se scrivono lo fanto di informazioni offerto prima dell'inizio del film, teso a soddisfare le istanze di uno spettatore abituato a una sollecitazione incessante delle proprie funzioni di lettore. Considerazioni analoghe per l'inizio di un film per più ragioni differente: C'era una volta in America, di Sergio Leone. L'incastro di flash-forwards (il protagonista che ritorna sulla scena di partenza) con flash-backs (il protagonista che rievoca la sua infanzia) offre una inedita mobilità del punto di vista sulla story per un film che si qualifica per i caratteri di epicità e neoclassicismo. Il film apre a ridosso di quello che è il crocevia dell'esistenza di Noodles, il suo presunto tradimento. E per 22 interminabili squilli di telefono il prologo si distenderà fino a toccare la fine e l'inizio della sua storia, preservandoci solo la rappresentazione scenica di una struggente impossibilità (dell'amicizia, dell'amore: della storia) il cui senso è stato già evocato con forza nelle sequenze iniziali. Di nuovo tutto il senso del film è compresso in un ridotto numero di inquadrature: una irriducibile densità narrativa che si affida a una eccezionale capacità d'integrazione narrativa supposta nella media degli spettatori. L eone sembra avere consapevolezza dell'abisso mitopoietico che rende possibili simili strategie narrative: «Siamo tutti stanchi di film. Li conosciamo a memoria. Sbavano nella vita( ... ). C'è lì un tale con la pistola, per esempio. Oppure senza pistola e con un mazzo di fiori. Biondo o bruno, alto o basso, bello o brutto. Attende il suo nemico, oppure la sua amante, in un saloon di Dodge City o da Tiffany, in Times Square. Lo arrestano, va in guerra volontario, sposa Doris Day, scala una montagna, viene rapito dai pirati, diventa un alcolizzato, cerca l'amico disperso in Vietnam o nella ritirata di Russia, salva un bambino caduto nel fiume, diventa fratello di sangue di Toro Seduto, uccide una donna, l'ammazzano come Quasimodo in O~oe sommerso; se studiano si portano appresso un soffio funereo di filologica competenza; se pensano, pensano che l'ermetismo è stato ed è la migliore pratica della dissimulazione. Se ci si ostina sul numero Due, sillogizzano, il senso della letteratura è una tautologia. Il suo senso è produrre senso. Il suo valore è valore-lavoro. Se invece si dirotta sull'Uno, allora la parola con godimento, capziosità e infinito intrattenimento sfumerà nel silenzio». Confrontarsi con un simile identikit ha significato per noi, suoi studenti-interlocutori, spezzare quel filo di continuità indisturbata che segnava il perimetro di un'area prevista, in cui sentirsi cullati. Inoltre ha fatto intravedere un diverso modo di concepire il proprio stato di studenti-letterati: la possibilità ad esempio di muoversi lungo alcune scorciatoie (sentieri) all'interno dello spazio universitario, su cui operare e verificare modi e pratiche; comunque non di subirlo. Questo non significa che il nostro vuol essere un atteggiamento di riconciliazione, specie se è vero che l'Università continua a essere una filiale della Controriforma, se è vero che rifiuta per principio l'interesse e l'intervento sul piano dei rapporti con le problematiche in trasformazione della cultura e della socialità. Dipartimenti e docenti sanno trovarsi d'accordo fuori del/'ambito della loro funerea filologia, solo al momento della riscossione dello stipendio: la continuazione di una pratica no, compra un anello di fidanzamento, gli rubano la bicicletta. «Poi gli s'inceppa il fucile, vince alla lotteria, invecchia, si converte al cattolicesimo, ruba lui stesso un'automobile, tiene un discorso al Congresso americano, si prende una coltellata nello stomaco, incontra James Cagney a Tokio o Robert Redford a Cincinnati, muore filosofando tra le braccia del suo migliore amico, conosce Alberto Sordi in taxi, scorta una diligenza texana, rapina una banca, va finalmente a letto con Bri- . gette Bardot. Ma non basta ancora» (in D. Gabutti, C'era una volta in America, Milano, Rizzoli, 1984, p. 74). Questa iperbolica carrellata di Leone, che continua per quasi una cartella, non è forse la testimonianza di un archetipo occulto, quello di un trailer che contiene tutte le storie possibili in un unico testo? Tutto ciò sembra suggerire che l'universo della narratività non è una totalità d'immaginario in continua e infinita espansione, che «la totalità delle combinazioni non è in realtà infinita .ma limitata», come scrive Fausto Colombo in un recente saggio sul remake («In teoria, uno