Alfabeta - anno VII - n. 70 - marzo 1985

te su un controtempo. Come nel nostro caso sulle due parole ma né. Il che, per una o due sillabe, dà luogo a una poesia a più voci, per non parlare di «polifonia». Non è un caso se la parola polifonia mi viene in mente. André Gide fu uno dei primi a segnalare che, in Africa Nera, il canto popolare è per definizione a più voci. La verità è che una volta di più si tratta di un elemento caratteristico che si estende a tutto il continente. Tanto è vero che l'anno scorso, ascoltando dei canti berberi editi in cassette, ho constatato con gioia che erano a più voci, con accompagnamento di terza e di quinta, come nell'Africa subsahariana. Al colmo della delizia, ho anche scoperto un canto polifonico nelle stesse cassette, che mi era stato segnalato come un tempo esistente nello Yemen, nella penisola araba. E ciò non mi aveva sorpreso. Infatti, prima dell'arrivo, nel IV millennio avanti Cristo, degli Indoeuropei e dei Semiti, l'Europa del Sud e il Vicino Oriente erano abitati dalle stesse popolazioni dell'Africa dell'emisfero settentrionale. Ecco perché si trovano, ancor oggi, canti popolari polifonici nei villaggi arretrati di certe isole mediterranee, tra cui anche la Corsica, la Sicilia e la Sardegna. Ma occorre tornare alle poesie ginniche per finire di illustrarne la complessità. Infatti queste poesie possono essere, volta a volta, cantate e salmodiate. Quando sono salmodiate, come è il caso del precedente componimento wolof, ciò che conta nel ritmo non è il numero delle sillabe, come nella poesia francese classica, per fare questo esempio, ma il numero delle sillaO Nel recensire le abitudini socio-linguistiche di Van- • ni Fucci, Pasolini notava come esse fossero probabilmente addebitabili «a un trauma a noi ignoto di quella turbata e irriducibile anima pistoiese. Un trauma che però noi potremmo anche riconoscere attraverso i nostri strumenti contemporanei di diagnosi (il marxismo e la psicoanalisi), ma che Dante non riconosceva tuttavia meno o peggio di noi: e che quindi descriveva per quello che era ... ». Il passaggio si trova in Mala mimesi, appendice dello scritto La volontà di Dante ad esserepoeta, del 1965, poi conferito nel volume Empirismo eretico. Non è arbitrario dire che qui Pasolini parla in casa - o causa - propria; ma conta più sottolineare il legame fra trauma (evento) e linguaggio (atto di significazione). È sulle modalità del manifestarsi di tale legame nel testo che intendo fermarmi, anche se in forma sommaria. Non si tratta, beninteso, di aprire ancora una volta dietro i libri di Pasolini il ventaglio di una storia psicologica, come è stato fatto troppo spesso, con risultati volentieri devianti. Resta esclusa la trouvaille biografica o peggio ancora la classificazione nosografica, da un excursus che vuole situarsi esclusivamente sul piano dell'economia della significazione. La domanda avanzata è, nell'insieme, questa: attraverso che processi lessicali, sintattici, prosodici, metaforici, di «posizione» - insomma: attraverso quale economia (proprio nel senso che il termine assume in Freud), il testo pasoliniano abreagisce al ripresentarsi del trauma? Deducendo, nemmeno troppo per scherzo, da be accentate. Del resto era questo il ritmo non solo dell'antica poesia egiziana, ma anche dell'antica poesia semitica come dell'antica poesia germanica. Ecco, ad esempio, come bisogna accentare il già citato componimento ginnico: «Daankiim, ngel né mfeeka I Lam la mi caalaa yuube». Vorrei avviarmi con lentezza alla conclusione, dicendovi ciò che la poesia africana, quella tradizionale come quella moderna, potrebbero dare, oggi, _alla poesia mondiale. Dunque, dopo che l'Asia, coi Sumeri, poi l'Europa, coi Greci, hanno preso dalle mani dell'Africa la fiaccola della civiltà umana, il nostro continente ha frequentato la scuola dei suoi due vicini. Tuttavia, da ciò che io chiamo la Rivoluzione del 1889, segnata da Henri Bergson e dal suo Saggio sui dati immediati della coscienza, le lettere e le arti sono molto cambiate. Di nuovo si è assegnato il primato alla ragione intuitiva sulla ragione discorsiva. Di nuovo, poiché i Greci, compreso Platone, se non anche Aristotele, lo facevano già. È questa rivoluzione del 1889 che ha permesso all'Africa di rientrare nel concerto delle nazioni, in quel XX secolo in cui si elabora la «Civiltà dell'Universale», per parlare come Pierre Teilhard de Chardin. Sono i suoi valori, più precisamente quelli della sua estetica, che hanno, nelle arti plastiche, influenzato le scuole francese e tedesca, il Cubismo e l'Espressionismo, come mi diceva Pablo Picasso. Ed è nella stessa epoca che la musica e il canto negro-americani, venuti dall'Africa, il jazz, gli spirituals e i blues invadevano l'Europa e il mondo, portandovi non solo nuove tecniche d'espressione, ma anche una vita spirituale nuova. E la poesia, benché troppo spesso lo si ignori, non era da meno. A questo scopo vi rinvio alla tesi di dottorato di un francese dell'Università di Dakar, Jean-Claude Blachère. È uno studio sulla poesia surrealista e si intitola Il modello negro. La realtà, ancota una volta, è che nel XX secolo l'Africa intera, dal Cairo al Capo di Buona Speranza, è tornata agli avamposti ·della civiltà umana, in alcuni suoi campi essenziali. Non si tratta di scienza, ma di arte letteraria, e, in questo ambito, dell'arte originaria, dell'arte maggiore che è la Poesia, vale a dire la Creazione nel senso etimologico della parola. Ciò che conta ora, ed è la mia conclusione, è che nella Civiltà dell'Universale che sarà quella dell'anno 2000, la Poesia riacquisti la sua centralità, tornando ad essere parole, canti e danza. E in questa direzione, nel Sénégal, nel quadro di attività del nostro «Teatro nazionale Daniel Sorano», si svolgono serate poetiche durante le quali i 1200 posti della sala sono tutti occupati. Questo perché le poesie, anche in francese, sono accompagnate da uno strumento musicale, quando non sono cantate o accompagnate da orchestra. E sono ritmate dai corpi, talvolta anche danzate. È del resto alla poesia africana che si ispira Maurice Béjart, il coreografo. Non è un caso se la sua troupe si chiama Balletto del XX secolo. È che anche Béjart ha scelto di creare una danza integrale, che è poesia che unisce, in simbiosi, la parola, il canto e la musica alla danza. Non è un caso se il padre di Maurice Béjart, Gaston Berger, il fondatore della Futurologia, una nuova scienza umana, era un meticcio franco-senegalese, nato in Africa. Gli antichi parlavano dell'Africa portentosa, che, sempre faceva nascere, aliquid navi, qualcosa di nuovo. Io mi auguro, terminando, che questo congresso, che si tiene nel continente che fa della poesia l'arte maggiore, perché integrale, sia, per la fraternità dei poeti, il segno di una rivoluzione poetica: di un aliquid navi. Note (Traduzione dal francese di Maurizio Cucchi) * È questo il testo della relazione letta da Léopold Sédar Senghor in occasione del VII Congresso mondiale dei poeti, svoltosia Marrakechdal 14 al 19 ottobre 1984. Dopo essersi rivolto al Segretario generale del convegno (Mimmo Morina), e a tutti i presenti, Senghor aveva fatto precedere il contenuto vero e proprio della sua relazione da queste parole: «Così, dunque, il Segretariato permanente e il Comitato internazionale hanno deciso di tenere in Africa, inMarocco, il nostro settimo Congresso mondiale, sotto l'alto patronato di sua Maestà Re Hassan Il. Vorrei, in primo luogo, a nome di tutti i poeti africani, dire quanto ci tocca l'onore fatto ali'Africa-Madre, poiché essa è stata, ed è ancora, essenzialmente una terra di poesia. Non dimenticherò di rivolgere il mio ringraziamento a Sua MaestàRe Hassan II, che oggi ci accoglie.A mio avviso, e io lo conosco bene, egli è uno dei più colti tra i capi di stato africani e in tutti i campi, soprattutto però nella poesia, e fa stanziare circa un terzo del budget n·azionaleall'Educazione, alla Formazione e alla Cultura. Il suo paese è uno di quelli che lavorano attivamente per favorire la simbiosi dell'Africa araboberbera e del!'Africa negro-africana. Pasolinip, oesia un titolo di Pasolini stesso (Trasumanar e organizzar), la questione si pone fra, il traumatizzar e l'organizzar, ossia investe i modi in cui il discorso poetico opera il rammendo o la compensazione del trauma. Un indizio supplementare che così facendo non si ricorra a nozioni estranee a Pasolini lo esibisce il bel saggio (pasoliniano) su Penna, che per buona parte--fuota intorno alla percezione di ';ma «qualità deformante» indott~' da Giuliano Gramigna «un trauma che sfugge a ogni diagnosi ... ». 1. Le carte d'appoggio di cui mi servo sono abbastanza casuali, nel senso di schivare ogni pretesa sistematizzatrice o esaustiva. Esse implicano, nei primi esempi, soltanto la traccia del trauma, il suo funzionare in absentia; altre lo dichiarano con eccesso di esplicitazione o addirittura lo agiscono, come quel testo;Una disperata vitali-_ Boston 2, 1974 tà, che sembra addirittura proporsi, nella stessa disposizione tipografica, in una sorta di acting out. Ho scartato la galleria di reperti fin troppo esposti che è L'usignolo della Chiesa cattolica. Prendo invece il poemetto che apre La religione del mio tempo, intitolato La ricchezza, del 1955-59. La sua prima sezione anticipa e condensa, "-ossia anticipa come un già convenuto la lesione in profondo che i segmenti successivi del poemetto «Il mio desiderio, in questa sede, è essenzialmentedi parlare del sensoche deve avere questa nostra riunione di poeti nella terra in cui l'uomo emerge dall'animale. Infatti, il primoCongresso internazionale di Paleontologia umana, che si è tenuto a Nizzadal 15al 21 ottobre 1982, ha confermato che l'uomo era emerso dall'animale in Africa, circa due milioni e mezzo di anni fa, e che il nostro continente era rimasto agli avamposti della civiltà umana fino all'Homo Sapiens. Io dico: fino alla creazione, in Egitto, con la scrittura, della prima civiltàumana degna di questo nome. Come ha scritto il paleontologo e filç,sofoPierre Theilhard de Chardin: 'E in Africa( ... ) che si può osservare, nel miglioredei modi, il formarsi, crescere, partire e ritornare, fino alla saturazione delle terre abitabili, la grande ondata dei popoli, delle tecniche, delle idee'. «Vorrei subito sottolineareche, al di là delle diversità esistenti tra i molti popoli del!'Africa, c'è fra di loro una profonda unità. La divisionein AraboBerberi e Negro-Africani, in Bruni e Neri è relativamente recente e, in parte artificiale, come provano le tavole numeriche dei gruppi sanguigni, che, soli, costituiscono la razza. Va detto soprattutto che i fondamentidelle loro diverseculture continuanoad animare, nel senso etimologicodella parola, la poes_iascritta di oggi». (1) E chiaro che, alla semplice lettura sullapagina, queste sonoRernoi «ripetizioni che si ripetono». E nell'esecuzione orale che lo stessoricorrente Dege le! può - o deve - ognivolta risultare variato. (2) Qui la ripetizione che varia è da cogliersi, invece (anche) sulla pagina, anche nella traduzione (che nell'originale di Senghor era, ovviamente, in francese). Si vedano il «Tutte» («tutti») del 2°, 3° e 4°verso, o il «più»e il «verso»nelle parti seguenti del testo~ (3) La t,_raduzionle tterale sarebbe «E vero». E stata leggermentemodificata nel senso per evidenti ragioni di rjtmo (con preferenza per la soluzione«Ecosì», rispetto a un più letterale, ma improbabile «Vero è»). Lo stesso Senghor, nel testo completo, traduce «C'est bien vrai!»; quando riprende a parlare di questa poesia, nel corsodella sua relazione, dice più fedelmente (si suppone... ) «C'est vrai!». si affanneranno a denominare - mentre qui resta un buco o risucchio inarticolabile se non per accumulo di metonimie; e condensa, ossia affolla stilisticamente mosse e suture che verranno moltiplicate con insaziabilità nelle sezioni successive. La lesione è ufficialmente deferita al personaggio che si inoltra, con stento e imbarazzo, fra gli affreschi di Piero della Francesca in S. Francesco d'Arezzo: trauma di estraneazione, di vedersi nel luogo dell'Altro. Il rilievo «con le sue rase I mascelle d'Òperaio» sembra collocare l'opposizione a livello sociologico, o meglio classista; ma il sintagma «quasi, indegno, i ne avesse turbata la purezza» sconvolge di colpo lo schema, per un pùro momento autobiografico di proiezione e di autodenigrazione, appunto pasoliniano ... I dipinti di Piero sono una lingua che insieme enuncia e copre qualche cosa, cioè una separazione primaria, già avvenuta altrove, un altrove che si ripete, uguale e diverso, qui ed ora, nell'atto in cui l'«umiliato sguardo» percorre e distingue i segni pittorici senza tuttavia renderseli familiari. In coerenza con l'implicazione tematica vedere/vedersi, questa sezione del "t- poemetto produce ciò che chiame- <::s rei un sogno iconografico, mo- .s mento che evidenzia la funzione ~ riorganizzativa di ciò che lo strap- ~ po ha catastrofizzato, assunta dal ...., lavoro simbolico. Vi si insedia e ~ (::! E qualcosa di simile a un'allucinazione, nel senso attribuito da Lacan di «passione del soggetto». ~ 2. Il centro è l'affresco intitola- ~ to Il sogno di Costantino: «notte, che acerba e senza stelle Costanti- ..(:) ~ (::!

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