Alfabeta - anno VII - n. 70 - marzo 1985

H o scelto il tema della finestra come immagine simbolica di un particolare modo di approccio col reale, di un punto enigmatico e, tuttavia, figurativamente evidente dell'incrocio tra esterno e interno, maschile e femminile, pubblico e privato. Tema femminile se per femminile si intende la sede di un approccio alle cose: mediato, ambiguo, autocontraddittorio (se il bambino può identificarsi col padre, la bambina deve mediare, per l'accettazione di sé, la figura del padre e quella della madre - si veda in proposito l'analisi del «rapporto triangolare» nella donna, in H. Deutsch). Per femminile non intendo, e credo che meno che mai ora si potrebbe intendere, il punto di vista delle donne. Ho preso in esame una singola opera di due autori maschi (Flaubert e Manet) e di una donna (V. Woolf). Da un punto di vista molto unilaterale e procedendo per associazioni puramente analogiche, prendo in considerazione solo l'oggetto che mi interessa: la finestra. «La finestra unisce la chiusura e l'apertura, l'intralcio e l'involo, la prigionia nella stanza e la fuga al di fuori, l'illimitato nel cirIl topo, o per meglio dire, la zoccola, è ormai da tempo padrone incontrastato della notte napoletana. Saldamente insediato sui cumuli maleodoranti di spazzatura, ben pasciuto, sicuro di sé, tiene lontani i malcapitati gatti che tentano di avvicinarsi anch'essi a rovistare, non mostra alcunfastidio per la rarapresenza di umani, si riproduce a ritmi vertiginosi. Milioni e milioni di zoccole, un esercitosempre più numeroso e battagliero che presto non si contenterà più di regnare solo di notte, vorrà spazi più grandi, cibo migliore, rifugi più comodi ... Di giorno, invece, regna la Macchina. Ogni mattina decine di migliaia di napoletani escono di casa decisi a trascorr-erealcune ore della loro giornata fermi in automobile. Volti lividi, tristi, un'umanità rassegnata e sofferente, percorsa ogni tanto da lampi sinistri di violenza. Nessun ordine, nessuna regola. Vince il più duro, il più violento. Gli altri, i deboli, gli sconfitti, accumulano oceani di frustrazione, di ipocondria, si ammalano di f egato e di gastriti, sognano impossibili rivincite, cercano a loro volta, e spesso riescono, di imporsi comportamenti di violenza, di sopraffazione. Nei vicoli fetidi - quasi tutte le strade di Napoli lo sono - troneggiano enormi BMW e Mercedes che i proprietari guardano compiaciuti dallaporta del 'basso', dal balcone del primo piano. Napoli è una cittàmalata, lo sanno tutti. Ma malata dentro, in profondità, e per questo incurabile. Una malattia che certo non si conclude con la morte, piuttosto una lenta mutazione genetica e antropologica che nel giro di trenta, quarant'anni ha cambiato radicalmente la città, non tanto e non solo nel suo aspetto fisico - non so se Tref.inestre coscritto» (J. Russet, «Madame Bovary o il libro su nulla», in Forma e significato). In quanto dotata delle qualità sopraccennate, la finestra a cui mi riferisco, punto mediano di realtà, non è 'la' finestra in generale, che è un'immagine sempre presente nella storia della letteratura e della pittura, ma la finestra ottocentesca e poi novecentesca: la finestra borghese. I titoli scelti potrebbero far presumere l'idea di un progresso svolgentesi nel passaggio da un autore all'altro, rispetto al tema preso in considerazione. Questo varrebbe a sminuire il valore di realtà, o meglio d'arte, delle opere prese in considerazione e il loro esclusivo essere rispetto alle altre e tra di loro («Poiché, se l'idea del bello si presenta suddivisa e dispersa nelle varie opere, ciascuna di esse intende incondizionatamente la totalità dell'idea, pretende la bellezza per sé nella propria unicità, e non può ammettere quella suddivisione senza annullare se stessa. Una, vera, spoglia di ogni apparenza, libera da siffatta individuazione, la bellezza non appare nella sintesi di tutte le opere, nell'unità delle arti e dell'arte, ma - materialmente e Marosia Castaldi concretamente - nel tramonto dell'arte stessa. A questo tramonto mira ogni opera d'arte, in quanto vorrebbe la morte di tutte le altre.» T.W. Adorno, Minima moralia). Se dal mio punto di vista e uscendo dal testo derivasse un'idea di progresso, specifico che piuttosto parlerei di un cambiamento, se utopizzare «la soluzione della storia è la morte della storia» (J. Hippolyte, Saggi su Marx ed Hegel). E. Manet, ~n balcone» La sede dell'ambiguo L'inferriata del balcone si estende lungo tutta la superficie del quadro, lo taglia in due zone, esce dai limiti