Alfabeta - anno VII - n. 70 - marzo 1985

e oluber «colat umbras», Anguis perché dà angoscia, Serpens in quanto «serpit», Draconta e Basilisco, e mentre la Cocatrix non era che una «fantasiageroglifica» (Sir Thomas Browne), alcuni erano in grado di uccidere con sguardi velenosi: non erano infatti sospesi nell'aria gli «atomi della peste»? La prima analogia è quindi con la vista, con la difficoltà del vedere. Nell'iconografia di Baj questi serpentelli viaggiano sospesi nella spazio, nel vuoto, la dominante è l'assenza, e sembrano funzionare da traccia, da raccordo, ma quasi sempre non sono più che segmenti, vermiciattoli (worms, con lettera minuscola, senza allusioni insistite), guizzi e bagliori con una certa irridente allegria. Collegati al Gran Simbolo Centrale, vero e proprio motore apocalittico, come reperti di membra gli escono dagli orecchi o dalla bocca. Gli organi dell'udire e del parlare, con un forte sospetto di circolarità, indizio di emissione e ricezione nel cui meccanismo ogni informazione è bloccata perché riflessa ogni volta su di sé. Il che potrebbe indurre a interpretare il verbale come nonsensical, lasciando solo al visibile (alla pittura?) il compito di dire. Di dire che cosa? Che il senso del rictus terribilis frequentemente avvertito come un gioco di provocazioni critiche arbitrarie, una specie di divertissement esterno, «estetico», è un metodo ragionato di straniamento (non è lo straniamento il problema) che nello spostare l'attenzione dalla Bestia simbolo alla betise quotidiana mostra che l'oggetto, il soggetto: l'apocalisse, non è altrove. Fino a mutarlo da paura incombente di un nemico esterno a presenza di noi sempre deviata. Fra le diverse posizioni che possono pensare che Baj abbia assunto in una pratica di anni, incrociando con indifferenza ma con coerenza certe stupefazioni lucreziane (malattia compresa: «quella forza morbosa capace di diffondere le sue mortali devastazioni fra gli uomini e i greggi») con argomentazioni atomistiche e relativistiche mutuate da Einstein e interpretate da Jarry, fino a comporre U-suo festum stultorum con i più lontani e vagantiframmenti e innesti culturali in funzione dialettica, e quasi sempre «merdre» la conclusione (felicemente transitoria, tanto provata e in certo senso obiettiva quanto insoddisfacente); fra i diversi momenti della sua pittura che sembra esporre in ogni occasione un rovesciamento di valori stabilizzati per alludere alla celebrazione di qualche possibile rito di rinnovamento, la posizione costante sembra potersi dare come metodologia schizofrenica che nel denunciare la scissione, la «mancanza», l'assume a strumento. Diagnosi e cura coincidono. Quanto al congegno, e ali'effetto, penso a Laing: «Non sono tenuto a divertirmi nel cercar di capire perché non si divertono. Ma vi è perfino del divertimento nel far sembrare loro che non mi diverto a scoprire perché non si divertono». Per quanto il riso possa lasciar intendere una scettica distanza dagli eventi, Baj non si strania più di quanto lo straniamento consenta. O, per esserepiù preciso, in quanto osservatore e sperimentatore (qui, sia chiaro, l'avanguardia come istituzione storicizzata di un metodo stilistico non c'entra) non finge di escludere che quanto osserva e sperimenta non sia in grado di osservare e sperimentare. Ed è inCongetf!!p! erBai fatti una sorta di strategia dell'esperienza quella a cui si assiste. Per questo la pittura di Baj è 'critica', non banalmente didattica e descrittiva. Non discettasulla violenza, per esempio, ma ne è investita, e la traduce in sé. Umberto Eco rintraccia almeno tre sensi di lettura del pensiero apocalittico: quello della disperazione, destinato a uno sbocco reazionario; quello della speranza messianica, avviato a un superamento; e quello della denuncia critica. A Baj viene assegnata questa terza posizione, che non è, comunque, passiva, di pura osservazione. Che Hyeronimo sia pazzo di nuovo non c'è dubbio, e il «di nuovo» lascia trapelare la ciclicità dell'evento come lascia intendere un inevitabile avviluppamento nel ciclo. Al punto critico si potrà affermare, denunciati i fatti, che proprio con quei frammenti rimasti si può procedere a puntellare le rovine. Frammenti che sono per Baj le autocitazioni e i d'àpres, una specie di risistemazione (momentanea) dello speriment(;Jo e del perduto. Ma fra il «già» e il «non ancora», fra la catastrofe attuale e l'attesa della catastrofe come momento di superamento non c'è fine, c'è continuità, e il nodo è sempre una violenza in atto. È il rischio, se così si può dire, a cui si espone la Stimmung della fine. La presentificazione dell'apocalisse di Baj ha luogo in «medias res», agisce al passato e al futuro, si svolge senza svolgersi (vi sono due processi: uno nel senso del giudizio, uno nel senso del procedere, e si sovrappongono), è un atto che mette in gioco la riflessione di presenza/assenza, e il perno, in «medias res», è la violenza. Vi si sconvolge il visibile, la pittura, che si manifesta come suspense esattaPiedi, 1957 mente come ogni immagine (orma e non traccia, assumendo il primo termine come segno di oggettualità contro un sospetto di concettualità