Alfabeta - anno VII - n. 71 - aprile 1985

Editoriale Jacques Maritain a cura di Francesco Viola Nove lezioni sulla legge naturale Pagine 200 Lire 16.000 Giorgio Agamben, Giacomo Contri, Gianfranco Dalmasso, Jacques Derrida, Emmanuel Lévinas, Romano Madera, JeanLuc Marion, Carlo Sini Di-Segno La giustizia nel discorso a cura di Gianfranco Dalmasso Pagine 256 Lire 21.000 frank Lloyd Wright Una autobiografia Presentazione di M.A. Crippa e M.L. Randolin Pagine 544 Lire 35.000 Gonzalo Torrente Ballester Don Juan prefazione di Paolo Mauri Pagine 380 Lire 22.000 Aleksandr Zinov'ev La casa gialla Pagine 704 Lire 28.000 Arne Eggum Munch La vita e le opere Pagine 304 illustrate a colori e 6/n Lire 98.000 I Jaca Bo()k I Via A. Saffi 19 20123 Milano Provinciadi Roma Assessorato alla P.I. e alla Cultura Associazionedel Metateatro in collaborazione con la RAI TV presentato al PICCOLO ELISEO (Roma) SULLE TRACCE DEL MODERNO (Lo spettatore critico) da un'idea critica di Giuseppe Bartolucci venerdì 19 aprile MASSIMOCASTRI con Ettore Capriolo martedì 23 aprile CARLOCECCHI con Italo Moscati venerdì 26 aprile LA SCUOLAROMANA (Perlini, Di Marca, Nanni, Vasilicò) con Franco Cordelli martedì 30 aprile LA POST-AVANGUARDIA I GIOVANIMIMI con Giuseppe Bartolucci venerdì 3 maggio SULLETRACCE DEL MODERNO/ MODIFICAZIONI con Achille Bonito Oliva, Massimo Cacciari, Filiberto Menna, Mario Perniola, in collaborazione con la rivista FIGURE, Teoria e critica dell'arte, ed. Kappa, Roma Il «Cfr» (confronta) è la sigla dei rimandi nella ricerca teorica, critica e saggistica. In questo giornale la sezione indicata «Cfr» è la sola serie di recensioni in senso proprio, e raccoglie dunque le scelte di lettura dei direttori e collaboratori frequenti del giornale. Noi non ci fidiamo più della sistematica delle varie discipline, e usiamo qui, riproponendo più fitto e continuo il nostro «Cfr» bibliografico, vari modi di approccio (recensioni e notizie, soggetti, veline delle riviste, stato dell'arte, pagine degli editori, ecc.). I facitori d'arte Gilio Dorfles Invece di trastullarsi con idee (o ideol0gie) spesso stantie, come è il vezzo di molti critici europei e soprattutto nostrani, Germano Celant ha avuto e ha il grande merito di mirare direttamente al cuore dei problemi artistici e sviscerarli nel loro costruirsi, ossia nel loro addentellarsi col mercato, con la situazione economica e politica, e nel loro successivo trasformarsi. È per questa ragione che un libro come gli Artmakers (i «facitori d'arte», contrapposti agli «artisti», idealizzati e idealizzanti, d'altri tempi) raggiunge immediatamente il suo scopo: quello cioè di offrire una visione netta e precisa, senza fronzoli e sbavature, di quell'unicissima cittadella dell'arte attuale che è Soho - ossia quel quartiere del down-town newyorkese a sud di Washington Square -, diventato ormai il vero centro di potere, di diffusione, di concentrazione, dell'arte dell'Occidente. La lunga frequentazione da parte dell'autore degli Stati Uniti gli ha permesso di esaminare le successive tappe di quel fenomeno ben noto che ha visto la trasmigrazione, a partire dal 1970, delle gallerie d'arte di punta (come Emmerich, Castelli, Sonnabend, Weber) dalla zona tra la 52• e la 77• strada a quella del Village. E proprio attraverso queste tappe e questa concentrazione estrema in un'area così limitata che si giustifica il perché del successo incontrato da quegli artisti e galleristi operanti nella zona e non altrove. Un successo - è triste e sconcertante constatarlo - quasi sempre dovuto, più che a un ipotetico e ormai mitico «valore», a una ragione decisamente manageriale: viene accettata e venduta, :disputata a prezzi crescenti, quella merce (più o meno artistica) che gode del marchio sohoiano. Non riconoscere questo prevaricare della mercificazione sulla componente assiologica sarebbe soltanto un atteggiamento da disonesti o da ingenu1. Ma, quello che costituisce il merito maggiore, non solo del primo saggio del libro («Artmakers», appunto), .ma anche degli altri (precedenti nel tempo e che in buona parte ci erano noti, come quello sul «congelatore pop», sulla Body art; sulla Minimal, Conceptual e Land art; sull'arte californiana, e finalmente sugli ultimi sconcertanti fotografi Witkin e Mapplethorpe) è la loro particolare e, come dissi all'inizio, insolita per l'ftalia «fattualità». Celant non si gingilla mai con schemi, il più delle volte ipotetici, per spiegare il perché dell'avvento d'una corrente artistica, né elucubra vane e apocalittiche visioni di morti artistiche o di rinascite impossibili; la sua presa di coscienza