della composizione ed evita che essa si riduca a un quadro di genere. Anche se quasi completamente buio (si intravede qualche oggetto e una figura d'uomo) lo spazio di fondo presuppone ancora una struttura spaziale cubica tradizionale, ma il verde freddo, livido, e il bianco «illuminato sordamente dall'interno» degli oggetti e delle figure in primo piano proiettano violentemente in avanti la composizione, creando una forte tensione superficiale («visione prossima, tattile»). Questa prossimità, gli sguardi rivolti verso l'esterno av- . viano ad uno spazio mentale del quadro che è fuori del quadro stesso. In realtà la struttura della composizione è quasi rinascimentale. C'è un proscenio, una perfetta frontalità dei personaggi, anche il loro guardar fuori non ha in sé nulla di nuovo. Ma un quadro rinascimentale assorbe e proietta l'attenzione tutta verso il suo interno, verso il fondo del cubo scenico; è uno spazio teatrale che esaurisce in se stesso l'azione, non presuppone altra realtà, al di fuori di sé, che quella di uno spettatore disposto ad immedesimarsi con il senso di realtà unico,- totalizzante e unilateralmente proposto dalla scena stessa. Il «punto» di realtà è unico, certo e indiscutibile. Nel Balcone il punto di realtà è spostato, l'azione vera e propria è in un certo senso fuori scena: gli spettatori sono nel quadro; l'azione (la strada) è soltanto presupposta, invisibile e tuttavia inequivocabilmente implicita nel senso stesso della composizione. Vengono in mente le Mayas al balcone di Goya. Anche qui c'è un'inferriata A Napo,I1z~orcecola .. c'è in Italia una città più brutta di Napoli - quanto nell'animo, nei comportamenti, nei modi di pensare dei suoi abitanti. Su questa massa di un paio di milioni di Mutanti «governano», per così dire, gli ometti dei vari Palazzi locali, versione ridotta, succursali dei non meno squallidi Palazzi romani. Sindaci, presidenti vari, consiglieri regionali, tutti quasi patetici nella loro disarmata mediocrità, nel loro sonnolento grigiore. Piccoli affaristi o arrampicatori, burocrati di partito, ragionieri e geometri scampati chi sa come a un destino di impiegatucci, tutti capaci solo di parlarsi addosso interminabilmente, di stiracchiarefino all'inverosimile non, dioguardi, qualche idea, ma le oscene formulette romane del politichese. Uno, Valenzi, era un funzionario di partito alla vigilia della pensione, e sembrò quasi un gigante paragonato agli altri, alle macchiette mediocri o sordide che soprintendono, sempre per così dire, ai destini della città. Accade che in questa città votata al disastro - e che, si badi bene, non fa altro che anticipare di qualche anno processi di decomposizione e disgregazione civile e sociale in atto in tutta Italia - vi sia, negli ultimi tempi, una certa ricchezza di iniziative culturali. Grandi mostre - quella sul Settecento di quattro anni fa, quelle sul Seicento attualmente in corso -, l'attività di un organismo come l'Istituto italiano per gli studi filosofici, la nascita di alcune Fondazioni - quella di Lucio Amelio per l'arte contemporanea, quella dei Barracco, «Napoli 99»,_con la sua capacità di coinvolgimento d{ moltissimi «grandi nomi» della finanza e del bel mondo, oltre che della cultura-, un'attività editoriale molto vivace. In più una produzione teatrale quantitativamente e talvolta qualitativamente molto elevata, con fenomeni assai intelligenti di recupero della tradizione - i Maggio, i Barra, ad esempio - e una particolare diramazione di que_llache è stata la «nuova spettacolarità» - «Falso Movimento», ma non solo. E anche un «sommerso» culturale che forse non verrà mai alla luce, ma che costituisce il tessuto nel quale possono maturare le esperienze più significative. Cosicché non meraviglia che i grandi media abbiano all'improvviso scoperto un'altra Napoli. Da non paragonare più a Calcutta, come si faceva qualche anno fa (ed era comunque un'idiozia) ma semmai alla New York disseminata e post-moderna cara a una largaparte dei giovani intellettuali d'oggi. Hanno cominciato settimanali come Eqropeo e Panorama, fino a Le Monde. che al singolare fenomeno ha dedicato recentemente due pagine del suo supplemento domenica/e, a firma del corrispondente dall'Italia, Philippe. Pons. Un giornalista che, oltre a non piacere a Craxi, ha anche altre qualità: è documentato, preciso, non scrive per sentito dire, non ama le approssimazioni e leformule ad effetto. Quindi né Calcutta né New York, ma una città «confusa, contraddittoria, ribollente», nella quale la violenza, la corruzione e le infiltrazioni