astratta) sembra essere l'indizio di un pedinamento che malgrado lo scopo sia la denuncia (critica) procede per dirottamenti continui, per intermittenze e riprese. La violenza non viene esposta dalla pittura, ma agisce sulla pittura. E la pittura diventa prova a carico proprio perché non esorcizza nulla. La sua .semanticità è perciò ondeggiante - da cui, per esempio, la doppiezza stilistica. Ma se ciò che è sentito come perdita è la consapevolezza ç;he una qualunque ideologia del progresso è fittizia, ciò non sta forse a indicare per lo meno una sequenza, un prima e un poi, uno sviluppo in uno dei cui momenti si è avuto un furto? Un furto che il momento della fine, dell'apocalisse, rende definitivo, rendendo definitiva quella sensazione di «essereagiti» che ogni furto provoca? Essere agiti presuppone che qualcosa agisca. . Mi riesce difficile, in questo ragionare attorno a provocato da Baj, sfuggire a una suggestione che proprio la scelta delle opere esposte in questi giorni al Miami Centerfor the Fine Arts con il titolo Generai Crysis sembra avvalorare. Si passa dalle cosiddette «modificazioni» iniziate nel 1964 (un discorso fortemente legato al senso del fare pittura per spezzature, assemblaggi, collages, oggetti trovati, ecc.) all'irruzione esplicita del sociale attraverso la riappropriazione di Guernica, e poi Pinelli, la Nixon Parade, per arrivare ali' Apocalisse. Una linea, vista oggi a distanza, che tiene perfettamente, malgrado le varianti, o camuffamenti, che rimandano al tipo di pedinamento del senso prima accennato. La giduglia del plurimo e onnidivorante Gran Motore al centro della triade che domina la rappresentazione apocalittica di Baj è labirintica, e sfocia ali'origine e fine del mempro eretto. Il bestiale, per quanto in forma diversa, si manifesta dilatandosi come nella variabilità delle interpretazioni del Physiologus. Come l'onagro, che è il diavolo perché «sa che il giorno e la notte sono uguàli». E sono bestie coloro che infuriano con la loro violenza, e sono noti come ferus in quanto i loro atti sono governati, ferantur, solo dal loro desiderio. Il tema del potere si viene ad innestare inevitabilmente sul tema della perdita. Per quanto il termine «modificazioni» applicato al gruppo di opere che aprono la mostra volesse avere un significato puramente tecnico, non mi stupisce che una delle pri- - me (del 1964) abbia a soggetto Adamo ed Eva. Nessun particolare contrasto fra innocenza, esperienza, divino, umano, ecc. Ciò che Blake disse di Mi/ton, esperto in cadute tragicamente ottimistiche per la componente cristiana, si addice anche a Baj. Ma Baj, essendo passato per Jarry, sembra trovarsi più a suo agio con i diavoli che con gli angeli per aver visto come la contraffazione non risparmi nessuno. Quale accusa sta lanciando il personaggio ubuesco che leva minacciosamente il braccio sinistro? Quale «angelico» orrore può esprimere la maschera che appare a destra dell'alto mimando Michele o Raffaele? Messi allaprova per un atto di per sé insignificante se si pensa ali'arbitrarietà della proibizione, è legittimo che i due progenitori up-to-date r'ivendichino il godimento delle paradisiache voluttà promesse. Ma è anche vero (e quale libertà andranno mai cercando?) che la trasgressione appare di ben scarso rilievo. Quell'Adamo culturistico e dall'aria stolida, quella procacissima Eva insoddisfatta e fumettara, tipico 'nudo' da vetreria, restano personaggi grossolani e risibili. Quotidiani per passività. Non siamo di fronte a una tragica irruzione della morte, ma a un grottesco smascheramento della vita. Anche nel principio, quell'unico suono (laparola 'morte') tanto necessario non solo in un'ottica cristiana, quanto privo di un~messaggio davvero trasmissibile, si può supporre connesso alle figure «not with a bang but a whimper». Principio e fine sono percorsi da un «ah ah ah» terribilmente espressivo. In un festum follorum medievale di.ghignante buffoneria terapeutica si denuncia apertamente, fra ragli d'asino, «veritas, equitas, largitas, corruit, I falsitas, pravitas, parcitas, viguit». Trovo del tutto appropriato, a proposito delle sceltefatte per la mostra di•Miami, che la generai crysis non sia solo una crisi di generali. La questione non riguarda più una concezione di potere discriminatoria, che rischierebbe d'essere codificata anche troppo facilmente in schemi di maniera. Nella sua «forma grottesca della ci- . tazione deformante» (U. Eco), conseguenza di un punto di vista non solo stilistico, Baj si raccorda a una tradizione lontana, e la lascia agire, o meglio re-agire,fino a noi, operandovi una sorta di suspense che assomiglia in qualche modo a una messa fra parentesi di tipo f enomenologico, ma non a una sospensione di giudizio. La relazione fra la morte (violenza) e le figure diventa di per sé la rappresentazione immediata e convincente del/'indicibile, e rivendica la sua presenza visibile come azzeramento o livellamento di ogni contrapposizione moralistica. Da cui, forse, anche un sospetto di criticitàdella critica, e lo spostamento da un previsto Amen conclusivo a un rituale Stramen.

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