Alfabeta - anno VII - n. 71 - aprile 1985

«Il ritorno alla Grecia» in il Mulino, n. 3, 1984 André Enegrén La pcnsée politique de Hannah Arendt Paris, Puf, 1984 Hannah Arendt The Lifc of the Mind a cura di Mary Mc Carthy New York, Harcourt, Brace Jovanovich, 1978 Lectures on Kant's Politica! Philosophy a cura di R. Beiner Chicago, The University of Chicago Press, 1982 I L'incredibile ritardo con cui l'opera di Hannah e Arendt è entrata nel dibattito filosofico italiano - nonostante che la traduzione di The Human Condition risalga al 1964 e quella di The Origins of Totalitarism al 1967 - è dovuto principalmente al carattere fortemente eterodosso della sua filosofia. «Una delle difficoltà del libro (Le origini del totalitarismo) - dirà una volta, replicando alle severe critiche rivoltele da Eric Voegelin - è il fatto che esso non appartiene a nessuna scuola e non usa quasi nessuno degli strumenti ufficialmente riconosciuti o caratteristici delle polemiche ufficiali» (Review of Politics, 6, gennaio 1953). Che proprio al nome di Voegelin (recentemente scomparso) quello della Arendt venga spesso accostato in un preteso rapporto di scuola dà la misura della difficoltà a cogliere, al di là di generiche etichette - la 'filosofia pratica', il neo-aristotelismo -, il nucleo irriducibilmente originale del suo pensiero. È vero che con la Arendt sia Voegelin sia Leo Strauss - anch'egli a lei comunemente avvicinato in nome del «ritorno alla Grecia», come suona il titolo del prezioso inserto del Mulino (marzo 1984) - hanno in comune significativi referenti biografici: la Germania, la cultura ebraica, l'esilio americano. Non solo, ma anche una specifica attenzione al problema della Modernità nel suo rapporto con l'Origine. È proprio esso, tuttavia, nei singoli termini e nel nesso che li lega - vale a dire il concetto di storia - a divaricare radicalmente le rispettive prospettive: e cioè a situare la Arendt fuori da quella tradizione filosofica che Strauss e Voegelin, sia pure per itinerari diversi, finiscono paradossalmente per convalidare. Le posizioni di Voegelin e Strauss, infatti, anch'esse tutt'altro che omogenee (la cultura di Voegelin è certamente più complessa e articolata di quella di Strauss, recentemente ripercorsa <::s .!:; dall'onesta monografia di R. Cu- ~ beddu, Leo Strauss e la filosofia ~ ~ politica moderna, Napoli, Esi, °' 1983), sono assimilate dal comune ....... ~ presupposto normativo che la crisi "'- della filosofia politica derivi li- §, nearmente dalla crisi della categoria di valore e dalla conseguente impossibilità di pronunciarsi sul ~ buon governo: da qui il rifiuto del ;;g, concetto weberiano di avalutativi- ~ tà, accusatoinsie1ne di positivismo Il pensieropolitico di HannahArendt e di storicismo, e dell'intera Modernità in quanto necessario ~- tibolo di tale esito. Contrv di 1,; • sia la riproposizione strau~. iana del diritto naturale classico sia la nozion vocgeliniana di 'ordine' assumono un netto significato restaurativo. Ricostituire il rapporto con la tradizione vuol dire per entrambi interrompere, invalidare, ('interdetto espresso dalla Modernità contro la metafisica platonica; ripristinare il significato simbolico del mito della caverna: e cioè la capacità, da parte della verità, di trascendere il piano della doxa. Che il riferimento alla trascendenza costituisca la chiave di volta dell'intero sistema è, del resto, testimoniato dal ruolo tradizionalmente fondativo che assume in esso il concetto, potenzialmente assai più articolato, di origine: origine come predeterminazione del dopo, suo necessario presupposto. La stessa definizione voegeliniana di coscienza, costituita a metà tra esistenza e trascendenza, non basta a dialettizzare un apparato concettuale fortemente appiattito sulla determinazione in ultima istanza del fondamento divino. La gnosi, connotante per Voegelin l'intera modernità, significa appunto la separazione dell'essere dalla coscienza del proprio fondamento. Recuperare un rapporto con la tradizione, allora, non può voler dire altro che ricucire questo strappo; ricostituire una catena deduttiva che dal pr6teron divino desuma la necessità