Alfabeta - anno VII - n. 71 - aprile 1985

Massimo Cacciari Icone della legge Milano, Adelphi, 1985 pp. 336, lire 24.000 Lf intuizione che anima l'ultimo libro di Cacciari, Icone della legge, è annunciata fin dalle prime righe in una affermazione di Rosenzweig: vom Tode... ins Leben, dalla morte ... dentro la vita. Si tratta dunque di esplorare il paradosso che contiene in sé l'esperienza dell'antitesi: il pensiero della caducità e della morte e la percezione dell'emergenza delle cose, delle immagini, delle figure che delineano un paesaggio in cui «nulla vi è di incolto, di sterile, di morto». Questo paesaggio si illumina nelle ultime trenta pagine, splendide e folgoranti, del libro. Le pagine che precedono, i primi cinque capitoli, sembrano essere state scritte perché il lettore non giunga a quésto nucleo, e si perda, come avrebbe detto un autore caro a Cacciari, Plotino, in un giro smarrito, che lo riporta costantemente al punto di partenza: alla morte e al silenzio. Cerchiamo di ripercorre questo tragitto. La prima tappa del viaggio è all'insegna della Stella della redenzione di Rosenzweig, e del problema che inaugura questo libro. Si tratta di giungere all'indicibile della filosofia, la vita, a partire proprio da quel presupposto che ogni filosofia ha cancellato parlando un linguaggio «che afferma l'essere della verità e della legge». Il tentativo di superare questo linguaggio conduce Rosenzweig al di là del libro, al di là del dicibile, nel «silenzio di una salvezza che cade». E dal momento •che questo «oltre» il libro ci rimane «perfettamente precluso e invisibile», esso viene riconfermato nella stessa forma in cui la filosofia ce lo ha consegnato. La seconda tappa ci porta attraverso i labirinti di Kafka. Il libro di Rosenzweig erà animato da una speranza: la morte doveva condurci alla vita, che rimaneva indicibile, preclusa, invisibile. Kafka va oltre Rosenzweig, nel senso che ci mostra il fallimento anche della speranza; in lui non solo si spegne la «stella della redenzione», ma anche «la stella della narrazione». La vita - il punto terminale della tensione di Rosenzweig - è qui punto di partenza, che ci conduce alla meta di «una morte apparente». Dunque anche quel presupposto, che era stato assunto come il punto di resistenza irrinunciabile per superare la «cancellazione della filosofia», la sua attività «sacrificale», si riduce a mera apparenza. La salvezza non si presenta più come la traiettoria di una stella che cade, ultimo bagliore nel buio, ma come «l'inesplicabile silenzio della roccia». E Ulisse non si tappa le orecchie per sfuggire alla malia della morte e del negativo, proposto dal canto e dal silenzio delle sirene, ma per mostrare con un gesto che tale silenzio è non solo inudibile, ma è soprattutto irripetibile. Anche la terza tappa del percorso di Cacciari, attraverso Freud e Schonberg, ci porta all'esito di un «silenzio in cui la parola è traccia disperata», in quanto manca la parola «capace di dire il silenzio senza tradirlo, di dire il Silenzio come Silenzio, di udire l'Inudibile davvero in quanto Inudibile». Certo, esistono immagini, ma queste «nulla sarebbero senza questa assenza» che le costituisce. Con la quarta tappa siamo entrati nel regno dell'icona, e dunque siamo di fronte all'interrogativo se ciò che è indicibile possa mostrarsi in quanto ineffabile. Ma l'icona, anziché mostrare l'invisibile nel visibile (come in Florenskij), secondo Cacciari è «l'attrazione del visibile nell'invisibile», è I' «implosione» delle cose in un «buco nero» che «risucchia tutto il sensibile attraverso la finestra dell'icona». Anzi, ancor più: «il buco nero è il termine destinato di quel vortice all'invisibile che la finestra dell'icona produce». Si giunge cosi a quella «mimesi di nulla» che lega Malevic alla «teologia dell'icona». Attraverso «l'eccedenza» del formalismo matematico rispetto all'estetico, passiamo a Mondrian, nella quinta stazione del nostro viaggio. La «croce» di Mondrian è la «sospensione» del linguaggio naturale e della sua logica, è il segno «della necessità di far-vuoto in sé»: della necessità di «spogliarsi di ogni distinzione per riuscire ad ascoltare l'Assoluto». È un ascolto disperato, irripetibile, irrappresentabile, in quanto esso «rimane anche simbolicamente ineffabile», pura inafferrabilità che «il silenzio custodisce». M i pare che il discorso fin qui non abbia che ripetuto ossessivamente