del mondo dell'arte, essendo sempre diretta e «factual», gli consente di dare ai suoi scritti un taglio piuttosto anglosassone che molti nostri critici dovrebbero imitare, col vantaggio di chiarire meglio le segrete vie del destino artistico odierno anziché indulgere in vane e vacue argomentazioni su quello che l'arte non offre e non è. Germano Celant Artmakers Milano, Feltrinelli, 1984 pp. 190, lire 50.000 Valéry e Mallarmé Paolo Bertetto Se è vero che nella relazione Mallarmé-Valéry si definiscono esemplarmente la genesi e l'essenza della grande poesia della modernità artistica, la lettura degli scritti dedicati a Mallarmé da Valéry consente di_ accedere all'autocoscienza medesima di un processo di sviluppo e di reinvenzione, fondamentale per la letteratura contemporanea. Non è soltanto una bloomiana eventuale «influenza poetica», senza angoscia, magari, che viene qui delineata dall'interno: è, proprio, un'avventura mentale su strutture sovra personali, su un mistero della scrittura destinato a essere iperproduttivo; è l'infinita risonanza di una filiazione che cerca il proprio pensiero. Così la riflessione e l'evocazione di Mallarmé da parte di Valéry è una sorta di osservazione di un impossibile che trascende Mallarmé, di ricognizione su un'attività assolutamente innaturale, di contemplazione del processo di formazione di un'intensità pura che traccerà infiniti percorsi. Quello che Valéry vede e racconta è insieme un esercizio raffinato di lavorazione del Verbo, e una visione teorica delle nuove condizioni di esistenza della letteratura. E quello che descrive è la nuova figura di «poeta pensante» che Mallarmé rappresenta esemplarmente e che contemporaneamente Valéry sta perfezionando egli stesso come figura fondamentale del poeta novecentesco, prima di Eliot e di Pound, di Benn e dei teorici dell'avanguardia. I temi classici dell'interpretazione di Mallarmé e della poesia pura sono poi definiti per primi da Valéry (magari sulla linea della medesima teoria di Mallarmé.): la 'religione' della letteratura, ma anche il «Bello che fa disperare»; l'oscurità del testo e la sua musicalità infinita, ma anche «la sorpresa, l'istantaneo scandalo interiore e l'abbaglio», che la poesia autentica produce nel lettore; la ricerca infinitamente paziente della perfezione, della forma assoluta, ma anche il carattere artificiale della poesia e l'elaborazione di un testo attraverso la progettazione di una sorta di struttura architettonica, realizzata mediante l'installazione di «paletti indicatori sintattici e di qualche accordo verbale essenziale»; la teorizzazione dell'autonomia del linguaggio poetico dalle manifestazioni dell'esistenza e l'idea, fondamentale, che l'unico destino dell'universo è «quello di essere finalmente espresso», come se il Verbo non si ponesse «all'inizio, ma alla fine di ogni cosa», fosse l'esito essenziale ed autentico di ogni elemento dell'esistente. Ma accanto agli aspetti critici e teorici della riflessione di Mallarmé, il libro, curato da Sandro Toni e intelligentemente introdotto da Gianni Toti, presenta molte pagine di testimonianza e di memoria. Valéry racconta con particolare tensione i suoi incontri con Mallarmé, il suo estremo rigore morale, la subordinazione sistematica di tutta la sua vita alla ricerca poetica. Evoca il momento in cui Mallarmé gli lesse il Coup de Dés, l'ultima visita a Mallarmé, in una casa di campagna a Yalvins, il suo «gabinetto di lavoro», una passeggiata tra i campi, un'osservazione paesaggistica. Una vibrazione sottile attraversa queste pagine, in cui l'ammirazione e la malinconia si mescolano con la riflessione. «Perdevo il senso della differenza tra essere e non-essere. La musica, a volte, produce questa impressione, che va aldilà di tutte le altre. La poesia, pensavo, non è anche il gioco supremo della trasmutazione delle idee?». Paul Valéry Mallarmé a cura di Sandro Toni Bologna, Il Cavaliere azzurro, 1984 pp. 198, lire 10.000 Patocenosi Alberto Capatti Mirko D. Grmek, «directeur d'études» di storia della medicina e delle scienze biologiche presso l'Ecole Pratique des Hautes Etudes di Parigi, raccoglie in Le malattie ali'alba della civiltà occidentale alcuni contributi sul favismo (un saggio pubblicato in History and Philosophy of the Life Sciences, II, 1980), sulla malaria (Annales E. S. C., 1975) e sul corpo ippocratico (comunicazioni presentate in occasione dei «Colloques Hippocratiques», di Parigi e di Mons, del 1977 e 1978). Ma l'impianto dell'opera può considerarsi inedito, costituendo un approccio globale e interdisciplinare al problema della patologia nella