dell'orQine politico. Come osserva anche Zanetti nel saggio voegeliniano del citato fascicolo del Mulino, il principio fondativo resta quello, semplice, di analogia: l'ordine politico va instaurato in analogia con quello divino. È infatti la trascendenza che assicura la compatibilità tra polis e anthropos: aprendosi alla trascendenza, acquisendone consapevolezza, conoscendola, l'uomo ordina convenientemente la città. Ma proprio ciò - la necessità di questo 'conoscere' - ridetermina il primato della filosofia-teoria su quella sfera dell'azione, dalla cui valorizzazione erano partiti sia lo stesso Voegelin sia, altrimenti, Strauss. 2. È questo il punto di più marcato distacco nei confronti della posizione della Arendt. Anche per quest'ultima, il filo della tradizione s'è da tempo interrotto. Anche per lei, come già per Tocqueville, «da quando il passato non proietta più la sua luce sul futuro, la mente dell'uomo è costretta a vagare nelle tenebre». Ma con la decisiva differenza che, rispetto al naufragio della Tradizione - la cui reRoberto Esposito c;ponsabilità, in ogni caso, è da lei !in. È fonte di libertà, di innovaattribuita proprio a quella formu- zione, di apertura, non di predelazione platonica del mito della ca- terminazione. Spazio indetermiverna riproposto da Strauss e Voe- nato dove forze, opinioni, soggetgelin in termini positivi-, la Aren- ti, si confrontano per dare vita al dt giudica insostenibile sia l'atteg- novum. giamento illuministico dell'abban- È chiaro come questa caratterizdono radicale, sia quello, restau- zazione impressa dalla Arendt al rativo, ispirato alla nostalgia del concetto di origine sia destinata a passato perduto. Al contrario, spostarne la definizione da un amproprio questo naufragio della tra- bito metafisico-antropologico ad dizione le sembra consentire un uno eminentemente politico. Se rapporto più vitale con il passato; per Platone l'inizio rimanda al dio uno sguardo diretto, immmediato, e per Agostino all'uomo, per la non deviato da alcuna sedimenta- Arendt esso non può che rimandazione successiva: «Perdendo la re all'azione politica. Il tempo deltradizione abbiamo perduto il filo l'inizio, il tempo della natalità, è il che ci guidava nel vasto dominio tempo della politica, se fare politidel passato. Ma questo filo era ___ ca significa sempre incominanche la catena che vincola- ciare, dare vita, inventava ogni generazione sue- re, qualcosa di nuovo. cessiva ad un determinato aspetto del passato. Forse soltanto adesso il passato si apre davanti a noi con inattesa freschezza, per dirci cose che nessuno finora aveva orecchie per ascoltare» (Tra passato e futuro, Firenze, Vallecchi, 1970, p. 104). Q uesta divaricazione dell'idea di tradizione da quella di passato, questo sdoppiamento interno al concetto di tradizione - su cui, sempre nel fascicolo del Mulino insiste anche Dal Lago in un lavoro che, insieme a quelli della Ritter Santini, costituisce quanto di meglio è stato scritto in Italia sulla Arendt - è a sua volta conseguente ad un altro spostamento semantico relativo al concetto di 'origine'. Come la Arendt sa bene, il carattere epifanico del- !' 'origine-inizio' era stato già ampiamente messo in luce sia dalla tradizione greca sia da quella ebraico-cristiana: «L'inizio è come un dio che salva ogni cosa finché dimora tra gli uomini», aveva detto Platone; «perché ci fosse un inizio fu creato l'uomo», aveva risposto Agostino. Ma è appunto rispetto a questo quadro che assume rilievo la torsione concettuale operata dalla Arendt. Detto in breve: fuori e contro il mito platonico della pacificazione originaria, l'inizio non è il luogo dell'unità, della compattezza, dell'omogeneità, ma quello della molteplicità, della differenza, del conflitto, È tutto il còntrario di quel presupposto trascendente a cui, sia pur diversamente, guardano Strauss e Voegea questo punto di vista - che richiama direttamente in causa Machiavelli (contro Hobbes) - la politica si emancipa da qualsiasi presupposto normativo e si afferma in tutta la sua straordinaria incondizionatezza. La sua capacità fondativa - 'fondare', 'iniziare', 'costituire' esprime il senso e il destino della politica - non è a sua volta fondata da nulla che le sia esterno e anteriore. Questo intende André Enegrén quando, nella sua bella monografia sulla Arendt, parla di «fondation sur le sans fond»: «le commencement - au sense d'Anfang et d'emprise plutòt qu'au sense de début chronologique - est à lui meme son principe directeur» (p.189). 