Alfabeta - anno VII - n. 71 - aprile 1985

Alain Robbe-Grillet Le miroir qui revient Paris, Les Editions de Minuit, 1985 pp. 231, ff 65 Q ualche anno fa un editore propose a Alain Robbe-Grillet di stendere un volumetto autobiografico per la serie degli scrittori visti «par euxmemes». In altri tempi, l'autore della Jalousie avrebbe rifiutato con sdegno l'invito a cimentarsi in un genere in cui si compendia tutto ciò che le sue pretese teorie sembravano aver respinto e condannato, e cioè la presenza di un «io interiore», nonché la possibilità di «parlare di», di svolgere una funzione rappresentativa. Ma l'invito giungeva a uno scrittore giunto ormai alla sua· piena maturità, propenso quindi a civettare con la propria immagine, e inoltre impegnato da tempo in un giro del mondo nelle vesti di conferenziere, il che lo portava a contatto diretto col pubblico, e dunque a un bagno forzato di umanità. Inoltre, come lo stesso RobbeGrillet nota con ironia, non siamo forse in un'epoca di obbligati «ritorni a»? E dunque, quale modo migliore per aderire al riflusso di quello che consiste nel rivisitare l'interiorità e il genere autobiografico? Eppure, malgrado queste ragioni d'attuazione, non dovette essergli facile andare avanti in una simile impresa, tanto è vero che la lasciò nel cassetto per qualche anno, -riprendendola solo di recente e dandole la luce alle soglie del 1985 (A. Robbe-Grmet, Le miroir qui revient, Les Editions de Minuit). Siamo dunque al colpo di scena, alla sconfessione di un passato di rigore esemplare, di una costruzione dottrinaria alimentata di rifiuti e di condanne? No di certo, in fondo è come se Robbe-Grillet mirasse a delle verifiche ulteriori, ma passando per un giro più largo di mediazioni, e certamente dimostrandosi più disponibile, più souple, spiazzando, se non la propria immagine, almeno quella di maniera, a senso unico, che taluni interpreti gli avevano cucito addos- . so. ' anto per cominciare, c'è un'infedeltà di fondo, a una pretesa professione di oggettivismo, che risulta autorizzata dal filosofo numero uno solitamente associato all'impresa robbe-grilletiana, Edmund Husserl con la sua fenomenologia: un vincolo che anche in quest'occasione lo scrittore francese conferma. Husserl infatti giocava continuamente sui due piani, quello degli oggetti che si pongono, lucidi e netti, davanti alla coscienza, ma anche quello della Lebenswelt, dell'informe, vischioso, magmatico «mondo della vita» che sta dall'altra parte, e che minaccia senza tregua di inghiottire ogni formazione oggettiva. Come dire che c'è sempre un «vissuto» personale con cui si devono fare i conti, anzi, all'inizio non c'è che questo, ovvero anche Robbe-Grillet può concludere: «je n'ai jamais parlé d'autre chose que de moi». Eccolo allora intento a reperire e adunare i vari frammenti del suo «vissuto»: l'infanzia in Bretagna, o nel Giura, l'adolescenza a Parigi, e poi in un campo di lavoro nella Germania nazista; e una famiglia piccolo-borghese, composta da padre, madre, una sorella, qualche parente più lontano, più aleatorio, ritornante a intermittenze. E inoltre uno sberleffo continuo a tutti i «valori ricevuti» che dovrebbero entrare in un'educazione di sinistra: il padre e la madre, infatti, avevano il cuore a destra, e così pure il giovane Alain, tanto da ammirare l'ordine e l'efficienza della macchina bellica tedesca, e da mantenere invece una sdegnosa ostilità nei confronti dell'Inghilterra. Ma mentre aduna questi cocci e frammenti, e ne verifica l'indubbio spessore e sapore, il narratore in prima persona ne constata anche la irrimediabile casualità: perché quelli e non altri, tra i mille che si potrebbero collezionare? In fondo, egli si limita ad accedere a quello che con espressione felice chiama un pointillisme du pur hasard. L'autobiografia, dunque, costituisce una prova e contrario: non esiste la verità, la rappresentazione fedele; è pur necessario scegliere un ordine, effettuare una selezione, un montaggio ragionevole. E allora, non si tratta di decidere tra il disordine e l'ordine, visto che il «partito preso» a favore del primo è improponibile, ma di adottare un ordine relativamente «aperto» e poroso, che riesca a simulare il più possibile il disordine del vissuto, recuperandone i frammenti in più vasta quantità. A