Ladesemiotizzazione L a «Novella delle tre anella», con la quale nel Decamerone Melchisedech risponde alla domanda del Saladino quale fosse la vera delle tre religioni praticate nel suo regno - l'ebraica, l'islamica e la cristiana - se evita al suo narratore l'insidia di una richiesta pericolosa, potrebbe oggi ben figurare in un'antologia sul pensiero debole. 1. Favole deboli C'era una volta un padre con tre figli, prima di morire il padre decise di indicare l'erede con un anello, segno della stirpe e della successione. Per più generazioni l'anello garantì ordine genealogico e gerarchia, finché un padre, alle soglie della morte, commissionò ad un orafo due copie perfette dell'anello. A ciascuno dei tre figli separatamente diede uno degli anelli, inducendolo a credersi il prescelto. Alla sua morte nessuno fu in grado di distinguere l'originale dalle copie: la questione del «vero anello» riinase insoluta, come la verità delle tre religioni. Il racconto del saggio ebreo ripete e smantella la logica medievale su cui si regge la domanda del Saladino, fondata su un assetto gerarchico e simbolico del mondo. Se l'anello fissa segnicamente .il paradigma della successione, la domanda sulla vera religione «cerca il proprio anello», un centro di verità che selezioni certezze e falsità, emani norme e dispensi punizioni. Nell'intenzione del sultano la domanda gli consentirà di punire Melchisedech (che presumibilmente sceglierà la propria religione) e «giustificherà», come corrispettivo della colpa, l'estorsione all'ebreo di una grossa somma di denaro, che al Saladino occorre urgentemente. Tollerante con le religioni del suo regno, il Saladino utilizza in· realtà solo per calcolo un codice cui non crede; e il suo saggio interlocutore lo costringe abilmente all'ammirazione e all'amicizia mediante un gioco di desemiotizzazione, di smarrimento del senso, che ne smaschera la pretesa epistemica e modifica il contratto sociale tra le parti. L'esito è infatti un franco accordo mercantile (rinascimentale) per un regolare prestito al sultano. Favola di fine del segno, in cui l'anello-verità, «falsificato», cessa di assicurare il centro e rende labile la distinzione tra vero e falso, originale e copia, la parabola di Melchisedech spezza l'unità simbolica del codice medievale: rifiutandosi di stabilire una gerarchia (paradigma) tra i figli parimenti amati, e cancellando con le copie dell'anello la corrispondenza biunivoca tra segno e referente (rapporto semantico), il padre della novella mette in crisi entrambi i presupposti che Lotman identifica nella sua tipologia della cultura come propri del codice medievale (semantico-paradigmatico), già impliciti nella domanda del sultano. La rappresentazione della crisi del codice medievale e il delinearsi del nuovo codice rinascimentale (non più simbolico, ma «sintagmatico» o della «effettività pratica», secondo Lotman) strutturano questa e altre novelle del Decamerone, e vi aprono lo spazio della beffa, costruita sulla distanza dei due codici. A mediare la transizione interviene, come s'è visto, un terzo codice. Come rileva Lotman «Nei momenti di crisi storica, quando gli istituti sociali sono screditati e l'idea stessa di società è intesa come sinonimo di oppressione, nasce un sistema di cultura caratterizzato dalla tendenza alla desemiotizzazione» Nella novella dei tre anelli la desemiotizzazione si accompagna ali' «egalitarismo naturale» del padre verso i figli, cui corrisponde la «fraternità» che si produce nell'amicizia tra il Saladino e Melchisedech, sul comune sfondo di una nuova consapevolezza della convenzionalità segnica e della fine di una pretesa forte del senso. Lotman definisce illuminista il codice della desemiotizzazione perché esso è dominante nella cultura del Settecento. Nell'Amleto di Shakespeare l'ingiunzione di vendetta del fantasma addita al principe un ordine rigido del mondo: ordine del re, norma dell'onore, certezza di un dovere da compiere. Lo stesso ordine, la stessa norma, guida Laerte e Fortebraccio, opponendoli peraltro a nemici insussistenti. Laerte è spinto al duello/trappola organizzato qa Claudio (e gli costerà la vita), come Fortebraccio va a battersi disponendo delle vite dei suoi soldati per un fazzoletto di terra sterile. Ma entrambi si muovono senza esitazione, entro una episteme garantita, che li sottrae ad ogni tentazione metariflessiva. Sotto la coscienza dei valori statuali dominanti, del logos del padre-re, emerge invece in Amleto, a trattenerlo dall'azione, l'ombra di un ordine ideologico ed emotivo 'altro'. La vendetta diviene inagibile perché cessa di apparire il . 