Prove d'artista Aldo Gargani La strega di Oxford [Alfabeta 72] A Oxford lui e lei avevano trascorso il loro primo anno di matrimonio circa vent'anni prima, mentre lui studiava in un college dell'Università, il Queen's College nella Hight Street. Avevano abitato in una casetta di mattoni a due piani, al limite di un bosco. Glielo aveva affittato una signora anziana, scarna, dall'aria severa, Christine Morrison, insegnante in un collegio per ragazze, che aveva vissuto sempre sola. Ad indicarglielo era stata la sorella, Rachel, sorridente, gentile, un po' grassa, sempre con l'affanno per via dell'asma, che abitava in una strada vicina. Ci erano tornati più di vent'anni dopo, lei e lui, quasi all'improvviso, in una domenica estiva azzurra e tersa. La città, deserta, si presentava intatta, stranamente preservata come se fosse presente solo per far ricordare di sé e del suo passato diffuso nel vento tra gli alberi lungo le strade, gettato nell'ombra umida degli angoli dei giardini. Avevano indugiato per attendere il momento giusto, e poiché sospettavano che una delle due sorelle fosse morta nel frattempo, presumibilmente la più anziana, Christine, si erano avviati a casa dell'altra, al n. 1 di Farndon Road. Dopo, soltanto dopo, sarebbero andati in Norham Road, dove avevano abitato. Ci erano andati vent'anni prima, e allora dalla strada avevano visto il volto di Christine dietro una finestra in alto della casa, e lei aveva pensato che fosse, sì aveva pensato che fosse una strega. E alla fine avevano deciso di non andarci, e l'imbarazzo di doverglielo dire era stato superato perché al telefono Rachel aveva serenamente risposto che lei e sua sorella «non desideravano altro che loro fossero felici». Ma poi, invece, avevano deciso di prenderlo l'appartamento in Norham Road, l'upper flat, con Christine al piano di sotto. Non ci stava quasi mai perché passava l'intera giornata al collegio e tornava sempre con il buio. Quando era arrivata la primavera, avevano avuto un bambino e da allora, se arrivavano conoscenti, Christine li invitava, come ad una cerimonia, a vedere «the little prince», come lei IO chiamava. Lei e lui avevano vissuto un anno in quella casa, ci avevano vissuto timidamente, quasi spauriti nell'alone di un simbolo solenne che Christine ogni giorno che Dio mandava sulla terra impersonificava e praticava, senza farlo riconoscere ma incutendone su di loro tutta la soggezione. Quel potere di soggezione che si esercitava del resto anche fuori, nel/' Università, nei clubs, nelle case private, nei parties, perfino nei ristoranti e che stringeva loro il cuore e che faceva sentire i loro pensieri colpevoli quando erano loro due soli, per la semplice ragione che erano rimasti soli, in una strada, davanti a un libro in una biblioteca, nelle notti che in quella città cominciano così presto, prima che in qualsiasi altra. Adesso avevano preso la strada per andare dall'altra, da Rachel, quella che aveva rinunciato ad essere simbolica. Il primo passo, intanto, verso la via più facile, il resto lo si • sarebbe visto dopo. Avevano suonato il campanello quasi senza crederci, e poi si erano messi ad aspettare senza convinzione. Ma dopo alcuni istanti la porta si era aperta: sull'uscio era apparsa colei che non si aspettavano. Christine stava sulla soglia, incerta e preoccupata. «Non ci riconosce» avevano pensato tutti e due. Ma poi lei aveva detto: «Oh Giorgio, Paola dear!». Da uno screzio della sua voce era poi disceso un mormorio dolente: «Rachel diedi Just a few months ago!». Lei e lui si erano fermati lì, davanti alla porta scura semichiusa, in mezzo a quel verde che era tutto ciò che rimaneva in quel momento di Rachel. Eta accaduto giusto pochi mesi prima, come se il caso dopo tanti anni li avesse aspettati per il momento della conclusione. Dunque erano arrivati a quello che il verde dei giardini altrui, del cielo sopra le case altrui e infine i marciapiedi delle case altrui avevano disposto che fosse il momento giusto. Lei, Christine, stava