Alfabeta - anno VII - n. 72 - maggio 1985

vertà' del soggetto con la sua forza, trasforma, per così dire, la prima nella seconda, fa della povertà stessa una forza. Proprio l'uomo degradato, asservito, abbandonato e spregevole è per Marx !'«essere supremo». In questa prospettiva un nichilismo radicale che sia anche critico e voglia quindi essere una teoria ad hominem non può limitarsi a darci nell'uomo l'esponente di una funzione delle differenze, un simulacro tra i simulacri; deve invece reinventare l'uomo come possibilità, proprio perché la sua coscienza trascende l'ontologia, ogni ontologia del soggetto. Questa coscienza, nella quale sta anche l'impensato, il non ancora conosciuto dell'uomo, è ciò a cui ci si riferisce quando si dice, con Nietzsche, che l'uomo è «qualcosa che deve essere superato». Una coscienza siffatta, questo «porsi fuori di sé con coscienza» (Novalis), trascende il soggetto. Blanchot parla di una «subjectivité sans sujet», di un «uomo privato del genere», «le suppléant qui n'est supplément de rien» (L'écriture du désastre). C'è una coscienza, dunque, che accoglie in sé anche la passività, o meglio quel «non pensiero pensante, quella riserva di pensiero che non si lascia pensare» (Blanchot), una coscienza che, come direbbe Novalis, «è comprensiva dell'intera estensione di un arco»: «L'ignoto, il misterioso, è il risultato e il fine di ogni cosa ( ... ). Il concetto ovvero la conoscenza è la prosa - l'indifferente. A entrambi i lati v'è il + e il - . La conoscenza è un mezzo per tornare nuovamente alla non-conoscenza». C'è da chiedersi se non si debba configurare proprio in rapporto a una coscienza siffatta, a una «soggettività senza soggetto» che accoglie in sé la negazione e la privazione di se stessa, l'elemento attivo (forte) di una contraddizione che non riposa su sé medesima, che non si arresta alla paralisi. In questa contraddizione sta la reinvenzione dell'uomo come essere supremo per l'uomo, dell'«uomo della possibilità» (R. Musi!). L'anima di questa contraddizione è l'insoddisfazione che «incalza e rende inquieti» (E. Bloch), la speranza che rappresenta una possibilità di compimento del passato coLacultura Ad~I prog I n un testo scritto da Adorno e Horkheimer nel 1944 leggiamo: «L'industria culturale può fare quello che vuole dell'individualità solo perché in essa, da sempre, si è riprodotta l'intima frattyra della società. Nei volti degli eroi del cinema e dei privati confezionati secondo i modelli delle copertine dei rotocalchi svanisce un'apparenza a cui non crede più nessuno, e la passione per quei modelli vive nella segreta soddisfazione d'essere finalmente dispensati dalla fatica dell'individuazione ... » (M. Horkheimer - T.W. Adorno, Dialettica dell'Illuminismo, Torino, Einaudi, 1966, p. 167). La visione «catastrofica» dell'industria culturale che esce da queste riflessioni sembra da un lato lontana da una concezione esclusivamente sincronica, indifferente il più delle volte al contesto e alle differenze, atteggiamento dominante nella produzione grafica di questi ultimi anni; ma dall'altro, secondo noi, segna un ammonimento per questo settore della progettazione visiva che, da un'esistenza adolescenziale, via via è cresciuta fino ad arrivare a definirsi disciplina, con suoi statuti, istituzioni, una sua enciclopedia (cfr. G. Anceschi, Monogrammi e figure, Firenze, La Casa Usher, 1981). Se dopo cinquant'anni di grafica italiana è lecito parlare di disciplina, non sempre gli operatori della comunicazione grafica sono consapevoli di appartenere a un sistema nel quale i manifesti, un marchio, un allestimento, una copertina di un libro rappresentano un testo e «un testo è una macchina semantica-pragmatica che chiede di essere attualizzata in un processo interpretativo, e le cui regole di generazione coincidono con le proprie regole di interpretazione» (U. Eco, Lector in fabula, Milano, Bompiani, 1979 p. 69). Il tecnicismo di certe soluzioni da «scuola svizzera» nasconde spesse volte una povertà testuale di cui il grafico non si rende conto, costretto com'è dalla sua professione - per problemi di formazione culturale e di organizzazione del lavoro - a emarginare i problemi di contenuto per privilegiare le soluzioni formali, nelle quali poi, per l'assenza di consapevolezza culturale nei riguardi del committ;:s tente, emergono soltanto funzioni .5 ~ fortemente imperative senza creat::l.. re con l'utente un rapporto «stimolo-risposta» di tipo aperto. .Ancora Umberto Eco: «m un -9 testo l'autore costruisce artifici se- ~ miotici prevedendo 1 comportaE menti del proprio destinatario, an- ~ ti~ipandoli, iscrivendoli nelle fibre s:: stesse del proprio ordigno testua- ~ le, e postulandoli come condizione l di riµscita del proprio atto comu- ~ nicativo» (Lector in fabula, p. 70). Ecco, non è ancora totalmente matura, nella professionalità del grafico, la coscienza di operare in un sistema, nel quale non sei più in grado di controllare compiutamente il destino del