'centro', di coincidere con la totalità del pensiero del principe scholar. Omonimo del padre, Amleto diviene il fool del suo logos, il silenzio del suo ordine. Alla linea del padre si affianca di fatto, pur se priva di definizione sociale, la «linea della madre», dell'amore per Ofelia come per Orazio, povero, non nobile, solo compagno di studi, che il Wilhelm Meister di Goethe vuol adeguatamente trasformare in figlio del governatore danese della Norvegia, da poco soggiogata, cui Amleto deve condurre rinforzi militari. Protagonista di una desemiotizzazione che emerge dalla sanzione dell'inconscio, ma non dissimile dal gioco dei tre anelli, Amleto esercita una critica radicale della pretesa 'forte' del codice del padre: una critica illuminista, che giunge fino alla Tempesta, alle 'scandalose' (antimonarchiche) parole di Gonzalo, mutuate dagli Essais di Montaigne. Trà le favole filosofiche del Settecento il Rasselas di S. Johnson (1759, come il Candide) è delle più sconcertanti: lo «sgomento delle copie .alternative» narrato da Melchisedech e lo «sgomento dell'azione» vissuto da Amleto si ampliano fino ad investirvi l'intero farsi della storia. Un principe abissino, Rasselas, e sua sorella Nekayah, con l'aiuto del poeta Imlac, decidono di abbandonare la dorata utopia di ozi e piaceri in cui si trovano confinati nella Happy Valley, tra inaccessibili monti, lontano dalla storia, per esplorare il mondo e definirvi una scelta di ruolo e di identità. Ma percorsi i paesi e indagatene le varie· condizioni, a palazzo e tra i poveri, tra i semplici e i sapienti, Rasselas e Nekayah non sanno risolversi. Sotto il loro sguardo critiGiuseppina Restivo co, ragione desemiotizzante, ogni scelta si vanifica: Rasselas rinuncia a divenire sovrano esemplare e Nekayah a fondare una scuola per giovani, per indefinibilità del giusto e del vero. Tutti tornano infine a quello stesso Eldorado senza accadere da cui erano fuggiti. Dall'Eldorado fugge del resto anche il protagonista del Candide di Voltaire, che attraversa la storia nei suoi molteplici orrori senza poterle attribuire un senso. Affrontando una lunga, travagliatissima pedagogia dell'evento, Candide passa dalla verità fissa dell'istitutore Pangloss, che ostinatamente ripete il 'centro' di una filosofia leibniziana, per la quale il nostro mondo è il «migliore dei mondi possibili», allo scetticismo 'aperto' del filosofo-letterato Martino, per il quale il peggio è possibile e probabile. Candide sposa infine l'amata Cunegonde, pur invecchiata, e ripara con lei, Pangloss e Martino, in una piccola masseria con giardino, lontana dal mondo. Sull'ansia illuminista di libertà che motiva la desemiotizzazione (o delegittimazione di un'autorità coercitiva) si è innestata quella recessione dal mondo e dalla storia cui Beckett giunge a conferire le forme dell'assurdo. In Fin de partie, forse la più intensa delle favole deboli del Novecento, l'eco dell'indistinguibilità degli anelli del Boccaccio, dell'inazione di Amleto e delle crisi illuministe, si fa dominante, occupa l'intero campo per ascoltarsi con ironico· rigore e la fissità di una fascinazione totale. Lo sguardo di Hamm e Clov, chiusi in un bunker come i soli sopravvissuti, cancella il paesaggio esterno, in cui non distingue il giorno dalla notte, il sole dalla pioggia. Ad accadere è solo l'attesa di una fine - già implicita nella sospensione della Happy Valley di Johnson, intensamente studiato da Beckett - divenuta iperbole delle intime costrizioni sado-masochistiche del soggetto. La finale parodia del pensiero, il rifiuto della memoria, il patto di non significazione di sé e del mondo, di desertificazione della natura, esplorano in Beckett tutta la potenzialità nichilista di un illuminismo radicale. Questa negazione della rappresentazione si ripete - speculare - nella proliferazione dei simulacri di Deleuze, che converte in piacere (dionisiaco) il trauma dell'indistinguibilità del vero dal falso, rovesciando il modello platonico della «selezione dei pretendenti». Favole molteplici, prodotte dalla crisi rinascimentale, illuminista o contemporanea, le narrazioni evocate rivelano un comun denominatore: una debole rappresentabilità del 'vero' che la desemiotizzazione alimenta. Uno stesso codice illuminista la va delineando con progressiva intensità e consapevolezza di sé. Se gerarchia e azione si sfaldavano nella I1arrazione del Decamerone o dell'Amleto, in Johnson o Voltaire è l'intera storia a perdersi con un unico residuo: il giardino di ozio della Happy Valley o il giardino di lavoro di Candide. Ma in Beckett, con la rappresentazione della storia, è cessata anche la rappresentazione del giardino. Nel saggio incluso nell'antologia di Vattimo e Rovatti, Umberto Eco distingue due forme del sapere: il sapere rigido del dizionario, modello forte prediletto dalla cultura medievale, esemplificabile nell'albero di Porfirio; e il sapere duttile dell'enciclopedia, concepita come labirinto del terzò tipo, a rete, cioè ad albero, ma con «infiniti corridoi che connettono i nodi dell'albero». L'esempio di questo sapere flessibile, a rizoma, «antigenealogico» e reversibile, è offerto da un passo della prefazione ali' Encyclopédie di D' Alembert. È dùnque nell'illuminismo che Eco trova il modello del pensiero debole: «Il labirinto di terzo tipo non è un modello dell'essenza di ragione, o di un universo irrazionale. È il modello che è stato scelto da un pensiero debole per eccellenza, quello degli enciclopedisti del XVIII secolo, un pensiero della ragionevolezza illuminista, non della razionalità trionfante». L'illuminismo che Eco legge in D' Alembert sembra coincidere con quello proposto da Lotman nel segno della desemiotizzazione. 