Alfabeta - anno VII - n. 71 - aprile 1985

lnterpretazi~~doi<i <Fedra> Jean Racine Fedra traduzione e introduzione di Giovanni Raboni Milano, Rizzoli, 1984 pp. 185, lire 6.000 Teatro Stabile di Torino Fedra regia di Luca Ronconi S i usa chiamare interpretazione di un testo letterario quella di chi ne studia il enso; e, d'altra parte, interpreti - se il te to è teatrale - gli attori e il regista. Ma senza dubbio è un'interpretazione anche quella di chi traduce il testo da una lingua all'altra, tanto più quanto più l'operazione è difficile. Perciò quando il sottoscritto, autore di un aggio sulla Fedra di Racine, ha ascoltato per la prima volta la nuova traduzione di Giovanni Raboni mentre assisteva alla nuova messa in scena di Luca Ronconi, le interpretazioni della tragedia che gli si raffrontavano a ogni istante nella mente erano ben tre. Quella del regista; quella del traduttore; più la lunga analisi, quasi verso per verso, svolta nel suo proprio saggio di quindici anni fa. Confronti e contrasti fra interpretazioni non dovrebbero svegliare problemi in chiunque pensi che le letture possibili di un testo sono infinite, e tutte legittime. Ma non è questo il mio caso: proprio con quel saggio sulla Fedra inauguravo un ciclo di quattro studi volti a difendere, fra l'altro, qualcosa come una concezione obieuiva del senso di un testo letterario; diciamo, almeno, la finitezza del numero di interpretazioni che es o autorizza. La Fedra di Racine è il capolavoro di un teatro detto clas ico, e perfino definito «teatro della ragione». Non certo nel sen o che vi figurino personaggi ragionevoli: ché anzi in media i suoi personaggi potrebbero superare quelli di uno Shakespeare, quanto a violenza passionale, aggressiva e autodistruttiva. Piuttosto: nel senso che la violenza passionale in questo teatro si esprime entro discorsi controllati, e perfino ordinati; e nel senso che essa si commi ura sempre, come vergognando i di e stessa, a un esigente ideale di razionalità e moralità. Mutuando da Freud l'idea che non solo la moralità, ma anche la razionalità iano per essenza repressione (un'idea che in Freud è sì pessimi tica, sia detto di passaggio, ma non certo anarchica), avevo interpretato la Fedra nel mio saggio come la tragedia della repressione per eccellenza. Tanto vale dire la tragedia del represso: perché, ancora dall'impo tazione freudiana, consegue che la forza di una repressione e quella del represso relativo stanno in proporzione non inversa ma diretta. Fedra, simbolicamente figlia di Minosse e di Pasifae - cioè della Legge inesorabile e del Desiderio perverso-, è lei stessa, e fa dell'intera tragedia, il più terribile campo di tensione fra i due poli opposti di tutta la storia del teatro. Ma col passare dalla mia anali i di studioso all'interpretazione del traduttore o a quella del regi ·ta, cosa resta di una formula come «tragedia della repressione»? Direi che resta moltissimo: a patto di modificare volta per volta, ma non troppo, il ignificato della parola repressione. S e considero adesso i problemi che si ponevano al traduttore, l'impressione che darò di star cambiando discorso arà falsa e breve. Perché Racine è stato sempre considerato il poeta più intraducibile fra i maggiori delle letterature europee? Rispondo (abbreviando fino all'o o il discorso di un saggio con cui avevo chiuso il ciclo apertosi su Fedra): perché la figura più facile da tradurre del linguaggio poetico è la metafora, cioè proprio la figura di cui Racine fa un uso co ì parco - così represso. Scelgo fra mille una metafora audace e carnale da Shakespeare: due donne, in riva a un mare solcato da navi, ridono «vedendo le vele ingravidare/ E farsi panciute ad opera del vento lascivo». Traducete que to in italiano, in finlandese, in giapponese: suono e ritmo dei