~ l'uso di non-ballerini nelle prime coreografie ( Calore e il primo abbozzo di S.tatodi grazia) e la vicinanza inequivocabile al nuovo teatro hanno fatto molto equivocare sul suo lavoro. I Sosta Palmizi,' superstiti tutti italiani del gruppo Teatro e Danza La Fenice di Venezia che l'ente lirico ha scaricato dopo il licenziamento della coreografa e maestra Carolyn Carlson, tentano allusioni poetico-teatrali, ma per ora propendono a macinare sino in fondo quello che hanno ' assimilato. S i può precisare allo stesso modo che il teatro-danza di Maguy Marin è altra cosa rispetto al teatro-danza di Pina Bausch. La coreografa di Tolosa ha lavorato, almeno sino ad oggi, ispirandosi a testi come i Beckett (Aspettando Godot e Finale di partita) di May B. o come La jeune fille et la mort di Schubert per una composizione dal titolo omonimo. E ha chiuso il suo gesto spoglio, povero, spesso grezzo, entro i confini del 'testo' prescelto. In altri termini, ha riempito di coreografia un copione (anche musicale) rispettando tempi e misure del copione stesso. Pur essendo relativamente originale nello specifico del movimento, e va detto sempre più originale rispetto ai primi lavori come Don Juan, Maguy Marin non esce dai binari della coreografia tradizionale. Le sue danze d'azione molto forti, concentrate, intense (quasi alla Kantor) sono la versione moderna, professionalissima, del balletto d'azione. Per Pina Bausch basti dire solo che teatro equivale non a contenitore, bensì a metodo di lavoro: uso di materiali scenici secondo coreografia (le posizioni e il divenire delle immagini nello spazio), montati, però, in forma squisitamente teatrale. La lista delle precisazioni e delle distinzioni potrebbe naturalmente continuare all'infinito con il rischio di contraddire il desiderio che I definizioni rigide e le collocazioni non elastiche cedano il passo a letture aperte e il più,possibile diversificate. Quanto abbiamo scritto sin qua si riferisce però a una panoramica quantomai generale. Da noi il termine «teatro-danza» è più ambiguo che altrove, per se stesso e per la sua funzione di disturbo. Perché se da una parte ha contribuito a scuotere, a interessare il pubblico, a smentire molti pregiudizi sulla danza, dall'altra ha contribuito a creare molti equivoci su un incontro, su una contaminazione non sempre probabile, non sempre esistente, oggi forse sor- .passata. • In Italia si deve principalmente ai critici di teatro se i grandi esempi di Tanztheater sono arrivati a farsi conoscere nei teatri italiani e a farsi invitare dalle grandi istituzioni. I critici di teatro militanti hanno anche appoggiato con entusiasmo le prime affermazioni di certo teatro-danza italiano. Si ricordi, a esempio, l'exploit felicissimo e molto difeso di Enzo Cosimi con Calore (1982), un progetto non a caso rivolto a non-danzatori (di qui l'interesse degli· addetti-teatro?). I critici medesimi hanno però quasi sempre eluso e sottovalutato i problemi specifici, le caratteristiche peculiari del lavoro di danza, quasi storcendo il naso di fronte a un piede ben teso, a un 'port de bras' tenuto, a una 'pirouette' eseguita con equilibrio, salvo riconoscere poi la necessità di una maggiore preparazione corporea per molti giovani e meno giovani nuovi teatranti alla ricerca di una gestualità che non hanno quasi mai neppure provato a possedere. La storia è molto vecchia, assomiglia a quella del grande attore italiano (quello tout court) che è istrione, mattatore spontaneo, improvvisatore (leggi: non ha bisogno di scuola), ma solo, come tutti sanno, in casi del tutto eccezionali, perché il resto si vede ogni giorno a teatro... Ribaltata nel territorio del teatro g~stuale e/o dell'immagine, questa vecchia s·toria facilita il proliferare di gesticolatori improbabili, molto stanchi, spesso squinternati, ma comunque protetti, da grandi scene, luci, tecnologie a volte inutilmente esorbitanti (Krypton). A questo teatro, il teatro-danza vero, anche italiano e, più in generale, la danza contemporanea che si fa in Italia ha dato molto. Ha proprio sollecitato un approfondimento sul lavoro del corpo (che non necessariamente deve iniziare e terminare in danza), ha suggerito un'infinità di soluzioni sceniche, di passi, di movimenti, e modi di aggredire lo spazio (si pensi solo all'uso delle diagonali, allo scorrimento in orizzontale, alla