Alfabeta - anno VII - n. 72 - maggio 1985

Le immagini dell'ambiente II Daunevoluzionismaoll'altro O gni ortodossia, per essere tale, deve soddisfare almeno tre clausole: identificare se stessa come l'unico e vero sapere intorno a un determinato oggetto, costituirsi in dottrina chiusa, rigida e possibilmente immutabile, ignorare programmaticamente le vecchie difficoltà e quelle nuove poste dal procedere della conoscenza. È altrettanto noto che la fase ortodossa è solitamente l'ultima prima del disfacimento e che le sue operazioni autoconservative finiscono con lo screditare anche gli aspetti più validi e duraturi della dottrina. Il neodarwinismo o teoria sintetica dell'evoluzione- sintetica perché coniuga il meccanismo della selezione naturale con le leggi dell'ereditarietà formulate da Mendel - ha adempiuto nel corso di mezzo secolo alle clausole necessarie per trasformarsi in una ortodossia scientifica, con tutti i còrollari pratici che ne derivano: contrapporre le vecchie indiscutibili glorie alle critiche del presente, bollare come antievoluzionista tout court chiunque metta in luce le contraddizioni e le lacune della teoria sintetica, continuare a esporre i fatti secondo gli schemi tradizionali, come se nulla fosse cambiato. Molto brevemente i custodi dell'ortodossia, pur nella complessa varietà delle loro posizioni, sostengono ancora che il nuovo è casuale (la mutazione genetica che produce per caso nuovi caratteri in un individuo ereditati poi dalla sua discendenza) e la sua diffusione, nel tempo e nello spazio, consentita dall'adattamento all'ambiente nel quale potranno sopravvivere e . moltiplicarsi solo gli individui a cui la mutazione abbia fornito adeguate qualità. Qui cominciano gli interrogativi senza risposta e le occasioni di critica. Per esempio, dire che sopravvive il più adatto e che il più adatto è quello che sopravvive, è stato osservato, è una ben curiosa forma di spiegazione; a meno di non conferire al fenomeno dell'adattamento quel che Lewontin chiama un carattere metafisico, non solo sottratto alla confutabilità propria delle teorie e delle ipotesi scientifiche ma compatibile con ogni e qualsivoglia osservazione. Il fatto, ovviamente, non cambia se invece di sopravvivenza si parla - come vuole Ernst Mayer - di «successo riproduttivo» (Fitness), cioè della capacità di dar vi~aa una progenie più numerosa. Un'altra fonte di molteplici ombre e perplessità è costituita dagli interrogativi posti dal rapporto tra numero delle generazioni e frequenza delle mutazioni nei diversi tipi di viventi. Il caso più clamoroso è quello dei Batteri e dei grandi Mammiferi. La durata di una generazione dei primi è, in ambiente naturale, di circa mezz'ora. Se a rappresentare i grandi Mammiferi prendiamo gli Ominidi la durata media di una generazione è di 25 anni. Il che vuol dire nei tre milioni e mezzo di anni passati dalla comparsa dei più antichi Australopitechi e l'uomo attuale all'incirca 140.000 generazioni contro un num'ero di generazioni batteriche di oltre 400.000 volte superiore. Ma questa differenza aumenta enormemente se si considera che i Batteri sono apparsi nel periodo precambriano, vale a dire molte centinaiadi milioni di anni fa, più di un miliardo, prima degli Ominidi e che il numero degli individui delle popolazioni batteriche era sterminato rispetto a quello delle piccole popolazioni dei nostri lontani antenati. Eppure da questi in un modesto lasso di tempo si sono sviluppati individui perfettamente bipedi, a stazione eretta e, soprattutto, con una struttura cerebrale capace di funzioni radicalmente nuove e diverse rispetto a quelle di ogni altro animale. I Batteri attuali, nonostante l'immensa quantità di generazioni, di individui, e quindi di mutazioni, sono rimasti, come osserva Pierre Grassé, con le stesse carattei;istiche essenziali dei loro antenati precambriani che metabolizzavano i sali ferrici nelle lagune; le loro innumeri e disordinate variazioni «girano in tondo», non si discostano dallo schema organizzativo tipico o, detto più franErnesto Mascitelli una semplice coppia di alleli ma da molti. Un allele, o gene allelomorfo, è l'una o l'altra forma di un gene che occupa lo stesso posto (locus) su due cromosomi omologhi e riguarda di solito lo stesso carattere: il colore del pelo, le proprietà immunologiche del siero, la forma delle foglie, o, per ricordare