versi inglesi andranno perduti, ma la mirabile a similazione tra il gonfiore delle vele e quello di un ventre resisterà in qualunque lingua. Shakespeare è un poeta, se anche non si accetta di chiamarlo barocco, contemporaneo del grande barocco di altre letterature: ossia del primo grande sfrenamento di inventività metaforica in tempi moderni. Racine, in Francia, arriva più tardi: al culmine d'un lento processo di imbrigliamento, ossia di repressione, della inventività metaforica. L'Illuminismo è alle porte; la metafora è sospetta complice di quella stessa licenza irrazionale, co"ntro cui sta per scatenar i addirittura la critica della religione. Dunque la metafora potrà sopravvivere solo in forme misurati ime, anzi convenzionali; e anche per questo Racine segna l'ultimo miracoloso compromesso, prima di quel «secolo senza poesia» che si suole considerare il primo Settecento. Oggi, dopo due secoli che la metafora sembra ridiventata l'anima .stessa del linguaggio poetico, il traduttore Raboni - poeta lui stesso ha fronteggiato l'intraducibilità di Racine perché ha felicemente intuito su quali altre figure era giocoforza puntare. Suono e ritmo, metro e rima, si capi ce; ma oprattutto figure di sintassi, o meglio di rapporto fra la sintassi e il verso: anche un tale rapporto è severamente di ciplinato nel testo france e dalla massima coincidenza obbligatoria fra le unità o gli stacchi della sintassi, e quelli del verso. Ne deriva un rischio di monotonia che solo il genio ritmico di Racine riesce a parare. Ma il traduttore ha saputo permetter i, di fronte alla quadratura del di tico rimato francese, un ricorso per istente o all'alessandrino italiano (chiamiamolo x) o all'endecasillabo (chiamiamolo y), che gli ha reso sapientemente alternabili quattro combinazioni (xx, xy, yy, yx), ciascuna econdo i casi con o senza rima; salvi naturalmente i frequenti spezzamenti inflitti al distico, che producono versi liberi italiani. Rubo la metafora shakespeariana per dire che Raboni è pas ato a gonfie vele, tra la Scilla della monotonia e la Cariddi dell'arbitrio. Se si vuol rendere giustizia alla ua ispirata bravura, la cosa migliore è sottoporlo al formidabile confronto, evocando i versi francesi: quella ininterrotta serie di cui Gide si chiedeva, non a torto, se e istesse «niente di più bello in qualsia i lingua umana». Lo pazio non mi consente che un esempio, stupendo (del tipo xx senza rima): «Per vo tra mano il mo tro sarebbe tato ucciso, / malgrado i mille incroci del suo vasto rifugio». Se potessi scegliere largamente fra le rese più affascinanti, si vedrebbe che si annoverano tutte dove la disciplina metrico-sintattica dell'originale è pre ervata, non dove è sciolta. In altre parole, dove i mantiene di più quella repre sione in senso verbale e tilistico, che è di tinta dalla repre - sione in senso morale eppure le è imparentata. Tanto è vero che essa governa, in Racine, non solo la versificazione ma anche la rarefatta dignità del linguaggio: il tabù su tutti quegli aspetti dell'esi tenza che a un grandissimo critico come Auerbach piacque chiamare «crea turali». Da qui la transizione è diretta a quel terzo senso della formula «tragedia della repressione», che riguarda il regista e le ue scelte. La dimensione che Auerbach chiamava del «creaturale» ovviamente coincide quasi con quella, secondo una espressione attuale, del corpo. Ora, il teatro di Racine non è solo scritto in un linguaggio che non nomina mai niente di troppo umilmente corporale, e semmai vi allude con perifra i nobilitanti. È anche un teatro che non lascia accadere niente di corporale sulla scena, riducendo e ublimando il movimento fisico, e relegando fuori scena ogni azione violenta; la quale, si tratti anche dello stesso esito omicida della tragedia, non può che venire