splendido paradosso», in Segnocinema, n. 15, 1984). L' «effetto trailer» che abbiamo cercato di mettere a fuoco, infatti, ci sembra cooriginario alla pratica del remake e nascere dallo stesso contesto. Accusato nella pubblicistica di vario genere di essere il segno dell'esaurimento della creatività del cinema e dell'attuale produzione internazionale (in realtà procedimento consueto del cinema che nasce insieme al film stesso, come dimostra l'inserto a cura di Antonio Andretta e Alberto Castellano «Dal modello al remake: filmografia», sempre in Segnocinema, n. 15, 1984, che tenta un riepilogo completo dei remakes), remake- come scrive ancora Colombo - è un «termine ombrello» con cui si intende sia il «rifacimento-sostituzione» che il «rifacimento dilatazione». Nel primo caso la copia si rifà a un plot originario di cui tutti i film costituirebbero una messa in scebaronale non estinta. Un'accusa generalizzata, ma che svela la richiesta di una concretezza culturale, di una pratica più efficace di ricerca sul presente, disseminata, coinvolgente, 'sul campo', sfidando anche il rischio dello spreco. La tentazione era quella di proporre l'uscita dal pantano di intenzionalità puramente teoriche e retoriche, dal vezzo di voler dèterminare 'in absentia' una pratica di intellegibilità della letteratura; dal tornare a credere che il problema sia solo quello della Letteratura. Il problema non è quello del metodo, ma soprattutto di esprimere una critica a un atteggiamento «metodologista»; una critica che non si dia come semplice sostituzione di prospettive, ma che sappia spostare i presupposti su cui si fonda l'esperienza letteraria, anche nei confronti del/'approccio al testo: non per definire che cosa esso sia ma per comprendere quale valore acquista l'esperienza letteraria in relazione agli eventi che sa determinare, ai rapporti che sa instaurare. Noi consideriamo la letteratura come interrogazione, come un campo praticabile di trasformazione, un modello significativo di valorizzazione. Nella letteratura confluiscono degli eventi, ma è essa stessa un evento, una 'elevazione al quadrato' che può farsi esperienza determinante. A questo livello la ricerca del senso non può limitarsi alla definizione in nome di pretese oggettività scientiste: perché quel senso, «qualità», va letto nell'area movimentata e concreta della percezione, determinana, nel secondo i remakes si rifarebbero ognuno, come modello, a una messa in scena originale, citata e continuatamente dilatata nei rifacimenti: in entrambi i casi «l'obiettivo è quello di creare un testo che sia insieme eguale e diverso dall'originale» (Segnocinema, p. 11). Ma la tipologia del remake è destinata ad arricchirsi nell'esercizio dell'analisi: esiste il «cult-remake» (La cosa, Scarface, Il postino suona sempre due volte), rifacimento di testi classici «che non arriva a trasgredire vistosamente la struttura della fabula prescelta» (G. Canova, «Un cinema 'mutante' e sovversivo», in Segnocinema, n. 15, p. 13), il «remake-restauro» (il Napoleon di Gance e Metropolis di Lang riedita ti restaurati), il «remake-seriale» (i vari seguiti di Lo squalo, Star Trek, Halloween, ecc.), per citarne alcuni (pp. 1314). Né può dirsi il remake un fenomeno esclusivamente cinematografico come dimostrano i saggi di Guido Almansi, Cambiare i connotati, e Umberto Eco, Nove modi di sognare il Medioevo (nella sezione monografica «L'estetica del remake», in Cinema & Cinema, n. 39, 1984) in cui Almansi analizza la duplicazione pittorica di Klee in Tullio Pericoli e di Friedrich in Piero Guccione, mentre Eco ordina e interpreta i vari «rifacimenti» del Medioevo nelle interpretazioni storiche, letterarie e cinematografiche realizzatesi fino a oggi. Ef nel cinema che, tuttavia, il remake matura la sua più completa definizione, sin dalle origini: «da una parte c'è l'idea della ciclicità e della ripetizione rituale» (come nelle fittizie ricostruzioni di riprese di celebri avvenimenti dell'epoca, contraffazione diffusa negli inizi del cinema), «dall'altra c'è il cinema, cioè la riproduzione tecnica, la ripetizione meccanica» (A. Costa, «Questa storia non è finita», in Cinema & Cinema, n. 39, p. 20). Nel cinema il remake sembra affondare le sue radici sia nel film bile nei punti di vista di chi attraversa e oltrepassa un'esperienza letteraria, nel tempo di distillazione memoriale, vitale, durante il quale il senso del testo ci/si trasforma. Noi pensiamo che il senso dell'esperienza consiste nell'ii::contro, in quello spazio dove è possibile l'ascolto dell'altro in sé e di sé nell'altro. È nella qualità dell'incontro provocato, nell'affinamento della capacità percettiva che questo rapporto con l'altro acquista «valore»: il senso consiste ne/l'affilare i sensi, non nel «produrre» senso. Come sottolinea Agosti nel dibattito generale: «Le cose esistono in quanto appartengono a dei sistemi di significato, cioè appartengono a dei codici, ma esistono anche al di là di questa loro circoscrizione, ed è appunto su questo eccesso, su questo 'al di là' dei codici che interviene il letterario». Un eccesso non misurabile, ed è qui che si rivela la debolezza del metodologismo. È qui che poi entra anche in crisi la sicurezza euforica di poter dare forma al sentimento, seppure la tensione non può essere che quella: la poesia è nella irriducibilità a una forma della intensità. delle cose, di una esperienza esistenziale che è anche una ferita, di un sentimento che è anche sbandato, lacerato. «Ali' anima appartiene ' un espressione che accresce se stessa» (Eraclito). Alla esperienza letteraria pertiene la capacità di scommettere con la vita nel cercare di dire comunque ciò che non può come testo («è sempre il film originario a richiedere il remake, a esigerlo e prevederlo all'interno del testo stesso. ( ... ) La consapevolezza del remake incombe in maniera precisa su tutti i personaggi la cui vicenda possa dirsi esemplare nell'ambito della visione sostanzialmente ciclica e ripetitiva su cui si basa il repertorio della narratività, e non solo quella filmica», G. Fink, «Elogio della seconda chance», ivi, p. 25), sia nella sua aberrazione elettronica che è la serialità televisiva («Sin dai suoi esordi la tv americana ha recuperato i suoi personaggi guida da altre forme narrative, come la letteratura, i fumetti, la radio, il cinema, dando vita a un grande e complesso remaking, in cui non sempre però il modello padre è riconoscibile... », G. Cremonini, «Una serie di figli di...», ivi, p. 64). Pare perciò che isolare il remake significhi inevitabilmente elaborare tipologie estremamente versatili in cui questo fenomeno dalla strutturale proteicità possa trovare adeguata descrizione. Dietro a esso, sicuramente, in una progressione di domìni, innanzitutto l'orizzonte benjaminiano della riproducibilità tecnica dell'opera d'arte, poi una decisiva congiuntura mediologica (l'interazione testuale cinema/televisione), la specificità storica e retorica di un linguaggio (il cinema, in cui testo e messa in scena coincidono: si continueranno a rifare Hawks e Murnau così come si continuano a mettere in scena Shakespeare e Sofocle), ma soprattutto l'eccezionalità delle condizioni che lo rendono possibile. A livello di una vera e propria mutazione antropologica, nessuna cultura ha forse mai prodotto un'eguale proliferazione mitologica, raggiunto un livello di ipernarratività tale da richiedere e dotare il soggetto di una simile competenza narrativa: al suo sguardo ogni testo e frammento di esso si trasforma in un trailer, o in un remake. essere detto: « ... questa specie di uragano, di tempesta che ci attraversa e di cui non sappiamo quasi nulla (. ..) non è semplicemente metaforico», come ha ricordato A. Porta. Quella che è in ballo è una questione più complessa, è qualcosa che ha a che fare con la vita e con la storia. La poesia, la letteraturapuò stare oltre la verità, può essere una verità e mezza. In questa direzione l'immaginario, la parola trasfigurata, agisce non solo in termini di conoscenza, ma come capacità'effettuale di rendere la sua proposta in grado di «trasformare» letteralmente una pratica di esistenza. Il suo valorelavoro è incrinare sicurezze arbitrarie, riproporre il significato della differenza, incidere (perché no?) sui contatti umani, sfidando la dittatura della univocità, lo schiacciamento di una società dell'informazione, il cui unico valore continua a essere la legge del massimo profitto. La poesia lancia la sfida della pratica del dono e del- !' abbandono, in uno strano sussulto etico. Non la chiarezza a tutti i costi del poeta 'engagé' e meno che mai l'esclusivismo verticalizzante della parola che si pretende spazio non contaminato dal mondo . Una pratica di 'attenzione', piuttosto, l'enigmaticità come interrogazione, come apertura-rottura della familiarità convenzionale con il mondo. È nella capacità detonativa del dubbio che si misura la chiarezza della letteratura. Donatella Alesi e altri studenti della Facoltà di Lettere, Università di Roma

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