meccanica delle cadute, delle contrazioni), ma in cambio ha ricevuto ben poco. Chi cita quei gruppi e solisti che danzando usano testi e strutture drammaturgiche (si veda Antonio Attisani, «Altri esempi italiani» in Alfabeto n. 69)? Chi si trattiene dal sottolineare a ogni piè sospinto quanto è 'bella la danza quando non si vede, quando non marchia lo spettacolo del sapore intenso e ammuffito di tecnica? Chi si prende la briga di ·controllare fonti e scuole, riferimenti di danza, così solo per scrupolo, prima di lodare la «nuova coreografia» dei Magazzini Criminali? Il futuro non si prospetta più roseo. Anche perché le ultime novità della ricerca di danza in Italia e altrove segnano un netto ritorno allo studio del linguaggio specifico della danza e del movimento. E si badi che rion è uno stanco revival. Così le contaminazioni tra teatro e danza sembrano aver esaurito il loro corso senza essere state neppure affrontate da due punti di vista. Perché il primo dei due, piaccia o no, ha sempre avuto la presunzione di contare più del secondo. (Scorrere tutti i cartelloni teatrali italiani per credere.) uell'imbecilldei Mozart Amadeus regia di Milos Forman sceneggiatura di Peter Shaffer Amadeus, Amadeus di Peter Shaffer regia di Giorgio Pressburger Hermann Abert Mozart (La giovinezza 1756-1782) Milano, Il Saggiatore, 1984 pp. 924, lire 65.000 e he siano trascorsi invano quasi due secoli da quel 5 dicembre 1791 in cui il gracile Johannes Chrysostomus Wolfgangus Theophilus Mozart cedeva ad altrui possesso la propria anima di genio? Neve e pioggia scesero a coprire un sacco qualsiasi in una delle tante fosse comuni del cimitero di St. Marxer, fuori città: pochi e affrettati spettatori per una sepo~tura anonima, celebrata secondo il rito imposto nel 1784 dall'imperatore Giuseppe II. Vienna si sbarazzava così del suo musicista più scomodo, di un uomo tanto ambiguo da alimentare l'immagiriazione romantica ancora per diverso tempo dopo· quel 17911 . Alla lista già lunga delle invenzioni, leggende, mistificazioni, sùpposizioni e giochi sulla vita di Mozart si aggiunge oggi il film di Milos Forman, sceneggiato da Peter Shaffer, dal titolo quasi familiare di Amadeus. La pellicola trae origine, con una filiazione irriconoscibile, dall'omonima pièce teatrale dello stesso Shaffer, un vero piècolò capolavoro sull'invidia, un saggio sulla scissione interiore dell'uomo Salieri costretto all'impari confronto con l'immenso Amadeus. Con scelta retoricamente perfetta, nella versione italiana del dramma, il titolo suonava Amadeus, Amadeus, quasi a sottolineare un 'invocazione/maledizione indirizzata verso il fantasma di quel Mozart ridotto, sulla scena del teatro, a un ruolo marginale e quasi pretestuoso. Ma il cinema (o meglio, un certo cinema) ha le sue regole: alla riflessione si sostituisca l'azione, il gioco interiore si vesta di volti, b te, maschere, balli, opere e, perché no, musica. Ecco allora che il grande schermo v;ene occupato dalla piccola statura di Tom Hulce (Amadeus) ben più che dall'astio di Murray Habram (Salieri). Certo, in teoria è l'anziano e ormai pazzo compositore italiano che racconta, a modo suo, le avventure e gli incroci della propria , vita con quelli del «pagliaccio ridacchiante» di nome Mozart. Ma tutto il film, come ogni buona commedia americana che si rispetti, evita qualsiasi doppio gioco e tutto, dalle riprese alla musica, induce lo spettatore ad assaporare l'immagine di Wolfgang Amadeus come quella di un piccolo dissociato, la cui unica fortuna sta nella divina predestinazione alla genialità. Esemplare, a questo proposito, la farsesca risata che accompagna spesso le battute di Tom Hulce, fino a indurre dirette discendenze genealogiche fra Mozart e Jerry Lewis. E il pubblico se la gode: ride per il ghigno, trema per le trame ordite alle spalle del giovane austriaco, si lamenta con lui della povertà in cui vive, ne disdegna il padre che tenta di modificarne le- scelte esistenziali. È proprio vero che il tempo non passa sulle leggende. è proprio vero che resiste più una fiaba di una lettera. Ed eccoci ancora qui ad accarezzare l'idea che un sentimento tanto basso come l'invidia possa aver ragione di una tranquilla ed eversiva genialità. Niente Carlo Boschi paura, è Salieri stesso che riconosce e deride la propria mediocrità, peccato che lo faccia