il silenzio, ribadendo le posizioni 'classiche' di Cacciari, che avevano trovato in Dallo Steinhof una compiuta definizione. Non si produce un nuovo pensiero, il paradosso che abbiamo intuito all'inizio del libro, ma una volontà di persuasione attraverso la ripetizione: una sorta di alta e aspra retorica, che oscura quegli elementi di mutamento, che pure sono impliciti nella tradizione percorsa da Cacciari. Così non abbiamo traccia della «felicità» che affiora in Kafka, come il segno di una vittoria sull'invisibile, proprio là dove Cacciari, secondo la vulgata del kafkismo, legge il tramonto della parola e della narrazione. Così la «pura inafferrabilità» di Mondrian non tiene conto dei quadri americani che parlano un altro linguaggio. L'icona stessa si riduce alle dimensioni di una parola involontariamente. mimetica, che dovrebbe catturare in sé, attraverso le etimologie fantastiche, le lineette e i corsivi, il nulla che essa inesorabilmente esprime: distanza, di-stanza, dis-tanza; ri (o re)-cordare; sola-mente, ecc. Ed è a questo punto che il discorso di Cacciari ha invece uno scarto improvviso e imprevisto. Cacciari individua, all'interno dell'opera di Leibniz, un pensiero dei possibili, un pensiero del mutamento in cui anche la morte non si dà come terribile presupposto, ma come il limite della nostra percezione e attenzione. Un pensiero in cui l'invisibile si connette «inscindibilmente a ciò che chiamiamo visibile»; e in cui, infine, troviamo stati particolari - come quello che è tra la veglia e il sonno - in cui è possibile cogliere l'ordito delle differenze, è possibile pensare a un tempo pieno di avvenire e carico di passato. E a partire da Leibniz che possiamo immaginare un universo di figure, non ordinate da un supremo architetto, in cui parola e silenzio si costituiscono in modo nuovo rispetto all'oggetto e rispetto al soggetto, che cessano di significare autonomamente, e diventano funzioni reciproche. Klee ci conduce attraverso questo universo. In lui confluisce una diversa lettura della tradizione occidentale, una nuova lettura della tradizione orientale, un inedito rapporto con le immagini. L'invisibile non affonda in un assoluto «custodito dal silenzio»; esso si immagina, si dà come immagine. La figura, che delinea lo spazio di confluenza delle immagini, è «sinolo tra gli infiniti percorsi della genesi e gli infiniti mondi possibili». Nella figura, infatti, la sostanza, l'essenza, non si dà più come sacrificio del presupposto che nessuna filosofia ha saputo accettare, ma come la possibilità stessa. L'evento, in questa chiave, è allora ciò che emerge «nell'universo intramontabile dei possibili», e l'opera diventa davvero «una similitudine della creazione», in quanto porta all'essere le cose che ancora non sono, ma che abitano appunto in questo universo. Nessuna lingua ha mai parlato questo universo. Ma il linguaggio «della lingua parlata non è che una forma del pensare». E questa forma «abita insieme a quella dell'immagine»: «logos, immagine e concetto abitano insieme». L'imperativo del silenzio si rovescia: i segni che costellano il labirinto «esigono di essere detti, nei loro tempi diversi, simultaneamente». È a questo punto che possiamo dire, come Rilke che aveva affermato che «essere qui è stupendo», che «nulla vi è di incolto, di sterile, di morto nell'universo». La parola interdetta trova qui il suo riscatto, in quanto ogni parola «è anche immagine, e ogni immagine può associarsi alla parola». La conclusione del libro di Cacciari delinea il profilo del problema di fronte al quale, a mio giudizio, si trova oggi il pensiero: la raffigurabilità del possibile in un moto polifonico del pensiero stesso, che non dia una risposta sacrificale alla domanda «che cosa significa pensare». A questi stessi esiti sono giunto anch'io, per vie diverse da quelle battute da Cacciari, almeno a partire da Metamorfosi e in tutta una serie di interventi successivi. E credo che qui, e non per esempio nel «pensiero debole», sia il nodo problematico che ci permette di superare il nichilismo e il pensiero della caducità. L'immensa parata «cimiteriale», che precede nel libro di Cacciari questi esiti, può allora essere letta come una definitiva resa dei conti con il pensiero negativo: come la dolorosa manifestazione di un passaggio d'epoca, e il travaglio di fronte all'emergenza del nuovo. Un addio pieno di nostalgia, prima di essere altrove, e di proporre queste figure. L'interruziondeiDio Edmond Jabès Il libro delle interrogazioni Reggio E., Elitropia, 1982 Le Livre du Dialogue Paris, Gallimard, 1984 Il libro delle somiglianze in La parola, il silenzio, la scrittura. Poesie e frammenti a cura di Donatella Bisutti in Almanacco dello Specchio Milano, Mondadori, 1981 11 testo di Jabès è il testo della sradicatezza, dell'esilio, prima di tutto dell'esilio della parola, della sua erranza attraverso le strade molteplici e tortuose del- ! 