Ledeclinaziondi Vattimo Gianni Vattimo · La fine della modernità Nichilismo ed ermeneutica nella cultura post-moderna Milano, Garzanti, 1985 pp. 191, lire 16.000 Dialettica, differenza, pensiero debole in Autori vari Il pensiero debole a cura di Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti Milano, Feltrinelli, 1983 pp. 259, lire 16.000 Al di là del soggetto Nietzsche, Heidegger e l'ermeneutica Milano, Feltrinelli, 19842 pp. 120, lire 14.000 Le avventure della differenza Milano, Garzanti, 1980 pp. 208, lire 7.500 L o spettacolo del!a filosofia contemporanea s1 presenta, per certi riguardi, estremamente avvincente: è incontestabile che proprio la stes·sa'negatività' di questo pensiero, il suo carattere talora sinistramente euforico o spregiudicatamente ludico eserciti una sua seduzione su chi è stanco di verità rivelate e di assiomi indiscussi e indiscutibili, su chi, deluso dalla realtà, resta ostinatamente scettico su tutte le guise di trascendimento o di giustificazione della realtà stessa, di teodicea in forma di razionalizzazione imposta da una volontà di certezza, o - diremmo con Nietzsche - di verità troppo corrosa al suo interno, troppo disgregata in sé medesima, per porsi come arbitra nella fondazione d_inuovi valori. Paradossalmente la nuova filosofia (che non ha nulla a che fare con la disinvolta allure dei nouveaux philosophes!) finisce per venire incontro non tanto al nostro bisogno di certezza, alla nostra ricerca di un fondamento, alla nostra aspirazione ai valori, quanto alla nostra diffidenza per ogni certezza, al nostro sospetto su ogni fondamento, alla nostra insofferenza per i cosiddetti 'valori'. In questa ottica, che più di ogni altra riflette la condizione dell'uomo di oggi, uria condizione - si è detto - «postmoderna», acquista una sua indubbia rilevanza quel complesso di formulazioni, d'indicazioni, di proposte e in parte anche di teorizzazioni che vanno sotto il nome di «pensiero debole». A Gianni Vattimo, che ne è l'esponente più prestigioso, va il merito di aver dato a queste teorizzazioni l'intelligenza ermeneutica e la duttilità argomentativa di un filosofo che a buon diritto può essere considerato tra i più significativi e importanti. La sua ambizione, del resto confortata dalle doti di una riflessione ricca e penetrante, è quella di darci una rilettura «di Nietzsche, di Heidegger, dell'ermeneutica unificata dall'interesse per gli elementi di declino che vi si possono riconoscere; cioè per quegli elementi che, in queste corren- •ti, alludono in generale ·all'esigenza, che mi sembra primaria, di ripensare la filosofia ( ... ) alla luce di una concezione dell'essere che non si lascia più appagare tlai suoi caratteri 'forti' (presenza dispiegata, eternità, evidenza, in una paroia·: autorità e dominio), che sono sempre stati preferiti dalla metafisica» (Al di là del soggetto, pp. 89). La prospettiva di Vattimo mira a individuare nel «pensiero debole» i presupposti di una «nuova ontologia» (Dialettica, differenza ... , p. 20) nella quale sia sgombrato l'orizzonte da qualsiasi tentativo di ricomporre, dialetticamente o meno, una totalità e sia pensato invece sino in fondo il pensiero della differenza, così da escludere ogni «riappropriazione», vale a dire ogni autoaffermazione del soggetto al di là dell'alienazione e contro di essa. Il passaggio decisivo a questo nuovo orizzonte è offerto a Vattimo dal concetto heideggeriano di Verwindung opposto a quello dialettico (ma è veramente tale? in Nietzsche, per esempio, non lo è affatto) di Uberwindung. Non si tratta di superare, di oltrepassare, di andare oltre (uberwinden), ma - come spiega lo stesso Vattimo - di una «declinazione-distorcimento», che è altresì «un rimettersi da, un rimettersi a, un rimettersi nel senso di inviarsi». Mi pare che di gran lunga più importante del sostantivo 'ontologia' sia, nel. nostro caso, l'aggettivo 'debole'. Debole è il soggetto perché non è più un primum, debole perché privo di fondamento, come debole è la sua progettualità. «Credo che la filosofia - dice Vattimo - non debba né possa insegnare dove si è diretti, ma a vivere nelle condizioni di chi non è diretto da nessuna