3. Ma su questo punto va evitato un possibile fraintendimento. Quest'idea dell'agire politico come «fondazione senza fondo» non va in direzione di un decisionismo assoluto, non significa integrale occasionalismo. Se la Arendt rigetta, come metafisica, la pretesa - straussiano-voegeliniana - di ancorare la vita activa a qualsiasi presupposto normativo di carattere trascendente, con la stessa nettezza rifiuta qualsiasi scorciatoia decisionista. Questo dato, che implicitamente emerge da tutto l'insieme della sua opera, acquista piena evidenza soprattutto nelle Kant Lectures recentemente pubblicate, col seminario sulla Critica del giudizio, da Ronald Beiner. Com'è noto, questi scritti anticipano il tema - quello del 'giudizio' . - della terza sezione, purtroppo mai scritta per l'improvvisa morte dell'autrice, che, nel progetto inizale di· The Life of the Mind, avrebbe dovuto far seguito alla parte sul 'pensiero' e a quella sulla 'volontà'. Proprio quest'ultima, infatti, si chiudeva nel segno di una progressiva reticenza a legare il senso della politica al mondo 'assoluto' della volontà, alla sfera individuale della decisione. La volontà, in quanto necessariamente singolare, non è, né può essere, costitutiva di libertà. Essa sfugge al 'politico', ne trascende inevitabilmente l'orizzonte, perché, nonostante la sua forza decisionale, o meglio proprio per essa, deve restare necessariamente individuale. Perché possa decidere, realizzarsi come volontà, superare l'impotenza, effettuarsi, essa non può farsi plurale, ammettere pluralità. Ma la pluralità - insieme alla natalità e alla libertà - è la condizione stessa della politica, sia come dialogo sia come conflitto. E allora? Come superare quello che, oltre Beiner, anche J. Glen11 Gray (The Abyss of Freedom and Hannah Arendt, in M. Hill, a cura di, The Recovery of Public World, New York, St. Martin Press, 1979) chiama l'impasse del willing? La risposta della Arendt resta consegnata alle due enigmatiche epigrafi che avrebbero dovuto introdurre la terza parte, mai scritta, della sua ultima opera. Certo è che essa va cercata nella caratterizzazione sociale che la Arendt individua nella facoltà del 'giudizio'. È questa che lo 'salva' dall'impoliticità della decisione. Se il principio del pensiero è il dialogo interiore e il principio della volontà la singolarità, quello del giudizio è la pluralità. Il suo spazio d'elezione non è la verità, né la decisìone, ma quell'opinione (doxa) così duramente attaccata da Strauss e Voegelin. Esso si esprime, produce senso, proprio attraverso la diversità, e il conflitto, delle opinioni. Da qui la sua dimensione costitutivamente politica, la sua resistenza categoriale alla spoliticizzazione moderna. Lasciamo per ora impregiudicato il problema se la Critica del giudizio kantiana si presti o meno alla ·estroflessione politica cui la conduce la Arendt. Quello che è più rilevante è che il riferimento alla facoltà di giudizio apre una possibilità di decifrazione dell'idea di 'fondazione senza fondo', ovvero di un'autonormatività della politica che non scivoli nel puro decisionismo. E infatti, se neanche il giudizio può fondare aprioristicamente, predeterminare, l'azione politica, può, tuttavia, a differenza del pensiero e della volontà, fondarla retrospettivamente: appunto giudicando il passato. È questo il modo, l'unico positivo, attraverso il quale il passato può ritornare fuori dal vincolo condizionante, dal tradimento, della tradizione. Che la storia non abbia un senso predeterminabile in anticipo non significa che essa non possa essere giudicata a posteriori. Quando questa capacità di ricordare e giudicare viene meno, allora la tradizione inghiotte anche il passato: la sua testimonianza e il suo ammonimento.

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