i celebri piselli di Mendel, la levigatezza della loro superficie controllata dai due alleli rugoso/liscio. Il fatto che lo stesso gene abbia più forme in luogo di due è stato interpretato in modi diversi: per alcuni indica la debolezza del potere pianificante della selezione naturale; per altri, selezionisti indomiti, tale polimorfismo lungi dal contraddire la selezione viene da questa spiegato: le popolazioni con maggior numero di varianti in caso di mutamento delle condizioni ambientali avrebbero una magIl secondo ordine di difficoltà ha la propria fonte nella mancanza pressoché totale di dati sull'origine di intere classi di viventi. È il caso, di straordinaria importanza, degli insetti, la cui classe conta non meno di 675.000 specie costituite da un numero sterminato di individui. Esiste infine la serie dei complicati problemi del confronto tra prospettive metodologiche e disciplinari diverse; quella paleontologica, ad esempio, si può riassumere nel motto «il fossile è ciò che conta», mentre quella della genetica molecolare si muove all'interno di un orizzonte dominato dai rapporti tra DNA e proteine. Per non parlare di differenze ancor più ampie e profonde quali intercorrono tra il modo di procedere tipicamente induttivo dei neutralisti e quello basato sulla deduzione dei selezionisti. Sezione di un padiglione che ne illustra il funzionamento camente, non si sono affatto evoluti. e hi ha cercato di evitare questa impasse congetturando che il processo evolutivo ha un ritmo particolare negli organismi pluricellulari a struttura più ordinata, riprendendo il classico tema dello sviluppo dal più semplice al più complesso, si è trovato di fronte a un problema non meno complicato: la tendenza di ogni sistema chiuso verso gli stati fisicamente più probabili, cioè il disordine, la perdita d'informazione o, come si dice, l'aumento di entropia. Si è trovato cioè di fronte a quell'annuncio di ineluttabile degradazione della materia organizzata che costituisce il nocciolo del secondo principio della termodinamica, vox clamans esattamente il contrario: dal più complesso fatalmente al più semplice. A questo punto qualcuno ha invocato la selezione naturale - è il caso di Monod - come «una specie di macchina per risalire il corso del tempo», una specie di forza che preme in direzione opposta a quella dell'aumento di entropia, così che la selezione rischia di trasformarsi, come l'adattamento, in un principio trascendente e indiscutibile oppure di veder drasticamente ridotto il proprio campo di validità entro i ben più modesti limiti che riguardano gli individui all'interno di-una stessa specie. Si è infatti osservato che le popolazioni naturali sono provviste non già, come a lungo si era creduto, di gior possibilità di «pescare» qualche allele, e relativo carattere, in grado di essere il più adatto nelle nuove circostanze. Altri ancora, i cosiddetti neutralisti, sono convinti che le mutazioni, alle quali si devono i molti allelomorfi diun gene, risultano indifferenti per quel che riguarda la selezione; le variazioni nelle caratteristiche di un organismo che esse possono indurre o sono minime o, come testimoniano i dati indiscussi della patologia, sono negative non raramente fino alla letalità. Certamente, nel corso di una vicenda che dura da tre miliardi e mezzo di anni si sono avute anche mutazioni -vantaggiose, ma la loro frequenza è stata, altrettanto certamente, tanto bassa da non consentirne l'uso, se non marginale, al fine di una soddisfacente spiegazione dell'immensa complessità del processo evolutivo. II verdetto dei neutralisti è, in sostanza, che manca ancora una chiave adeguata, uno strumento euristico sufficientemente valido. Alle ragioni di incertezza e di controversia sommariamente accennate occorre aggiungerne altre che, molto arbitrariamente, assegnerò a tre ordini diversi. Il primo è quello costituito dai problemi irrisolti di carattere particolare: per esempio è ancora indecidibile se la classe dei Mammiferi sia da considerarsi omogenea o eterogenea, cioè derivante da una sola classe di Rettili antichi o da più d'una, né per quali figure successive ciò sia accaduto. D a questa rassegna, per forza di cose lacunosa, dovrebbe emergere con qualche chiarezza il fatto che l'ipotesi della selezione naturale e altri luoghi classici della teoria sintetica non riposano sulle solide basi che