camorristiche «hanno degradato i rapporti sociali», ma che pure continua a essere «la sola città italiana che abbia comportamenti da capitale». Dalla mostra di Capodimonte, dunque, Pons parte per una ricognizione molto attenta, un vero e proprio viaggio attraverso le iniziative culturali (e le contraddizioni) di Napoli. Cita a /ungo il soprintendente Nicola Spinosa (che parla di una frattura traNapoli e i suoi abitanti. « La gente - dice Spinosa - non pensa più alla città come a un luogo in cui estrinsecarsi, così ha cominciato a odiare il suo passato e ciò che lo rappresenta: i suoi monumenti. Fino a quando i napoletani non si riconosceranno più nella loro storia non ci sarà avvenire per Napoli»); descrive la mostra, cerca di dare un'idea di quel che è stata Napoli nel Seicento - la seconda città d'Europa per numero di abitanti, una metropoli già caotica e segnata da gigantesche contraddizioni; parla del patrimonio costituito dalle centinaia di chiese del centro antico, anche se sono diventate una specie di «self service per i ladri», come ha detto Luigi Firpo. E poi tutto il resto, le Fondazioni e l'Istituto per gli studi filosofici, l'editoria e l'archeologia subacquea, in modo insomma che sia chiaro per il /ettote francese il paradosso di una città stremata ma che si permette il lusso di esibire una vitalità culturale per certi versi straordinaria. Eppure, sia l'ampio reportage di Pons che quelli dei settimanali italiani citati - e lo dico con una punta di masochismo, visto che quello di Panorama era firmato anche da me - lasciano una sensazione di disagio, quando non provocano addirittura un moto di insofferenza. Il perché è difficile spiegarlo, ma forse la prima cosa da dire è connessa proprio alla na- . tura del pezzo giornalistico. Che, per quanto 'ben fatto' - per quanto cioè si sforzi di andare in profondità, di fornire chiavi multiple di interpretazione, e parli di fatti reali, di situazioni esistenti - appare tuttavia lontano dalla realtà, e incapace di coglierne gli aspettipiù drammatici, quelli che determinano efche si estende oltre i limiti del quadro, i personaggi guardano verso l'esterno, ma una delle mayas guarda esplicitamente verso l'ipotetico spettatore. Questo basta a creare un rapporto biunivoco tra personaggio e spettatore, a introiettare e assorbire quindi l'attenzione dello spettatore verso l'interno della scena, verso lo spazio livido e senza limiti del fondo. La cosa è ancora più chiara nelle donne al balcone della Festa del santo. Qui le donne funzionano da prologo, da introduzione al tema vorticoso di panneggi e figure del fondo. Quale che essa sia, qui il punto di realtà coincide ancora perfettamente con lo spazio rappresentato. Nel Balcone, nessuno dei personaggi guarda lo spettatore, nemmeno la figura di donna sulla destra i cui occhi sono persi nel vuoto, sprofondati in una reverie. Questi sguardi sfuggenti portano fuori del balcone, in molteplici direzioni, data anche la forte caratterizzazione e differenziazione psicologica dei personaggi. Essendosi retta la biunivocità nella relazione di sguardi tra personaggi del quadro e spettatore, si crea un secondo punto di spostamento: lo spetfettivamente non l'immagine ma la sostanza direi corporea della città. Nel caso specifico una città incapace di gestire in maniera accettabile il presente e di progettare un futuro che non sia pura sopravvivenza, e per la quale quindi il recupero del passato, per quanto non privo di grandezza (o, a maggior ragione, proprio per questo) può risultare alla fine un momento consolatorio e insomma una specie di fuga dalla realtà. Napoli è stata in passato molte cose, nel bene e nel male. Oggi è soprattutto un Incubo. E non c'è giornalismo - per quanto di qualità - che possa desàivere un tale incubo. Ci vuole altro. Un diverso approccio alla realtà, una capacità (e una possibilità) di scrittura diversa da quella giornalistica. Muti e impotenti gli scrittori napoletani; ci ha provato, di recente, Ceronetti nel suo Viaggio in Italia. Con buoni risultati («questopopolo stravolto, paralizzato, che non può fare nient'altro che gonfiarsi di rumore e produrne, ingoiare caos e trombettarlo fuori»; «per sopportare di vivere in una città come questa ci vuole veramente un popolo di filosofi, o di incoscienti. Ogni attimo è un intoppo, uno scontro, un purgatorio... »; e ancora: «Napoli è uno dei peggiori luoghi d'Italia; ma tutta intera questa nazione non è più che uno sbubbonare di tante Napoli, che se anche non sanguinano come Napoli ne riproducono sintomi, crolli, abbrutimento»). