Alfabeta - anno VII - n. 72 - maggio 1985

L'immagine del doppio Nef.volume finale de A la recherche du temps perdu, Le temps re- • • trouvé, si ,_sa,il protagÒ.nista proustiano, esperendo l'enigma del susseguirsi scandito delle reminiscenze involontarie, si congiunge e si identifica con la voce di un suo doppio, che, sino allora, affiancandolo nel suo itinerario conoscitivo, contemporaneamente, lo trascendeva. Questo congiungimento che avviene grazie al tempo, un tempo particolare - «puro» o «extratemporale»-, e nel tempo, ha, come suo contenuto di fondo, la letteratura, la possibilità di scrivere un'opera. Come l'io narrante che a lungo ci ha permesso di scorrere le pagine affascinanti di un libro - la Recherche - ora, anche l'altro io, quello narrato dal primo, possiede una verità dapprima soltanto cercata, intravista, balenata in alcuni istanti d'eccezione e, subito dopo, in una delusione agghiacciante quanto improvvisa era stata l'illusione, svanita, catturata dal nulla della quotidianità. Lo schiudersi di tale verità, nel libro e per il protagonista, è quindi sin dall'inizio doppiamente metaforico. Una metaforicità di fondo, innanzitutto: quella di un temposostituzione (e di uno spazio-sostituito) che in un momento del presente confonde, mescola, questo stesso presente - attuale - con un altro, quello di un passato certamente dimenticato ma nemmeno avvertito nell'istante in cui, anch'esso, fu attuale. Mescolamento e sostituzione, dunque, di una puntualità con un'altra che pe~ò, Il paradigma del sogno Quandò Gérard Genette afferma che della Recherche, per quanto riguarda il suo statuto, si danno due vulgate, entrambe erronee perché radicali o eccessive, quella popolare: la Recherche è un'autobiografia pura e semplice, e quella critica: la Recherche è opera di pura finzione, affronta uno dei temi non periferici ma sostanziali di quella sterminata massa di materiali che cerca ancora, a distanza di anni, una sua definizione: la Recherche è un romanzo? Tutto il lavoro di Genette, attraverso la definizione e classificazione puntigliosa e polemica del paratesto proustiano, ha teso, reincorporando in una prospettiva più avanzata e precisata le importanti analisi proposte in Figures, Mimologiques e Palimpsestes, a rovesciarsi in quella conclusione: la Recherche è una autobiografia sognata, che non va intesa come 'bella immagine', ma piuttosto considerata come un vero e proprio topos retorico che definisce il genere. «Mescolanza perfetta di autobiografia e finzione» in nome della quale Genette può far dire a Proust, inventando un pastiche sottile e arguto: «l'eroe dei miei sogni che sogna e poi racconta in prima persona sono io e non sono io, che non ho vissuto questo; ma in nessun caso posso dire che è un altro». Il Monsieur qui raconte et qui dit «je»... si è trasferito in un genere, come tutti i generi, forse, intermedio. Della qual cosa era pienamente consapevole lo stesso Proust che sempre si era espresso in modo ambiguo, esemplarmente indeciso al proposito: ... sto serinel passato in cui fu presente, non aveva raggiunto il piano della presenza. Prima metaforicità - metaforicità di tempi: il presente è un passato, - metaforicità di luoghi: il cortile del palazzo Guermantes è il lastricato diseguale del battistero di San Marco. A cui, però, si aggiunge una seconda, anch'essa temporale, ma nella quale l'immissione di una terza istanza del tempo, il futuro, è strettamente connessa a un significato che, all'inizio, ancora non compariva: l'opera. Nell'istante di vacillamento il protagonista non oscilla solo tra presente e passato, ma, anche, tra presente-passato e futuro, il futuro di una scrittura finalmente dischiusa. Scrittura futura, appunto: quel raggiungimento e quella identificazione, sebbene effettivamente realizzatisi, rimangono pur sempre parziali. Se il doppio narrante potrà essere addirittura sostituito, si tratterà comunque di una sostituzione - che magari cerca di farsi obliare in quanto tale, di autocancellare la propria asimmetria - perché, mentre il Narratore della Recherche ha scritto il libro che noi leggiamo, l'identità del protagonista che, con un atto di «violenza», dopo le rivelazioni della memoria annette a sé l'io narrante, non può pres~indere da un'assenza, da un tassello vuoto, forse «semplicemente» a venire, a causa del quale la perfetta identificazione si dà ancora nel bagliore di un compito. «L'opera d'arte ch'io ormai mi sentivo pronto a iniziare»: l'opera vendo una specie di romanzo ... sto scrivendo qualcosa che non è propriamente un romanzo, ma che è pur sempre dal romanzo che meno si allontana ... , ecc. L'autobiografia sognata collega in modo fulminante la vita vissuta e il sogno, ma non è né la vita sognata, né il sogno di una vita. È qualcosa di diverso ancora che si spalanca su di uno spazio bianco, quello che sta tutto tra una parola e l'altra e che Proust chiama, nelle pagine dedicate a Gérard de Nerval, l'inesprimibile: «solo l'inesprimibile, solo quel che si credeva di non poter far entrare in un libro, resta in questo» ( Contro Sainte-Beuve). La Sylvie di Nerval è «il sogno di un sogno» che ha ancora un soggetto pienamente riconoscibile alla sua radice (una «coscienza innocente» secondo Artaud), la Recherche non sarà più nemmeno questo racconto interiore. L' «eccessivo soggettivismo» di Nerval (la forma della sua pazzia nascente) è la tendenza «ad attribuire maggior importanza a un sogno, a un ricordo, alla qualità individuale di una sensazione piuttosto che a quel che questa sensazione presenta di comune a tutti,. di percepibile da tutti, la realtà» (ibidem). È la realtà, quale ce la presenta non la qualità individuale di una sensazione, ma in quello che di comune a tutti, di percepibile da tutti, in cui essa consiste, che richiama l'interesse di Proust. Nelle leggi universali e non nei dettagli particolari, nonostante tutto, Proust riconosce la propria intenzione· artistica. Ma il cammino è lungo perché la realtà non si lascia, nella sµa apparenza, afferrache scriverò quindi; tempo verbale al futuro in cui si manifesta tutta la pesantezza di un alone che lo circonda, lo avvolge: la pesantezza - se può essere tale - di un'immagine, riflesso del proprio sé. L'uscita dell'edizione cnt1ca della Recherche, in tre o forse quattro volumi, a cui, affiancato da un'équipe di collaboratori, sta lavorando da anni Jean-Yves Tadié, è prevista, in Francia, per il 1987. «Si tratta di presentare - come proprio Tadié ha spiegato nella sua relazione - oltre al testo, una quantità importante di abbozzi dai 75 cahiers di brouillons, note e varianti. Per 3000 pagine di testo, verranno proposte circa 1500 pagine di abbozzi e varianti, dalle 300 alle 600 di introduzione e di note». Lo-scopo dell'edizione è quindi di affiancare al testo definitivo tutte le note e le informazioni utili a una duplice comprensione, la prima più approfondita del testo stesso, e la seconda relativa alla sua genesi e sviluppo, ma «infine e soprattutto - come sottolinea sempre Tadié - di proporre un gran numero di inediti» che «dovranno essere scelti in funzione della loro importanza (letteraria e genetica) e della loro differenza (una versione molto simile al testo pubblicato non sarà riportata)». Dalla nebulosa dei brouillons alla nebulosa della Recherche: se quest'immagine, deleuziana, si attaglia bene sia ai primi che alla seconda, è importante però non scordare e chiedersi in che cosa consista la loro differenza. Non solo gli inediti proustiani costituìre se non scissa, lacerata, doppia, dolorosa, in fondo insensata. Bucare questa apparenza della realtà (è quanto, parzialmente, ha visto Adorno in Note per la letteratura, quando dice che «Proust sa che non c'è un sé degli uomini al di là di questo mondo di immagini»), tradurla in immagine vera è il compito che Proust vuole per sé: «il dovere e il compito d'uno scrittore sono quelli d'un traduttore». Per questo ha bisogno del sogno (la Musa notturna) dentro cui conducono solo «porte inappariscenti» (Benjamin); e di qui deriva il suo «studio frenetico», !'«appassionato culto dell'analogia» che Benjamin, fra i primi, intuì e riconobbe in lui. Ciò che accade, nel sogno non si presenta mai come «identicq, ma simile: imperscrutabilmentè simile a se stesso». Nell'immagine del sogno l'io è svuotato e rovesciato, è altro ed è simile a se stesso. Sono io, e non sono io, ma in nessun caso posso dire che è un altro. Il sogno diventa allora non solo uno dei temi che è possibile, testi alla mano, rintracciare e catalogare tra i molti della Recherche, ma un paradigma piuttosto del perché la vita, la vera vita sia la letteratura, del come la scrittura, che conosce un diverso e altro tempo, una diversa e altra spazialità, diventi costruzione dell'immagine di una realtà. Ignota e da sempre nota. O, seguendo un percorso parallelo, ignota perché da sempre nota. Immagine non data, da descrivere, ma da costruire: scena perturbante («... è una caratteristica di ciò che immaginiamo dormendo, di moltiplicarsi nel passato e semscono, come giustamente sottolinea Bernard Brun, un altro testo, o un genettiano - e forse polemico - paratesto ufficioso di carattere intimo, ma anche una scrittura che non si è ancora riconosciuta, e tanto meno è stata riconosciuta dal suo autore, come tale. Proprio come il protagonista del romanzo che, per quanto assuma la responsabilità di una voce (narrativa) non ancora sua, rimane tuttavia silenzioso, Proust scrive, ma, facendolo, «continua a non scrivere» (M. Blanchot, Il libro a venire). E, come il primo, anch'esso, per staccarsi da questa fase di non scrittura, ha bisogno di una scoperta, di un'esperienza rivelatrice che gli permetta di scrivere l'opera. Rivelazione che, per Maurice Blanchot, consiste nell'estasi temporale della reminiscenza come l'esperienza originaria del tempo del racconto, della scrittura, esprimibile dallo scrittore solo