tuo prodotto comunicativo, se non attraverso alcuni artifici semiotici capaci di anticipare in parte, quindi di prevedere, l'impatto comunicativo. Ma quanti grafici sono in possesso di questi artifici semiotici? L a grafica, per la sua storia, le sue eredità culturali, l'organizzazione del lavoro nella quale opera - la committenza pubblica e privata, le agenzie di pubblicità, l'editoria-, si è sempre tenuta lontana, per timore reverenziale o superbia, dal dibattito estetico. È stata invece ed è oggetto di riflessione teorica da parte di alcuni teorici e storici dell'arte come Gillo Dorfles e A. C. Quintavalle, soprattutto con la sua iniziativa del Centro Studi e Archivio della Comunicazione (CSAC) dell'Università di Parma. Questa situazione da un lato ha lasciato libero il grafico nelle sue scelte culturali, in un rapporto in genere non dialettico con la committenza, dall'altro ha impedito alla stessa cultura della progettazione di crescere e di rispondere adeguatamente al dibattito sul senso della comunicazione e soprattutto sul destino semantico ed estetico di un prodotto. È sufficiente pensare, da questo punto di vista, alla gestione delle varie associazioni professionali, o dei Centri di Studi Grafici di alcune città, fondamentali per la storia della comunicazione visiva, come Milano e Torino. Se hanno un merito questo strutture associative, esso è la raccolta delle testimonianze tecnologiche, del «lavoro», della stampa, ma in genere mantengono questo aspetto «giacobino», sempre in una sorta di separazione dalla cultura del progetto. Non sono situazioni accidentali; è il risultato di una certa tendenza culturale italiana che cerca sempre, crocianamente, di separare il momento tecnologico dal luogo culturale dell'ideazione, della creazione. Che cosa sono i manifesti, un marchio, un allestimento di mostra: tecniche al servizio del contenuto, o contenuto, «poetiche» essi stessi? Per un grafico un progetto non deve essere mai soltanto immagine; un manifesto che sia soltanto immagine è fortemente autoreferenziale, tende a comunicare se stesso. Un marchio deve parlare non di sé, ma narrare -imastoria che poi, nello scenario iconico, s'interseca con un'altra storia, amplifica il suo valore comunicativo o può anche consumarsi in concomi-- tanza di altre offerte comunicative. Questa realtà complessa, questo parallelismo di canali, questo contenitore sempre più sincronico che riporta tutto a una sorta di spettacolarizzazione visiva, impone al progettista-grafico una serie di conoscenze, di competenze che esso non sempre è in grado di utilizzare e di controllare: la teoria dell'informazione, i problemi più strettamente sociologici, la consapevolezza iconografica, la conoscenza delle ricerche nell'ambito della percettologia, una cultura di tipo semiotico, la consapevolezza del frammentarsi dei linguaggi. La tecnica certo è fondamentale, ma la pulizia formale di un manifesto, di un marchio, molte volte nasconde scarsi orizzonti culturali ed esalta invece un atteggiamento di «riduzionismo» nel quale una pretesa scientificità delle soluzioni grafiche è assunta come segno di . grande professionalità e quindi di «opera riuscita». Ed è proprio in questo ambito che è possibile distinguere chiaramente il ruolo di un progetto pubblicitario da una più complessa comunicazione grafica al di là di un evento strettamente merceologico. L'interno del padiglione delle vendite alt'asta A lbe Steiner così analizzava il problema «contenuto e forma» agli inizi degli anni Settanta, periodo nel quale la grafica usciva dagli studi per diventare «merce di scambio»_:«quello che per me conta è il rispetto fondamentale del destinatario, cioè dell'utente, in un'epoca in cui esiste la possibilità della ripetibilità dell'immagine. Masse enormi di persone possono godere o usufruire di un prodotto che è il messaggio visivo. «Che cosa vuol .dire contenuto e forma in questo caso? Il contenuto è la conoscenza specifica dell'oggetto che deve essere visualizzato sino a una sintesi così evidente che, ridotta in termini del segno speciale, quindi termini minimi, sia immediatamente percepibile e chiara. C'è una notevole quantità di segni, ma c'è sempre un bassissimo livello estetico» (A. Steiner, Il mestiere di grafico, Torino, Einaudi, 1978, p. 48). In queste riflessioni, ci sono tre elementi ancora attuali e stimolanti per il grafico, a metà degli anni Ottanta: 1. la grafica come prodotto, 2. il concetto di contenuto del messaggio come conoscenza specifica dell'oggetto da comunicare, 3. lo scarso livello estetico della comunicazione grafica. Questi non sono problemi tecnici nel senso del puro e semplice aggiornamento nella direzione dell'evoluzione degli strumenti; il computer è uno tra gli strumenti, non lo strumento! Sono invece problemi in genere assenti nello scenario culturale che tradizionalmente è proprio del percorso formativo del grafico. Soffrono di queste carenze culturali, direi, tutti i settori delle comunicazioni visive