Alfabeta - anno VII - n. 71 - aprile 1985

Carteggio Ungar i~R~Robertis Giuseppe Ungaretti, Giuseppe De Robertis Carteggio 1931-1962 Introduzione, testi e note a cura di Domenico De Robertis Milano, Il Saggiatore, 1984 pp. 205, lire 20.000 Giuseppe Ungaretti Vita d'un uomo a cura di Leone Piccioni Milano, Mondadori, 1979 pp. CI-906, lire 38.000 S e la critica letteraria sulla stampa svolgesse il suo compito un po' al di là dell'informazione sui libri entrati nel prevalente circuito propagandistico dei mass media, l'uscita di questo Carteggio 1931-1962 fra Giuseppe Ungaretti e Giuseppe De Robertis avrebbe potuto costituire se non un avvenimento, almeno l'occasione per ripensare attivamente all'opéra di due fra i maggiori protagonisti nel nostro Novecento. Un poeta come Ungaretti che, comunque lo si voglia vedere, è stato per riconoscimento comune la punta di diamante nella fondazione della nostra moderna lirica e, nella sua lunga parabola, uno dei due o tre ·massimi nostri poeti in questo secolo; e un critico come De Robertis che, oltre a essere stato uno dei maggiori del suo tempo, è stato un lettore magistrale della poesia italiana non del solo Novecento, ma in particolare proprio di Ungaretti a cui è stato legato criticamente con fedeltà e acutezza spesso insuperate per quasi cinquant'anni. Come ha messo bene in luce nella sua Introduzione Domenico De Robertis, che ha curato inappuntabilmente il libro non solo per affetto filiale, se l'amicizia fra Ungaretti e il suo maggior critico è durata dal 1916 al 1963 (anno della morte di De Robertis), le lettere qui pubblicate coprono solo gli anni 1931-1962, e quindi poco più di un trentennio di una ben più lunga e reciproca fedeltà letteraria. Le lettere precedenti fra i due, se ci sono state, vanno dunque considerate perdute; anche se, della reciproca amicizia degli anni vociani e di quelli immediatamente successivi, garantiscono oggi altri carteggi di scrittori amici di quegli anni come Papini o Prezzo lini, o Soffici, m cui compaiono rispettivamente, messaggi e saluti per l'uno e per l'altro fra i nostri due interlocutori. Anche così, il Carteggio rimane ben più che un primario documento di storia letteraria novecentesca, e bensì come una testimonianza indispensabile sul modo di operare e di interagire di due figure primarie della nostra letteratura: un poeta e un critico, operanti ''ì secondo quel metodo di «collabo- .s razione alla poesia» che De Ro- ~ bertis aveva proprio allora inaugu1:::1.. rato. Negli anni esso avrebbe su- ~ scitato oltre a questo fittissimo e -. ~ per più lati indispensabile scambio ·;;:: di lettere, la nascita, almeno da §-- noi, di una funzionale critica delle C:::: varianti, vale a dire di una vera e i;:: propria stilistica attiva, in base a ~ cui la creatività del poeta si sareb- l be via via incontrata e specchiata ~ nella ricettività del critico, che aveva instaurato un metodo di continua e tenace adesione al testo poetico che si veniva facendo, fino a ottenere una progressiva e sempre più aderente rete di approssimazione all'assoluto della sua invariante. Non è difficile intuire come, dal punto di vista della metodologia letteraria, ci si trovi a un crocevia davvero importante, sicuramente innovatore nei confronti dello storicismo crociano troppo esclusivamente legato al finito dell'opera, e in un'area di critica che usufruendo per prima, da noi, dei cosiddetti «scartafacci» e quindi delle varianti d'autore, si poneva in condizione di seguire ben più capillarmente il percorso interno dell'opera stessa. Metodo instaurato proficuamente da De Robertis nei confronti di un grande innovatore poetico come Ungaretti, e che, legandosi alla riscoperta della pura testualità nei francesi del Simbolismo e nei nostri stessi classici, e con altri innesti filologici e formalistici, sarebbe stato del pari all'origine di una magistrale filologia attiva e di una pari variantistica che, più oltre, nel lavoro di un critico come Gianfranco Contini, (Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi 1938-1968, Torino, Einaudi, 1970), avrebbe ottenuto esiti di livello assolutamente europeo. Ma per rimanere al nostro oggetto, e dopo averne chiarito l'ambito cronologico e metodologico, e avere ancora aggiunto col curatore di questo libro, che esso include ben 139 lettere di Ungaretti e solo 74 di De Robertis (quest'ultimo essendo stato, evidentemente, meno attivo corrispondente, ma più ordinato conservatore delle lettere ricevute); e dopo avere appena accennato al fatto che a una lettura diversa da quella che ora ne faremo, questo Carteggio sarebbe in grado di offrire, comunque, uno spaccato non comune di vita letteraria italiana, in anni cruciali e di straordinaria trasformazione politico-sociale del nostro paese, fra la dittatura fascista e la democrazia antifascista, fra anteguerra, guerra e dopoguerra, sarà ancora da aggiungere per una sua compiuta connotazione, che il libro reca un'Appendice con tutti i testi poetici via via inviati da Ungaretti a De Robertis, qui presentati ad accrescerne senza dubbio il valore strumentale e il pregio. Solo in parte già noti, o accolti nel complessivo Apparato critico delle varianti dei Meridiani di Tutte le poesie di Ungaretti, questi testi possono peraltro risultare preziosi alla preparazione di singole edizioni critiche ungarettiane, come ad esempio l'edizione de La terra promessa, non a caso da tempo in preparazione proprio sotto· ia guida dello stesso Domenico De Robertis, che ha curato questo Carteggio. Superatane dunque la possibile lettura come documento letterario e come testimonianza di un'amicizia esemplare e disinteressata, che pure c'è stata; o come prova tangibile di una fiducia intellettuale totale e profonda fra i due interlocutori, che ugualmente c'è stata (ma non dimenticando mai la cordialità anche familiare che attraversa l'intero Carteggio, non a caso inizatosi per De Robertis con la bellissima lettera del 15 gennaio 1940 a Ungaretti, che in Brasile aveva appena perduto il figlio Antonietta, e pressoché concluso dallo stesso De Robertis, che scrive a Ungaretti per la morte della moglie Jeanne), è al suo vero, continuo e inesauribile oggetto che il libro si affiderà soprattutto: al formarsi e maturarsi della lirica di Ungaretti, e alla collaborazione critica in ogni senso e modo di De Robertis, nel favorirne la pubblicazione ottimale. Massima occasione di tutto questo e con tutta particolare consistenza quantitativa e q4alitativa di lettere negli anni Quaranta, sarà la pubblicazione definitiva dell'opera di Ungaretti nello Specchio di Mondadori, con la relativa preparazione e gestazione proprio a cavallo della guerIn particolare da questo Carteggio risulterà evidente come l'impostazione e la realizzazione di quest'opera, promossa evidentemente da Ungaretti, abbia tuttavia avuto in De Robertis un suggeritore tenace e non tanto sotterraneo che, di lettera in lettera, negli anni durissimi per ragioni belliche del 1942 e '43, ma tanto fruttuosi per la comune collaborazione, avrebbe a poco a poco condotto l'opera ungarettiana alla forma oggi universalmente nota di Vita d'un uomo, con la pubblicazione ravvicinata nel 1942 e '43 dell'edizione definitiva dell'Allegria e di Sentimento del tempo, e con la preparazione del prezioso volume delle Poesie disperse recante anche l'apparato derobertisiano delle varianti dei primi due libri, e delle stesse «disperse», oltre a un famoso saggio introduttivo di De Robertis («Sulla formazione della poesia di Ungaretti» in Altro Novecento, Firenze, Le Monnier, 1962), che avrebbe fatto epoca in ogni senso nella critica ungarettiana. Questo libro, per ragioni belliche e per la divisione dell'Italia in due nel 1943 e '44, avrebbe visto la luce solo a Liberazione avvenuta, nel 1945. Intanto la corrispondenza fra i due interlocutori sarebbe stata fittissima e decisiva a chiarire in ogni senso il valore e il fine della poesia ungarettiana. Con Ungaretti che avrebbe scritto lettere forse insuperate di autocommento sull'opera propria: come quella del 25 luglio 1942 sull'influenza della sua poesia su quella dei maggiori contemporanei; o quella del 23 agosto 1942 in cui avrebbe utilmente chiarito persino le camponenti di povertà e di emigrazione che erano all'origine del suo nazionalismo e fin del suo fascismo in quegli anni; o quella davvero decisiva ed estesissima del 4 settembre 1942, in cui discutendo un saggio di Adriano Seroni sulla sua poesia, Ungaretti parla di sé in rapporto a Mallarmé e a Apollinaire, a Valéry, ai Futuristi e a tanto altro, con discernimento davvero magistrale sia per sé che per gli altri. V i fa in ogni senso il punto sulla propria opera, su quello che essa ha avuto (ed ha, in questo senso fino a oggi) di più personale e innovatore, nell'ambito della poesia italiana del secolo; «... Separare la parola da tutto ciò ch'era decorativo, retorico, manierato, farla aderire in modo spontaneo alla realtà, renderla così 'primitiva' o 'innocente' com'io dico (come quella d'un bimbo che impara a parlare, come quella d'un selvaggio). Le circostanze vi contribuivano: era parola che 'scoprivo' in me, in trincea. Ridata ad essa la propria antichità espressiva, colmare questa parola di 'cultura', o come dico io di 'memoria', scegliere, cioè, e fissare ciò che nel suò senso e nel suo suono, entro i limiti della poesia di cui faceva parte, vi potesse essere d'essenziale sia rispetto a una purezza