attraverso uno spossessamento della propria realtà di soggetto, m una proiezione e immersione nello spazio dell'opera stessa dove, «sebbene dica 'io', non è più il Proust reale né il Proust scrittore a poter parlare, ma la loro metamorfosi in quell'ombra che è il narratore divenuto 'personaggio' del libro» (Blanchot). E forse allora, seguendo questa suggestione blanchottiana, potremmo ipotizzare, in una confusione voluta tra esperienza vissuta ed esperienza immaginaria, che quell'immagine del doppio avvicinandosi alla quale, nell'opera, il protagonista ne esperisce la dibrare, pur essendo nuovo, noto e familiare», Recherche), temporalità altra («E forse il sogno mi aveva affascinato anche per la sua formidabile gara col Tempo», ibidem), lontananza da noi stessi, fuori del tempo e delle sue misure («... non avendo nemmeno quel compagno in cui sogliamo scorgerci, noi stessi ... », ibidem), il rngno indica, in modo fulminante ed esemplare, il paradigma della scrittura di questa immagine. Non si tratta, qui, di tradurre il sogno o di interpretarlo, che importanza ha parlare del sogno se possiamo farlo solo da svegli? se «il verbo sognare non ha presente» (Valéry)? L'insegnamento del sogno si riallaccia se mai al suo esserci, senza essere reale, alla capacità di sconfiggere l'ambiguità connessa alla paura che nasce dal pensiero che se il sogno ha «la nitidezza della conoscenza», viceversa la conoscenza «avrebbe a sua volta l'irrealtà del sogno» (ibidem), al rapporto che illumina l'io sognato e l'io sognante (i cui labirinti persiani sono stati ricordati da Caillois, come care furono a Proust le Mille e una notte), alla sua ebbra simultaneità (il tempo intrecciato con lo spazio). Realtà, io, tempo vengono messi in gioco dal sogno, in una sola immagine alla cui ricerca va la scrittura; nel futuro intemporale (di un io sempre presente perché sempre assente, fanciullo che si diverte al gioco mortale della ricerca di un piacere, la scoperta di un'idea, analogica, da lui creata ma unica anche in grado di crearlo) che solo ha il potere di congiungere così ·estaticamente quel passato stanza (la prossimità a venire), sia già, prima del libro e nel mentre della scrittura, l'esperienza incessante del «Proust reale», che nel flusso di queHe parole che avrebbero dovuto donargli la propria presenza a sé può scorgere soltanto il riflesso sfuocato di una impossibile identità. Tutto, nel passaggio dai brouillons al testo (mai) definitivo - passaggio interminabile, dunque - da definito e trasparente si fa sfumato, alluso e inafferrabile. Il romanzo si compie allora come dispersione del reale, sua disgregazione e disseminazione. L'opera di finzione si allontana dalla propria referenza, e la Recherche sembra consistere proprio in questo movimento di progressivo celamento della propria traccia. Ritrovare il tempo perduto: nel libro sembra essere questa la condizione principale per un recupero dei molteplici io che si sono alternati lungo l'intreccio romanzesco. Ma forse, ciò che in realtà l'esperienza del ricordo dice è che il suo contenuto non può confondersi con un attimo del passato. O meglio, che l'ignoto di quel passato non è altro che la sua essenza metaforica a cui l'opera non potrà mai imprimere un carattere di proprietà. Iniziando a scrivere, Proust infatti comincia a dire «io» nella scrittura, trasponendosi così in una figura di finzione, nascita di quella che, in una bellissima immagine, Gérard Genette, al convegno di Parma, ha chiamato una «autobiografia sognata». Federica Sossi e quel presente che in sé sono insignificanti. Immagine intermittente, come quel solo io che dovrebbe scrivere i suoi libri perché, così come se l'immagine di sogno fosse continua non riusciremmo a distinguere il sonno dalla veglia (mentre, dice Proust, è proprio «il sogno ... uno dei fatti della mia vita ... che maggiormente avevano contribuito a convincermi del carattere puramente mentale della realtà», ibidem), l'immagine costruita dalla scrittura non deve assomigliare alla memoria dei sogni, ma radicarsi nell'oblio che è fonte originaria di ogni memoria, sua forma vitale d'intermittenza. E si costruisce ne! punto di irruzione del risveglio nella pienezza - anche se procede torbida, lenta, a tastoni, anche se è casuale - del recupero di sé e non nell'abbandono e nella perdita dell'abbandonamento al sonno. Quel punto di irruzione, esso stesso intermittente, è importante perché l'immagine diventi conoscenza, per un sapere che sciolga l'ambiguità lasciata dalla pura traccia, decifrandola, smascherandola, senza più subirne l'incantesimo pietrificante. La straordinaria felicità dell'estasi metacronica è il segreto che, afferrato una sola volta, illumina per sempre il libro futuro, metafora del desiderio irrealizzabile del sogno, oramai già realizzato nell'opera che ha restituito all'io vacillante la sua vocazione di Scrittore. Liliana Rampello

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==