questo proposito, Robbe-Grillet non dimentica certo gli antichi odi, e riconferma così il rifiuto della soluzione «alla Balzac», proprio perché il realismo-naturalismo imponeva una selezione troppo di maniera, un ordine chiuso, e perfino menzognero, nonostante la sua ostentata prossimità ai singoli oggetti, rappresentati nella loro apparente naturalezza, così come l'ordine generale in cui venivano incastonati dimostrava di possedere una sua medietà, tra i colpi di scena del caso e lo scorrimento verosimile e prevedibile. Quanto a lui, al nostro narrato-, re in vena di confessione, egli ci fa notare come, per allontanarsi da quel falso equilibrio, abbia dovuto forzare ai due estremi, e apparire quindi, volta a volta, un costruttore di macchine fin troppo oliate e perfette (il versante «alla Roussel»), o invece l'amante del disordine allo stato puro, vale a dire di un gusto per materiali sparsi, cose insignificanti, dettagli marginali, per tutto ciò che Joyce avrebbe fatto corrispondere ai momenti di epifania, e attorno a cui Proust avrebbe operato il miracolo del ritrovamento del tempo perduto. L a formula autobiografica, ovviamente, è favorevole a questo secondo Robbe-Grillet, cioè al bricoleur incessante, al collezionista di piccoli sprazzi di vita e di ricordo, che poi ritornano collocati nella perfezione delle «macchine» narrative ben note al pubblico e ai critici: quelle stesse macchine in cui si pretendeva di scorgere il trionfo dell'oggetto sterilizzato, asettico, posto quasi sotto vetro. Era questa la tesi interpretativa aperta dalle note letture di Roland Barthes, con cui il nostro autore polemizza, ma con grande amore e rispetto, mentre frecciate sarcastiche vengono indirizzate alla volta del Figlio degenere, Jean Ricardou, inoltratosi nella bramosia delle teorizzazioni perfette, con la pretesa di prescindere completamente dal «vissuto». Quanto a Barthes, nel suo caso il Nostro ipotizza l'intervento di una rimozione gigantesca: forse anche l'autore-principe del:a semiologia francese era hanté da una folla di ricordi emergenti dal profondo ... Sempre su questa medesima linea Robbe-Grillet fa i conti col duo di narratori-saggisti che hanno condizionato la sua giovinezza, assieme a quella di ogni altro, in Francia e altrove, Sartre e Camus. Col primo, il rapporto di ostilità e di avversione non si placa, anche se l'autore delle Gommes deve riconoscere i debiti contratti con colui che ha importato il pensiero fenomenologico di Husserl, e in particolare il concetto di intenzionalità, cioè della coscienza che si rovescia sugli oggetti (aprendo così una trappola ai commentatori distratti o superficiali, inducendoli a credere che non ci fosse più coscienza del tutto, che questa sparisse a vantaggio delle cose). Del resto, Sartre aveva pure tentato meritoriamente di applicare quel suo concetto, nel corso della Nausée; ma poi era venuta la svolta umanista-marxista-impegnata, cioè discorsiva, compiaciuta, esibizionista, che è quanto Robbe-Grillet non perdona, con la sua testardaggine e mutaggine bretone, abituata a un uso parco delle parole. Da questo esame di coscienza esce invece interamente riabilitato il Camus de L'étranger, che anzi il Nostro riconosce come il termine più vicino al proprio punto di partenza, costituito da Un régicide, il primo romanzo da lui steso alle soglie degli anni Cinquanta, marimasto nel cassetto per un ventennio abbondante, e tuttora non abbastanza indagato, mentre al contrario esso emerge di continuo nelle indagini svolte in queste pagine. Pagine che dunque costituiscono un affascinante diario di lavoro, una satura mista di riflessioni, note critiche, brani di vissuto, in cui la macchina del racconto di tanto in tanto si mette in moto e ci dà deliziose sequenze narrative (come il mito bretone, fantastico pur nella lucidità dei dettagli, da cui viene il titolo al volume: quello specchio galleggiante in mare, recuperato a prezzo di strenue fatiche da un personaggio anch'esso mitico, per l'infanzia dello scrittore, tale Henri de Corinthe, che vi sorprende il volto della fidanzata annegata in altri tempi e altri mari). Siamo insomma introdotti quasi nel luogo dove si generano le cellule dei romanzi robbe-grilletiani, dove possiamo anche assistere al loro alimentarsi, al loro ricambio organico con !'