'interrogazione, dell'appello che. si fa ali'Altro, luogo invisibile da cui parte ogni domanda. Aggiungerei che la ferita attorno alla quale nasce l'opera di Jabès è la scena di una chiamata, di un appello appunto che l'uomo fa a Dio non meno di quanto Dio lo fa all'uomo, in una reciproca espropriazione da cui il Libro inizia e prende congedo, inizia per prendere congedo. La parola che nasce è anche la parola che si congeda, che si dona nel distacco e nella disappartenenza in cui l'esperienza del linguaggio e della scrittura si qualifica sempre come esperienza dello strappo, del silenzio, della morte. Chi entra nel testo di Jabès entra in un labirinto dove la morte, come ha scritto Derrida, «si aggira tra le lettere» perché esse altro non sono-ahe le lettere dell'assenza: «Tutte le lettere - scrive Jabès - formano l'assenza». Occorre allora un filo di Arianna, una traccia che ci guidi nel labirinto di segni che dicono l'afasia originaria, il silenzio e l'assenza dell'Altro: «Segna con una traccia rossa la prima pagina del libro, perché la ferita è invisibile al suo inizio>> (Libro delle interrogazioni). C'è dunque un inizio della feriRoberto Carifi ta, un inizio del Libro, ma lo sguardo deve subire il tormento del suo continuo spostarsi perché l'occhio della scrittura abita sulla «soglia», un luogo che non è un luogo, un non-luogo che prende corpo nella distanza, appunto, dall'origine. Uno sguardo «convulsamente errante», avrebbe detto Kafka, precipitato nell'atopia irrequieta che lo tramuta in voce, grido, parola e segno di una interrogazione. Perché è di questo che si tratta, soprattutto, nell'opera di Jabès: di una domanda, di più domande, di un interrogarsi a partire dalla ferita dell'origine o di un interrogare, anche, l'origine della ferita. Grande metafora della scrittura l'opera di Jabès procede per strappi, approssimazioni metonimiche che avvicinano ali'Altro in una paradossale prossimità distante, in quel «pathos della distanza» di nietzscheana memoria dove I' Altro ·è incontrato in pieno offuscamento, nell'evidenza di una caligine che tiene separati e uniti il deserto e il Libro, che fa di ogni esperienza del Libro, di scrittura, un'esperienza del dèserto. e iò che si apre al centro del Libro, in un centro che è al tempo stesso sempre periferia, è quella che con Lévinas vorrei definire «desolazione primordiale»-e che Jabès definisce come pozzo dell'infanzia, ~unque come abi salità irrevocabile contenuta nel linguaggio, nella storia, nell'essere, in tutto ciò di cui il Libro costituisce l'infinito racconto. «Il mio racconto trae origine dal pozzo», troviamo scritto nel Libro delle interrogazioni. Come dire che il racconto, che è sempre discorso attorno alla ferita dell' Altro, trae origine da questa ferita, è il continuo av~ luogo di un nonluogo, l'invincibile originarsi di una assenza che è nel Libro come buco, beanza che fa di esso il Libro dell'assenza. È facile individuare in questo Abgrund, in questo pozzo abissale di cui la scrittura costituisce i bordi, la confluenza di sollecitazioni che vanno da Eckart a Heidegger, da Derrida a Lévinas, alla mistica ebraica. E sarebbe altrettanto facile, e credo invitante, leggere il parossismo della domanda nell'opera di Jabès in chiave strettamente ontologica, interpretando la question come una messa in questione dell'essere nella sua versio- c:, ne forte, nella sua versione di fon- ""i c::s <lamento, e dunque inscrivere la .5 parola di Jabès all'interno di quel- ~ lo sfondamento ontologico che, al- ~ meno a partire da Heidegger, fa in ~ -. • qualche modo problema. ~ In tema di ontologia debole, do- ·.::: ve all'essere come semplice pre- §- senza si contrapponga la sua non ~ esorcizzabile oscurità, che poi si- ~ gnifica accogliere il nascondimen- ~ to dell'Altro come origine di ogni l questionamento ontologico, sem- ~

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