sulla soglia, vecchia, scarna, vigorosa; ma si vedeva che la svolta allafine si era prodotta anche in lei. Disse che non poteva vederli subito perché c'era dentro in casa un parente venuto da fuori per sistemare le cose di Rachel; le ultime cose rimaste in sospeso. « Verso le quattro; tornate per favore, Paola e Giorgio, alle quattro e così prenderemo il tè insieme». Lei e lui andarono nel parco vicino ad aspettare che si facesse l'ora, passando davanti ali'altra casa; al secondo piano ancora quella finestra dietro la quale l'avevano vista apparire la prima volta. «Sembra una strega» aveva detto lei vent'anni prima. Nel parco si sdraiarono sotto grandi alberi, guardando a filo d'erba le persone che passavano, le carrozzelle dei bambini. Erano davanti a quella combinazione di fattori in cui non c'è più ciò che è passato, ma nemmeno il domani, e la vita è soltanto un durare. Verso le quattro ritornarono nella casa che era stata di Rachel; Christine, questa volta pronta a riceverli, li fece entrare. Parte delle stanze erano oramai vuote, altre in un grande disordine. Rachel, aveva raccontato Christine, era uscita una mattina ai primi di gennaio e dopo pochi passi si era accasciata al suolo; morta quasi subito. Negli ultimi anni era rimasta anche lei sola, e il medico aveva detto alla sorella che Rachel poteva morire in qualsiasi momento. Ad un certo punto Christine aveva alzato lo sguardo su di loro, come per fare la domanda rimasta a lungo sospesa: «Was she a lovable woman, wasn't she?», e poi si erano trovati tutti e tre abbracciati; certo, era stata amabile, la più amabile delle donne. Non c'era zucchero in quella casa, non c'erano nemmeno biscotti, ma Christine preparò egualmente il tè. Era capitata lì quel giorno per via di quel parente venuto appositamente da fuori. Del resto la casa sarebbe stata ceduta di lì a poco all'Università di Oxford. Andarono a dare un'occhiata sul giardino; la luce ormai declinava e nella frescura serale sprigionata dalle piante era rimasta rappresa la scomparsa di Rachel. Rientrati dentro, c'era stato dell'altro tè, e domande sul lavoro di lui, di lei, sui figli. Poi Christine aveva mostrato un disegno che raffigurava la cattedrale di Durham. Vi si riconosceva la medesima solitudine. In basso, in un riquadro a sinistra c'era l'abbozzo di un restauro disegnato da un architetto, un lontano parente anche lui. Ora stava lì, sotto i loro occhi, come se la cattedrale di Durham fosse servita ad un atto mancato. Christine sembrava che volesse dargli una quantità di cose e di cianfrusaglie. Quindi rivolgendosi a lui, aveva cominciato a proporgli dei giuochetti, trappole di quesiti logici; era sempre stato il suo passatempo preferito. «Bene Giorgio, come risolveresti questo problema: se la terrafosse piatta e il sole fosse immobile nel cielo, come si farebbe a distinguere la destra dalla sinistra?» Lui aveva cominciato a dire che bisognerebbe forse trovare un altro sistema di riferimento, ma lei non sembrava persuasa e lo aveva invitato a ripensarci ancora sopra. Poi si era alzata per ritornare con una riproduzione di Oxford che aveva fissato alla bene e meglio su un pezzo di cartone perché non si deformasse durante il viaggio di ritorno in Italia. Sembrava che volesse prendere congedo da ogni cosa. Infine, tutti e tre avevano avvertito che quel momento in cui bisognava separarsi era venuto. Ma quando erano già in piedi, vicini all'uscita, Christine cominciò a raccontare che aveva fatto la conoscenza di un cardinale nel corso di un ricevimento all'aperto, in una villa, che avevano avuto una lunga conversazione e che qualcuno li aveva fotografati mentre discorrevano. E a quel punto lei era andata a scartabellare in un mucchio di carte in disordine e ne aveva tirato fuori una fotografia a colori che ritraeva lei e il cardinale in piedi l'una di fronte ali'altro sullo sfondo di un bosco. Con molto interesse chiese loro se non notavano qualcosa di strano nella fotografia. Non c'era nulla appàrentemente di strano, almeno a prima vista. Ma poi guardando più attentamente si accorsero che nella foto sembrava che al cardinale mancasse un braccio. Christine parv~ allora molto soddisfatta della conferma di questa loro petcezione. E a questo punto cominciò a raccontare una breve storia: « Una sera, in, una foresta fitta e buia, un uomo incontrò una vecchia donna e, quando si accorse che si trattava di una strega, la allontanò da sé, minacciandola e gridandole: 'Via di qui, brutta strega!'