«altro», il vissuto, l'esistente, il casuale. Come inciderà, questa lunga meditazione, sulle prossime prove del narratore? C'è da scommettere che queste gli usciranno più «disordinate», più pronte a concedere allo hasard, al «privato», oppure alle mitologie e ossessioni personali. Forse Robbe-Grillet ripartirà da dove ha preso le mosse, da Un régicide, il suo passato e il suo futuro. Sciascieail suod· ubbio e on l'approssimarsi della fine, questo ventesimo secolo, terribile e rumoroso, sembra costretto a fare i conti con gli aspetti più nascosti della sua filosofia progressiva. Scrivere, cioè tradurre in scrittura la realtà degli ultimi decenni, vuol dire portare alla luce i segni di quei conflitti, di cui questa filosofia segretamente si nutre. .s Nessuna testimonianza artistica ~ sfugge a una condizione-·di perCl.. plessità, consapevole o mistificata. ~ °' Lo scrittore tutto consenziente è ..... ~ .... §- di fatto un'astrazione, così come quello totalmente di opposizione. Dall'Ottocento a oggi il canone visivo e narrativo della «descrizione ~ del reale», tanto pericoloso al suo ~ sorgere, si è tramutato nell'arte l della registrazione, di democratica ~ falsità, di ostentata pienezza comunicativa, al di sopra di ogni conflitto. I mass-media narrano nei tempi fiacchi del dopo-storia, nel paradossale trionfo della pace e della libertà con la sua finta inconsapevolezza della minaccia incombente. Tutto è reso visibile perché niente sia visto. Il dubbio La storia artistica di Sciascia è nella fed~l.tà ai canoni di un'arte che rifiuta di non vedere per raccontare; egli indaga i processi del reale e ama disoccultare i «trucchi» filosofici che ne oscurano la vista. È l'arte del saggio bizzarro, che dice quanto gli altri tacciono. Di fronte alla storia assume un tono d'incredulità, anzi di diffidenza, nel sospetto che le cose non stiano come si crede (o si fa credere). Bisogna «vedere» per andare al di là degli Carlo Madrignani _aspettivisibili. Tutti i linguaggi sono cifrati; decriptarli è una necessità elementare per chi voglia far uso della ragione per finalità investigative non pregiudicate. Sciascia, appassionato cultore della scienza dei sintomi, rifiuta, e anzi combatte, ogni forma di razionalizzazione, ogni filosofia delle recondite armonie. Da ciò la necessità, sempre più impellente, di narrare in forma investigativa, secondo procedimenti che seducono come un romanzo poliziesco, pur provenendo da una diversa tradizione, quella del conte philosophique, per cui il racconto investigativo è inteso come un'avventura della mente, un itinerario sul cammino della conoscenza. All'opposto di ogni ideale contemplativo, la via del conoscere non è un'ascesa, ma un tracciato reso sempre più insicuro dai se- $nali ingannevoli che lo indicano. E difficile muoversi nella direzione giusta; spesso lo sguardo è frastornato da informazioni che portano verso mete sbagliate. Chi vuol narrare il difficile tragitto del disyelamento deve sfuggire ai richiami del dépistage, procedere fuori dalle vie ufficiali. Sciascia, per parte sua, è narratore di tragitti oscuri e inconsÙeti; diffida delle strade facili, dei percorsi garantiti, rettilinei. Narrare significa addentrarsi in zone ardue; i punti di orientamento, se lo scrittore non riesce a trovarli in natura, deve sapere inventarseli. Questa arte della navigazione e della investigazione nasce da un'incredulità accentuata e irriducibile. «Non credere» è il primo punto del suo decalogo estetico e gnoseologico, e richiama all'obbligo di non fidarsi delle apparenze e, tanto meno, delle indicazioni ufficiali. Le strade non conducono dove dicono. Quando si trova segnalato un tragitto, allora è necessario scoprire altre piste o forse «inventarle». E tuttavia le inchieste di Sciascia non perseguono di proposito l'effetto della sorpresa. Sono avventure intellettuali il cui sbocco non consiste nel raggiungere una verità ultima o definitiva, e così appagare lo stato d'attesa del lettore. Non si tratta di romanzi gialli secondo la consecutio causa-effetto della loro retorica narrativa. Non l'appagamento finale ma la ricerca del percorso è di per sé l'avventura mentale e artistica di cui si sostanzia il «romanzo» dell'ultimo Sciascia.

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