dove si sono esaltati, oltre misura, per ragioni strettamente commerciali (analizzate la povertà lesicale delle riviste di fotografia, per esempio), i saperi della «macchina», confondendo la necessità di una sempre rinnovata specializzazione tecnologica con un vuoto e asettico specialismo. «Lo specialismo - scrive Tomas Maldonado - è oggi la nuova ideologia dell'anti-ideologia, la nuova falsa coscienza( ... ). In futuro, architetti e designers industriali non devono rinunciare a ciò che da sempre ha costituito la loro condizione più specifica, vale a dire: la curiosità universale, la capacità di percepire le relazioni che esistono tra i campi più diversi dell'ambiente umano. Ma se cederanno allo specialismo, architetti e disegnatori industriali si trasformeranno in agenti attivi della disintegrazione culturale e, paradossalmente, contribuiranno ad accrescere l'abituale disfacimento dell'ambiente umano, invece di impedirlo» (T. Maldonado, Avanguardia e razionalità, Torino, Einaudi, 1974, p. 215). Maldonado parla di una necessità, all'interno dell'area del progetto, di una Progettazione Ambientale, disciplina che dall'anno accademico 1984-1985 per la pnma volta è presente nella facoltà di Architettura di Milano. Ecco allora chiarirsi ciò che oggi dovrebbe costituire una costante della comunicazione grafica: il progetto, per comunicare, ha necessità di conoscere il preesistente ambientale, nel quale - come osserva Maldonado - sono inclusi fra gli altri «i campi d'interesse che più hanno contribuito a dare struttura e senso all'ambiente umano: l'urbanistica, l'architettura, il disegno industriale» (Avanguardia e razionalità, p. 216). S e, sulla falsariga di queste riflessioni, dovessimo indicare quali sono i riferimenti fondamentali dello scenario nel quale opera la comunicazione visiva e, in particolare, la grafica, queste sarebbero le priorità culturali da me del futuro degli uomini. Anche il nichilista che consuma in sé la morte del soggetto senza riuscire a scavalcare le aporie del suo autosuperamento, non deve e non può ignorare la virtù segreta di quell' «eliotropismo» di cui parlava Benjamin: volgersi verso il sole è ciò che chiede l'uomo su questa terra, questo «splendido intruso» del regno della luce, «mit den sinnvollen Augen», «con gli occhi ricolmi di sensi» - come diceva Novalis. tenere presenti per dare un significato consapevole e alla progettazione e all'interpretazione: 1. Sapere che il Segno della Comunicazione grafica è un Segno nel quale la valenza semantica solo in parte è ~nticipabile. 2. In un sistema come il nostro il linguaggio visivo, per comunicare, deve lasciare aperti spazi, corridoi nei quali il soggetto possa entrare. I modelli forti non comunicano che se stessi. Attenti alla graficagrafica! 3. Le costanti e le variabili: le costanti sono ciò che soddisfa la funzione semantica di una comunicazione grafica: le variabili sono gli elementi che assolvono a una funzione più estetica, imprevedibile. Il grafico deve operare coscientemente con le costanti, altrimenti non potrebbe nemmeno pensare di essere «asintattico». Ciò che rende imperativo un segno grafico non è la perfezione cosiddetta «svizzera» ma, appunto, l'infrazione alla regola, consapevole e mai accidentale - altrimenti diventerebbe mamera e quindi fortemente ridondante. 4. «Se esiste un testo [ e la grafica è un testo che parla di un altro testo], esso esiste in rapporto agli altri testi esistenti» (O. Calabrese, in Autori vari, Semiotica della pittura, Milano, il Saggiatore, 1980, p. 19). La nostra mente fa un continuo lavoro di decodifica e ricodifica: ogni nostra rappresentazione è un segno, il quale, unito alla sua spiegazione, costituirà un altro segno, che chiederà, per essere spiegato, un'altra spiegazione, così all'infinito. Peirce chiama questa la semiosi illimitata. La grafica possiede una semiosi illimitata. 5. La comunicazione grafica, allora, è all'interno di una rete complessa di processi segnici, nella quale, più che creare segni, li trasforma, li riutilizza. L'elaborazione di nuovi sistemi segnici è, anche nella grafica, una lenta impresa collettiva e, molte volte, inconsapevole (cfr. C. Segre, Testo, in Enciclopedia Einaudi, voi. 15). Ma l'inconsapevolezza non significa né assenza d'impegno né abbandonarsi al catastrofismo un poco nostalgico di Adorno e Horkheimer; significa che «il grafico che si rispetti deve ritirarsi quando capisce che il prodotto è scadente», come ammoniva, ancora una volta, Albe Steiner. Tuttavia è anche chiaro che il grafico, culturalmente consapevole, prima di ritirarsi definitivamente, dovrà utilizzare tutte le astuzie della· ragione per trasformare un evento commerciale in un fatto educativo. Il grafico deve essere soprattutto un uomo di cultura, responsabile di essere anche .un educatore, forse inconsapevole, ma certamente con un peso non indifferente nell'indicare comportamenti, modelli, stereotipi sociali.

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