Grecia antica. Dopo una rassegna sommaria dei riflessi della realtà patologica nelle fonti letterarie greche, Grmek illustra il recente apporto della paleopatologia e della paleodemografia all'individuazione di quella che egli definisce, con un neologismo, patocenosi (da intendersi nella triplice accezione di: a) insieme degli stati patologici che sono presenti all'interno di una determinata popolazione; b) frequenza e distribuzione delle malattie; c) equilibrio delle malattie). Il proposito è quello di tracciare una mappa, diacronica e geografica, delle affezioni, partendo non dalla letteratura scritta, ma dai rep~rti ossei che le odierne tecniche di lettura rivelano ricchi di informazioni sulle malformazioni congenite, le avitaminosi, le infiammazi~ni reumatiche. La paleodemografia, che fonda anch'essa le proprie ricerche su materiali osteologici e archeologici, fornirà poi elementi di valutazione complementari sulla durata della vita, la statura, gli effetti della nutrizione, l'abrasione dentaria. Questo quadro è completato dallo studio della varietà genetica degli abitanti della Grecia. A partire da tale base metodologica, l'autore sviluppa una analisi che tocca ·le principali infezioni ed epidemie, dalle infiammazioni purulente comuni alla lebbra, dalla tubercolosi alla malaria. Il raffronto costante fra letteratura medica antica, analisi osteologica e semeiotica moderna, diventa una vera e propria disamina del sistema diagnostico ippocratico, e dei problemi linguistico-filologici che esso è venuto ponendo alla schiera dei suoi interpreti. La conseguenza è quella di sottoporre a un esame attento, caso per caso, il rapporto fra sintomo e segno linguistico, in una lettura che oscilla fra reperto osseo e corpo ippocratico, fra descrizione clinica antica e riformulazione odierna. Gli ultimi capitoli dell'opera riportano l'attenzione a Ippocrate e costituiscono un commento di alcuni passi (tratti dal Libro primo e dal sesto delle Epidemie). A conclusione, il dialogo fra un filologo e un medico (Fernand Robert e Mirko D. Grmek) sancisce lo straordinario interesse dell'osservazione medica greca (nel Libro settimo delle Epidemie) in grado di trascrivere «fatti talora altrettanto istruttivi quanto quelli di una stanza d'ospedale». Mirko D. Grmek Le malattie all'alba della civiltà occidentale. Ricerche sulla realtà patologica nel mondo greco preistorico, arcaico e classico Bologna, il Mulino, 1985 pp. 600, lire 40.000 De America Umberto Curi Polacco di origine, approdato negli Stati Uniti venticinque anni fa dopo alterne vicende, sul piano scientifico ed esistenziale, Paul Watzlawick deve la sua notorietà di studioso soprattutto alle ricerche sulla comunicazione umana, condotte presso l'Università californiana di Palo Alto. Come saggista brillante, egli si è invece fatto conoscere per il gustoso trattatello /struzivni per rendersi infelici, tradotto un anno fa presso Feltrinelli. Lo stesso editore pubbliça ora un testo comparso originariamente in tedesco nel 1978, e poi 'aggiornato' sei anni dopo, mediante il quale l'autore si propone di «presentare» l'America al letto• re europeo, anche qui allegando minuziose «istruzioni per l'uso». Strutturato intenzionalmente come una guida turistica, con tanto di spiegazioni dettagliate sulla valuta e gli alberghi, sulla pronuncia e le unità di misura, sui ristoranti e le norme del codice stradale, il volumetto ha il pregio di rovesciare metodologicamente i criteri di analisi e di valutazione, con i quali per lo più ci si accosta all'America. Il nuovo continente è argutamente descritto non come il regno del «meraviglioso» e dell'ultramoderno, né come la terra dove dominano l'efficienza, l'opulenza e il progresso tecnologico, ma, al contrario, come un territorio collocato ai limiti della civiltà, destinatoa suscitare lo stupore del visitatore straniero per la stravaganza o l'irrazionalità dei costumi prevalenti al suo interno, piuttosto che perla grandiosità delle sue realizzazioni. L'America di cui parla Watzlawick assomiglia - non casualmente - all'Egitto di cui narra Erodoto alla Gallia descritta da Cesare: lo «stupore» indotto nel lettore scaturisce in tutti i casi dal rilevamen• to della diversità di usanze, comportamenti, linguaggio, rispettoa un «modello» - nel caso di Watzlawick, quello mitteleuropeo - as,; sunto come paradigma di civiltà. Come un nuovo Cristoforo Colombo, l'autore approda in America e scopre - rneravigliandosent - il singolare modo di vita della popolazione indigena: una lingua senza regole, infarcita di esp

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