riportata in un racconto. È in omma un teatro supremamente orale; ancor più di quelli grandissimi inglese e spagnolo fra inque e Seicento, e di quello francese della prima metà del Sei, nel quale il rispetto delle cosiddette regole si era andato imponendo a fatica. I lettori di queste mie righe che siano stati anche spettatori della messa in cena di Ronconi lo avranno già capito: con questo ulteriore a petto della repre sività di Racine, il regi ta dal canto suo non ha voluto o potuto fare i conti se non capovolgendolo, in una infedeltà completa, caparbia, quasi coatta. Personalmente la moda degli stravolgimenti mi è, a dir poco, antipatica; ma tavolta non ne va di una moda: non avrei il coraggio di affermare che oggi sia umanamente po sibile far rivivere un teatro dove la parola era tutto o quasi, dove gli attori non erano che interlocutore gli uni degli altri, e tutti del pubblico. Ronconi all'opposto - ben secondato in genere dai suoi attori - ha esibito, movimentato, esaltato, mortificato il loro corpo, attirando continuamente l'attenzione su di esso. Li ha fatti distendere a terra (in movimenti di avvilimento?); abbandonarsi su divani (in momenti di abulia?); accovacciarsi in punta di piedi (in momenti solenni, per paradosso?); avvicinarsi lentamente a un altro (per vana ricerca di intesa?); curvarsi su chi è adagiato (per supplica o ricatto?); accostare fisso volto a volto (per minaccia o tentazione?); abbracciarsi (anche sulle parole più aggressive?); fare addirittura la lotta sul palcoscenico: in que t'ultimo ca o non av·rei dubbi sul carattere edipico dello scontro, che è tra padre e figlio. Ma qualunque interpretazione di questa interpretazione si tenti di dare, e senza fare il minimo torto alla personalità dominante di Anna Maria Guarnieri, ecco cosa mi ha più appagato nello spettacolo: che e o ostenti non una grande protagonista, ma un vero sistema di per onaggi, tutti collegati e contagiati. Un po', e o o dirlo, secondo lo stesso orientamento antiindividualistico che era una delle rivendicazioni del mio aggio. Per esempio, la mia concezione di Ippolito come proposta fallimentare di un ordine nuovo pare tradursi nell'intelligenza del personaggio incarnato da Roberto Trifirò, con adeguata eleganza fisica e un non comune calore di voce: e so non emana solo il pathos della vittima predestinata, ma anche quello di un successore al trono innovativo e immaturo. Quanto ad Anna Maria Guamieri, liberata dal protagonismo tradizionale, rinuncia deliberatamente a ogni psicologi mo nei due grandi passi della confessione e della dichiarazione; come se ce. sa se di trattenerli la reticenza, il conflitto fra volere e non voler dire, ben ì veni ero « cantati» ome un'aria d'opera ma in rassegnazione spen• ta; con quella superiore rinuncia all'effetto che Proust attribuì, nel ruolo di Fedra, alla sua immaginaria attrice Berma. Di tanto più efficace l'i terica concitazione in un 'altra grande cena, quella della gelo ia: dove il repre o che prorompe non è più direttamente desiderio, ma rancore e rimorso. Per chiudere, sarei felice di saper interpretare quel tele copio che è l'unico oggetto vistosamente presente in scena; mi sono interrogato sul quando e perché gli attori ne a cendono gli catini, e se abbia a che fare con l'avvenire, col destino, con la trascendei ,za . Ma. a "" questo punto la domanda s1 !lJ- .s sformava in un'altra, dettata da &° gelo ia professionale: se con quel- ; l'occhio puntato in alto Ronconi si 01 sia ricordato del bel libro di Gold- ':; mann, il cui titolo-// dio nascosto ~ - la eia intravedere l'interpreta- t zione che vi si dà di Fedra; ahimè ~ ideologica, teologica, individuali- i: stica, insomma tutto quel che c'è ! di più inconciliabile con la mia. i t

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