parte» (Al di là del soggetto, p. 10). Ma io mi domando - e questo è il primo problema - se l'oltrepassamento del soggetto o la sua caduta o obliterazione o anche, se si vuole, la sua diversa 'declinazione' nel senso imposto dalla Verwindung debbano necessariamente equivalere - come sembra discendere dalle tesi di Vattimo - a un su<:1ritirarsi, a un suo rattrappirsi: mi domando, cioè, se questo movimento debba necessariamente comportare un venir meno, una carenza, un deficit, ovvero non tanto una discesa di senso, quanto un suo illanguidirsi. Non fa capolino, in questo atteggiamento, proprio quel 'rassegnarsi', una sfumatura nascosta nell'etimo (wend) della p·arola Verwinden, anche se questo rassegnarsi, questo destituirsi viene inteso come un «rimettersi a»? Ferrucc o Masini V attimo sottolinea che «il nichilismo è l'unica via possibile dell'ontologia» (ibidem, p. 42). Ma di quale nichilismo si tratta? Di un nichilismo - prosegue Vattimo - che «comporta un indebolimento della forza cogente della realtà» (La fine della modernità, p. 35)? Di questo nichilismo egli tesse l'«apologia» sostenendo che siamo entrati nell'epoca del «nichilismo compiuto», per effetto del quale si avrebbe «la generale reificazione», «lariduzione di tutto a valore di scambio» (ibidem, p. 35). Il «nichilismo compiuto» è un'espressione di Nietzsche, ma non è nel senso proprio che viene assunto da Vattimo. Questo nichilismo, infatti, non è in alcun modo, per Nietzsche, una negazione: si ha addirittura qui quello che Nietzsche chiama «nichilismo passivo», «il nichilismo stanco, che non aggredisce più». Viene a mancare così quel «massimo di forza relatiLa minestra del mattino alle Halles va» raggiunto dal nichilismo attivo come forza violenta di distruzione. Il «nichilismo passivo» è «segno di debolezza: l'energia dello spirito può essere stanca, esaurita, in modo che i fini sinora perseguiti sono inadeguati e non trovano più credito». Ma per Nietzsche proprio l'assenza di un fondamento («che non ci sia una verità, che non ci sia una costituzione assoluta delle cose, una 'cosa in sé'>>) presuppone un nichilismo «estremo», che_in tanto può sostenere l'inesistenza di un mondo vero, in quanto è una «misura di forza» a consentirglielo, nel senso che quest'ultima è «costituita dal punto sino al quale possiamo ammettere, senza andare in rovina, l'illusorietà e la necessità della menzogna». Il «nichilismo compiuto» di cui parla Vattimo non è nichilismo, o meglio lo è nel senso deteriore espresso dalla permutabilità infinita del valore. Ma non v'è alcuna affermazione di Nietzsche che possa giustificare la «riduzione dell'essere a valore di scambio» quando essa si pone come la garanzia di chi intende preservarsi dalla tiranniqe dei valori, dalla metafisica dell'essere come verità e fondamento in nome di un pensiero rivolto a costruire un' «ontologia debole». Esiste invece, per Nietzsche, un nichilismo dovuto a un eccesso di forze, a un surplus,, non già a un minus. Questo nichilismo si connette alla Um-wertung, operata .da . quel «perfetto nichilista» che «ha già vissuto in se stesso sino in fondo il nichilismo stesso - che lo ha dietro di sé, sotto di sé, fuori di sé». Questo spostamento da una nozione 'debole' di nichilismo a una nozione centrata nelle sue implicazioni dinamiche o più precisamente 'dionisiache' mi sembra coerente con la differenza tra un nichilismo inteso come «stato normale» e un nichilismo concepito come «stato di passaggio», «stato intermedio» (Zwischenzustand). Il «nichilismo compiuto», nel senso in cui lo interpreta Vattimo, non può essere appunto che il nichilismo stabilizzato come Normalzustand e quindi ricondotto al mero semplice «valeur-signe» (come direbbe Baudrillard), in cui si colloca la società dei consumi. È evidente che questa posizione riflette l'esclusione di qualsiasi possibile alternativa all'esistente: !'alternativa implicherebbe, infatti, una riproposizione di valori e quindi della soggettività come fondamento - direbbe Vattimo. Ma le cose stanno proprio così? È un fatto che il dispositivo pragmatico-segnaletico di una civiltà dei simulacri blocca definitivamente ogni prospettiva d'azione e