rivolgendosi· ecumenicamente ai folli tra cui è rinchiuso, folli che tutto evocano, tranne la mediocrità. Ma tutte le leggénde nascono e prosperano per bisogno collettivo di rassicurazione, ognuno crea e trova eroi e malfattori, trame e agnizioni: sarà un caso che tutto il film sia raccontato da Salieri a un prete? Saremmo noi spettatori' gli incaricati divini capaci di assolvere e condannare? Caro Forma·n, il gioco è astuto, ma qualcuno ne soffre. Innanzitutto il povero Amadeus e con lui quelli che lo amano. La sua ~gura appare sballottata fra moglie, amici, vino, imperatore, concorrenti, delineata solo in funzione oppositiva, ogni suo lavoro trova ragione in una non meglio identificata grazia divina e con Salieri ci troviamo a corteggiare l'idea di un fanciullo prodigio cresciuto troppo in fretta, abbandonato dalla sorte in balìa della vita. Ma siamo seri! - A cosa sono seyviti due secoli di storiografia, anni e anni di studi, estasi collettive di fronte alla insondabile profondità di opere come il Don Giovanni o il Requiem se poi ci vengono ancora a riproporre la fola dell'ispirato incosciente? Certo, con una logica del genere si risolvono tanti problemi e, quindi, la statua del Commendatore nel Don Giovanni risulta essere là trasposizione infernale dell'odiato (ma chi l'ha detto?) padre di Mozart: psicanalisi da manifesto murale che cancella la monumentale complessità di un'opera che musicalmente non ha pari nel teatro del Settecento. E per un'operazione del genere si richiede (e nel film si ottiene pienamente) una recitazione immediata, un ruolo che accompagni le parole con i gesti della quotidianità americana, tanto che Tom Hulce, in molti punti, non ha movenze e atteggiamenti diversi da quelli di Dustin Hoffmann, anzi sembra insistere su una goffaggine quasi procurata e, in fin dei conti, leziosa. Certo, il film non vuole proporsi come una biografia di Mozart, quanto come una ricostruzione della sua vita ad usum di Salieri. Ciononostante le lunghe sequenze che riguardano le opere di Wolfgang Amadeus, la loro esecuzione e la loro messa in scena i fanno leggere come vere e proprie ricostruzioni, tanto da indurre, ancora una volta, alla considerazione della loro credibilità. Ad esempio, perché sorbirci una Zauberflote cantata in ingle e quando quest'opera trova giustificazione e radici nelle tradizioni mitologiche e semantiche di quella lingua tedesca in cui fu scritta? Perché presentare il Don Giovanni nella sua replica viennese di scarso successo, invece che nella trionfale prima esecuzione al Teatro Tyl di Praga? Insomma, questo Amadeus puzza di cassetta lontano un miglio e non bastano alcuni spunti di vera eccellenza registica (il finale con la sepoltura di Amadeus o il centone· delle opere di Mozart trasfigurate dai guitti del Volkstheater di Vienna) per riscattare i colpevoli ammiccamenti a pregiudizi ormai superati sulla personalità del genio salisburghese. Ma, come si sa, il mercato offre sempre interessanti coincidenze o appassionanti contrapposizioni. Ed ecco, allora, per i delusi da Forman l'occasione per occupare deliziosamente altre ore del proprio tempo continuando a pensare a Mozart. L'Italia è ormai entrata nel novero delle nazioni civili che vantano una traduzione dell'indispensabile Mozart di Hermann Abert, scritto nel 1922 e probabilmente mai superato come qualità e impianto metodologico dalle successive biografie mozartiane. La lettura del primo tomo (la giovinezza 1756-1782), tradotto ora con competenza da Boris Porena e Ida Cappelli ripaga ogni delusione e fraintendimento procurati dal commerciale film di Forman. Si tratta di un vero tuffo nel sublime, uno di quei rari incontri fra amore e critica che fanno ancora sperare il pubblico e giustificano il mestiere di biografo. Se il cinema ha le sue leggi, anche la storia ne impone alcune e se la musica di Mozart schiaccia il tempo e il suo trascorrere, la risposta a un enigma tanto divino (questo sì!) si potrà cercare certo con più profitto nel libro di Abert che non nella pioggia di premi Oscar destinata dal cielo a coprire il film di Forman. Nota (1) Si può partire dall'autoaccusa di Salieri che si proclama avvelenatore di Mozart, per giungere sino alla piccola tragedia Mozar1 e Salieri di Puskin, quintessenza delle biografie romanzale.
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