i suoi sostenitori vorrebbero credere; troppi sono i fatti ignorati, e troppo importanti, per non dare alla difesa della teoria i tratti della difesa di un'ortodossia chiusa di fronte al continuo emergere del nuovo. Il che non è un fatto propriamente edificante dal punto di vista scientifico ed è fonte di ulteriori perplessità. Occorre tuttavia ricordare una particolare circostanza che da tempo immemorabile accompagna le discussioni dei naturalisti sui problemi dell'evoluzione, probabilmente da quando Anassimandro da Mileto insinuò, nel VI secolo a.C., che i primi animali nati nell'acqua si trasformarono poi in terricoli: l'intervento diretto e puntuale di motivi estranei allo specifico e provenienti dalla sfera religiosa, politica e sociale. È notissimo quel che accadde a partire dal 1859, anno in cui apparve L'origine della specie; per limitarci all'ambito del cattolicesimo, il primo e sollecito intervento ufficiale è del 1860, quando i vescovi tedeschi, riuniti in sinodo a Colonia, dichiararono contraria alle Sacre Scritture e alla fede «la sentenza di coloro i quali osano affermare che l'uomo, in quanto al corpo, è derivato per spontanea trasformazione da una natura imperfetta ... ». Non è questo il luogo per una storia dei rapporti tra il magistero ecclesiastico e quella «turpe dottrina che cerca gli inizi del genere umano da una scimmia irsuta», ma val la pena ricordare che la condanna in nome della fede era associata a giudizi di merito sulla fondatezza della teoria darwiniana, «questo tessuto di fantasie», e dall'esplicito invito agli studiosi cattolici a confutare scientificamente «simili fantasticherie». Un modo di procedere, come si sa, che non è stato solo appannaggio della Chiesa cattolica né solo di chiese in senso stretto, ma che è stato largamente adottato anche da altre istituzioni che con la religione non avevano o non avrebbero dovuto avere niente in comune. Così agli evoluzionisti toccò in sorte anche il compito di difendere le loro teorie nelle sedi più diverse da attacchi pregiudiziali, spesso di rozzezza e volgarità sorprendenti, portati con argomentazioni completamente al di fuori delle varie discipline scientifiche. È facile quindi comprendere come la tendenza a configurare il darwinismo e i suoi successivi sviluppi in dottrine ortodosse abbia trovato un forte incentivo in tali situazioni. Naturalmente le idee delle chiese cristiane sono cambiate in modo radicale nel corso degli anni; per esempio la tesi sostenuta e diffusa da Karl Rahner, forse il maggior teologo cattolico del nostro secolo, che il fatto di un'evoluzione provata dalle scienze naturali sia presupposto a ogni riflessione filosofico-teologica sull'argomento, è ormai un dato acquisito - salvo per qualche pellegrino attardatosi nel secolo scorso e incline a vagheggiare crociate sul tipo di quelle malamente in corso ad opera dei «creazionisti» made in Usa, già indicate dai teologi come un «fenomeno provinciale o di retroguardia, spiegabile con gli atteggiamenti fondamentalistici di alcune sette cristiane». La teoria sintetica dell'evoluzione, insomma, non sembra più in grado di includere nel proprio orizzonte un complesso insieme di fatti nuovi: caso non certo singolare e più volte accaduto ad altre ipotesi e teorie scientifiche nel corso della storia. È perciò un problema che va affrontato con gli strumenti propri delle scienze della natura, non un'occasio_ne per riesumare cadaveri da tempo sepolti. La constatazione che molte delle spiegazioni di fenomeni naturali alle quali attualmente si ricorre non sono soddisfacenti è un fatto tanto ovvio e tanto scontato da essere comunemente indicato come la stessa ragione di esistenza della ricerca scientifica. Non sarà la situazione più desiderabile ma è così e non altrimenti. Da ricordare, infine, che molto spesso le questioni irrisolte a livello teorico si riflettono variamente sul piano pratico. Nel caso specifi- -.:i- <"! co, basta pensare alle difficoltà di i:::s i:: una soddisfacente interpretazione -~ del rapporto ambiente: adatta- ~ mento i cui fenomeni sono alla ba- ~ se di molti interrogativi ecologici ......, posti attualmente dalle non esal- .9 tanti vicende della nostra storia di g:s t: maldestri utenti del mondo naturale. Ma questo è un altro discorso ~ che merita di essere affrontato a parte.

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