2. Paradossi e soglie La rinuncia pedagogica di Nekayah nel Rasselas e la pedagogia dei nobili cavalli di Swift che rieducano Gulliver, sembrano riflettere un esempio tipico di esiti antitetici del codice illuminista. Alla speranza della produzione utopica del Settecento analizzata da Bakzo (Lumières de /'utopie, 1978) o agli effetti di innovazione socio-politica del Contratto sociale di Rousseau, corrisponde parallela la linea che congiunge, ad esempio, l'atarassia finale di Rasselas alla catatonia dei protagonisti di Beckett, che bene Segre (Le strutture e il tempo, 1974) legge come tratto costante dell'autore. Commutatore di culture, il codice della desemiotizzazione crea i segni della negazione dei segni: ma in tal modo esso può paradossalmente sia motivare e accelerare l'invenzione del nuovo, sia paralizzare la produzione culturale. L'oscillazione tra incremento e azzeramento rivela una progressione discontinua del codice illuminista: come nei modelli delle catastrofi di René Thom, oltre una soglia critica, all'intensificarsi delle cause non corrisponde l'intensificarsi degli effetti. Agli effetti iniziali - di liberazione e stimolo creativo - subentrano infatti crisi di labilità e stasi. Lotman distingue all'interno del codice illuminista un modello 'utopico' ed un modello 'assurdo'. Due possibili rapporti tra fatti e segni - simbolico o di sostituzione (del segno al fatto) e di congiunzione o sintagmatico (tra segni) - forniscono a Lotman una matrice binaria, a partire dalla quale si delineano quattro codici di base, determinati dalla presenza di uno dei due rapporti, oppure dall'assenza o dalla presenza di entrambi. Potenzialmente sincrol).1c1, questi quattro codici appaiono dominanti nella cultura europea in periodi storici diversi. Così il codice simbolico domina in epoca medievale, il codice sintagmatico nel Rinascimento, il codice della desemiotizzazione o «aparadigmatico e asintagmatico» nella cultura illuminista, il codice simbolico e sintagmatico in quella romantica. Ogni codice definisce una differente selezione dello sguardo sul mondo, ritaglia una zona di luce e crea una zona d'ombra, include ed esclude per sua natura, vede ciò cui gli altri codici sono ciechi. Non esiste un super-codice di sintesi che si appropri di uno sguardo totale, assicurandosi la stabilità. Nessuna gerarchia o primato è teorizzabile in sé, pur se deve ogni volta specificamente istituirsi: le dominanze sono prodotto variabile della storia, funzione di bisogni, di equilibri o squilibri sociali in movimento. Ad alimentare il dinamismo è la costante carenza, il peso dell'assenza, dell'escluso, nell'inevitabile violenza della rappresentazione. La cogenza classica è estranea all'ottica della tipologia della cultura: al codice storicamente dominante corrisponde non un «codice di verità», quanto una gerarchia in atto. Ma il sistema di potenzialità plurime, di combinatorie con cariche diverse diviene intelligibile. Il labirinto gnoseologico si apre, nella definizione di Rosenstiehl, all'algoritmo miope (debole nel suo localismo), teso al richiamo di un'esplorazione che non presuppone una conoscenza generale e assoluta del labirinto, della sua struttura, ma è forte del filo di Arianna e della µfjuç, l'astuta intelligenza con cui procedere. E per risolvere il suo labirinto (non per~ercisi, magari gioiosamente) Teseo può ricorrere - nell'immagine di Rosenstiehl - ad Arianna-folle (incline al nuovo e alla creazione) come ad Ariannasaggia (conscia del già visto e incline all'analisi), in un abile gioco di informazione combinatoria. Nella rete della com-mutazione dei codici la soglia della mutazione (della desemiotizzazione) può allora divenire questione centrale di questo procedere e dei modelli che lo descrivono. Cfr. Jurij M. Lotman «Il problema del segno e del sistema segnico nella tipologia della cultura russa prima del XX secolo» in Ricerche semiotiche a cura di Lotman e Uspenskij Torino, Einaudi, 1973 Giuseppina Restivo «La decidibilità di Amleto» in Quaderni di teatro n. 9, agosto 1980 «Ironie anticlassiche nella 'Tempesta' di Shakespeare» in Il confronto letterario n. 1, 1984 Cesare Segre «Testi, cultura e tipologia» in L'ombra d'Argo n. 1, 1984
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