così pure chiude ogni orizzonte di possibilità. Siamo entrati nell'epoca del nichilismo di massa con cui ha termine l'età delle rivoluzioni e quindi di qualsiasi dinamica sociale: la massa atomizzata, nuclearizzata, molecolarizzata, di cui parla Baudrillard, è l'erede dell'«ultimo uomo» dello Zarathustra. Nel rapporto tra «ontologia debole» e nichilismo viene in evidenza il senso più riposto dell'aggettivo «debole». La debolezza non sta tanto nella sostituzione del nichilismo al logocentrismo, nella ostensione della «dif/ferenza», nella risoluzione della «dif/ferenza» - secondo Derrida - in una pratica della scrittura come «pratica della dff/ferenza» (G. Sertoli). In altre parole: la debolezza non sta tanto nel 'fra', per cui non è l'essere; ma la sconnessura, l'assenza, l'inter-esse, l'inter-essente (e quindi 'interessante') a realizzare una dislocazione di senso dal significato al significante, dalla costruzione alla decostruzione. La 'debolezza' sta, a mio giudizio, nella translitterazione ludica di un nichilismo che si nutre di simulacri e riduce anche la mobilitazione simbolica del mondo a una mobilità di simulacri. Siamo in balia di un nichilismo reattivo: si reagisce all'insostenibilità di un soggetto umano-troppo umano, metafisico, dominatore e appropriatore, col minare ogni possibilità d'azione, con il paralizzarne la critica del reale nella pietas di fronte al tramandato, al residuale, al lascito della storia. Non solo a questo soggetto viene intimato di non esistere se non si adatta al ruolo di pensionato della storicità dell'e~- sere, ma egli deve considerare la sua condizione marginale, subalterna, sopraffatta, come lo scotto necessario, come espiazione per aver preteso di essere «signore dell'essente». Q uesta forma oscura e impalpabile, sofisticata e variegata di nichilismo reattivo trova mdubbiamente la sua origine non già in Nietzsche (che ne fu anzi un formidabile oppositore), ma in Heidegger, appunto, per il qti,ale la «dignità» dell'uomo, «pastore dell'essere», non riguarda il mondo degli uomini e delle cose, ma «consiste nell'essere chiamato dallo stesso Essere a guardia della sua verità» (Lettera sull'umanismo). Per Heidegger l'umanismo è pensare «l'umanità dell'uomo a partire dalla prossimità dell'essere», e questo soltanto sarebbe un pensare «radicale» che ripristina l'uomo nella sua vera essenza. Ma la radice dell'uomo sta proprio in questa «vicinanza»? So che scandalizzerò i maitres à penser - e non soltanto loro - dell'uomo postmoderno, perché vorrei citare, a questo punto, le parole di un mostro antidiluviano, in senso forte, dell'umanismo e precisamente Karl Marx. Scrive Marx in Per la critica della filosofia del diritto di Hegel: «Essere radicale significa cogliere la cosa alla radice. Ma la radice dell'uomo è l'uomo stesso. La prova evidente ·del radicalismo della teoria tedesca, e quindi della sua energia pratica, è il suo partire dalla categorica eliminazione positiva della religione. La critica della religione porta alla dottrina secondo la quale l'uomo è, per l'uomo, l'essere supremo; dunque essa perviene all'imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti nei quali l'uomo è un essere degradato, asservito, abbandonato e spregevole». Cresciuti come siamo alla scuola del sospetto è possibile sospettare che la radice dell'uomo intesa come l'«essenziale povertà del pastore» e cioè come «vicinanza all'Essere» non sia la radice dell'uomo reale, dell'uomo che ha subito lo scacco della storia, lo scacco della sua pretesa di porsi come «signore dell'essente», l'uomo ridotto ormai soltanto ai suoi «sintomi» (G. Benn), l'uomo senza contenuto, ~ questo pericoloso e tragico 'forse', ~ questo «enigma per uccelli di rapi- -~ na», direbbe Nietzsche. ~ Pensare radicalmente questo ~ uomo credo debba essere ancora ....., .9 ~ E una volta «palesare la teoria ad hominem», come voleva Marx. Il discorso riguarda dunque la radice, la radicalità di una critica del ~ soggetto che non si limita a toglie- s::: re al soggetto la sua pretesa di so- ~ vranità sull'essere, ma mette im- l mediatamente in rapporto la 'po- ~
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==