. La strega, prima di ritrarsi, gli rispose: 'Sei ingiusto a trattarmi male, perché anch'io ho un cuore, sono vecchia e non ho neppure una casa. Ma tu, tu sarai punito per la tua cattiveria'. E infatti, subito dopo, l'uomo si ritrovò con un braccio amputato». Christine, sulla porta che dava sul giardino oramai affondato nel crepuscolo, guardava lei e lui, come se tutta l'agonia della sua mente fosse salita per una volta fino al suo sguardo. Lei e lui dissero che la storia era interessante, e Christine ripeté che sì, che era davvero una storia interessante; ma era soprattutto soddisfatta che loro ne avessero afferrato l'importanza. Ora li guardava seriamente, in modo inquisitivo, come se fosse appena di ritorno velata dalla rugiada di quella notte nel bosco con l'uomo e la strega. Non fu certamente altro che per un precipitoso nonsenso che lei chiese a Christine se poteva tenere quella fotografia, e mentre lui stava per interromperla, Christine li rassicurò dolcemente: «Ma certo che dovete tenerla!», come se fosse quella l'unica domanda che si era aspettata fin dall'inizio della storia. E soltanto dopo che quella domanda fu fatta lei smise di cercare altre cianfrusaglie da portar via. «Now then, my dear, you understand me, I do hope so... I must go, I have to close up the house». Lui e lei l'abbracciarono, mormorando frasi che non si capivano e che non stavano da nessuna parte. E ancora fimi pochi passi nel sentiero del giardino, questa volta lui si voltò verso Christine e credette di doverle dire: «Abbiate cura di voi». Ma lei questa volta non aveva risposto nulla, con lo sguardo fermo, come se avesse rinchiuso nuovamente tutto dentro di sé; come se ormai soltanto la potenza del Caso la potesse ancora sfiorare. Dalla sua casa ci si immetteva nella lunga Woodstock Road, che porta fino al grande largo di St. Giles, tra immensi platani e le guglie dei colleges. Lì, si sedettero su una panchina che fiancheggiava il marciapiede, prima di avviarsi lungo la Queen's Street verso la stazione ferroviaria. Lui le indicò a sinistra la casa dove John Locke era stato a lungo ospite di due dame; quando Locke doveva lasciare Oxford per qualche periodo, pare che esse dicessero con rimpianto: «Ah, Mister Locke!». Un passante, un uomo infagottato con un mucchio di giornali sotto il braccio, si fermò e chiese loro: «Scusate, ma vi ho sentito parlare e mi è sembrato che voi siate spagnoli». «No, non siamo spagnoli». «Francesi? Siete francesi allora?». «No, non siamo francesi». «Sprechen Sie deutsch?». «Non siamo tedeschi». Insoddisfatto e spazientito lui disse: «Ma avrete pure una lingua!». Lui e lei non gli diedero risposta ma semplicemente cominciarono a fissarlo perché smettesse. E lui alla fine si allontanò. Folate di rondini venivano giù a precipizio di tanto in tanto dal cielo di St. Giles verso quella terra che era diventata marrone. Dalla porta del basso edificio della «Association for the Christian Monitor» era uscito un vecchio, con la toga nera e i capelli bianchi lucenti; si era fermato tra un gruppo di persone che si erano radunate lì davanti, e da lì in mezzo si era cominciata a sentire una serie di «Good-bye», «See you soon», «See you later», «It was awfully nice to meet you!», «Bye... ». «Se ci muoviamo adesso» disse lui rivolto a lei «facciamo a tempo a prendere il treno delle 7.10 per Paddington». Testo letto dall'autore 1'8 novembre 1984 durante l'incontro a Palermo sul tema «Il senso della letteratura».
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