derivata dalle leggi liriche d'una tradizione nazionale e, in assoluto, dalle leggi liriche d'ogni tempo e paese ... ». E ripeterà il concetto in altri termini il 19 settembre 1942: «... s'io dico casa, la parola casa non è una casa, ma, in primo luogo, un gruppo sonoro con un accento, e ho quindi da considerare: a) una qualità sillabica di detta parola, b) un suo valore qualitativo o ritmico. Pura prosodia se si vuole. Questa parola casa che ha i valori fonici che abbiamo visto, evoca per astrazione o, se si preferisce, per convenzione, un'indeterminata casa. Ora, per dirla in stile d'abbecedario, tutto lo sforzo del poeta consisterà nel riuscire a dire (o evocare se si preferisce) ciò che gli preme di dire, trovando un giusto rapporto fra valori fonici e valori evocativi secondo l'indole d'una lingua e conformemente alla tradizione letteraria della medesima, e secondo il gusto personale del poeta ... ». Non è questa la sede per fornire le prove, che pure ci sono, di come da un anno all'altro e da 1,1nlibro all'altro, in successione pressoché inarrestabile che ha trovato riflesso anche in queste lettere, Ungaretti abbia perseguito, con passioné davvero inesauribile, lo svolgimento di un proprio disegno lirico assoluto fra «innocenza» e «memoria». In questo è assecondato senza indugi dall'opera di collaborazione, di assistenza e di commento teoricamente illimitata del critico amico, che negli anni lo seguirà, assisterà, lo eguaglierà persino nell'individuare, di quest'opera, il diagramma ottimale, nell'auscultarne, e verificarne in assoluto il disegno. Accanto alla passione, all'irruenza, alla tensione di chi vuole infine e più di tutto bruciarsi in un grido, De Robertis, con lo stoicismo di chi sa di avere da svolgere una funzione vicaria quanto indispensabile, sa bene che il massimo suo risultato sarà quello di sapere· accogliere, ascoltare, ordinare le parole dell'amico fino al loro 'optimum', di far parlare fino in fondo Ungaretti al più e al meglio delle sue facoltà. Fin dall'inizio del loro rapporto De Robertis non ha dubbi sulla sua funzione di annotatore e commentatore: «... Sto allineando tutte, dico tutte, le varianti, e io mi ci specchio ( ... ). A Firenze ti mostrerò le prove del mio lavoro; ora ti dico soltanto che da questo lavoro io imparo moltissime cose, che il farlo è per me un piacere grande, e la fatica non mi pesa. Non ho mai visto così chiaro nella tua poesia ... » (10 agosto 1942). Raccomanderà a Ungaretti di fargli avere tutte, dice tutte le diverse versioni a stampa dei suoi testi, in questo aiutato anche da Falqui spesso presente nelle loro lettere, che a Roma, tramite la sua fornitissima biblioteca, farà non di rado da mediatore fra i due amici, e da prezioso fornitore di rarità bibliografiche allo stesso De Robertis. Il quale vorrà però vedere e trascrivere tutto di persona, non fidandosi infine (lo scriverà a Ungaretti) che della propria pazienza e tenacia: « ... io non desidero da te che quesw: che mi procuri indicazioni bibliografiche il più possibile esatte; poi le ricerche le farò io, le devo fare io: perdonami, ma quanto a esattezza, non mi fido di nessuno, nemmeno di te ... » (14 settembre 1942). Così senza mai alzare la voce, ma inflessibile quando ne va del metodo e della qualità del suo lavoro: neanche quando, a un certo punto, per questioni di tempo e sotto la pressione dell'editore, la pubblicazione corre il rischio di sfumare o di perdere l'inappuntabilità prevista dal curatore: « ... La tua poesia (che merita questo e altro), la mia difficoltosa e prudente natura di studioso (di studioso responsabile, non avventato) m'impongono questa condotta e questa ferma decisione. Ti prego ascoltami. Fa' che io dedichi quel poco d'ingegno mio, e tutto il tempo che ci vorrà a un'opera che può diventare esemplare, acqms1re qualcosa di serio agli studi ... » (19 settembre 1942). E De Robertis l'avrebbe alla fine avuta vinta, proprio per la sua tenacia e pazienza, sull'irruenza e l'impulsività di Ungaretti, sulla fretta dell'editore di pubblicare comunque i libri, sui tempi bui della guerra che creavano imprevisti e contrattempi. Ci furono persino gli arresti per De Robertis, accusato di essere in contatto con suoi allievi appartenenti alla Resistenza, col relativo sequestro per mesi delle varianti di Ungaretti che davano sospetto in Questura, . ' mentre, d'altra parte, 11poeta era accolto ali' Accademia d'Italia. Stravaganze di tempi bui! Questo non impedì che i primi tre volumi di Vita d'un uomo uscissero secondo il loro disegno ottimale. Poi, negli anni, la corrispondenza fra il poeta e il suo critico sarebbe continuata con ritmo quasi altret-

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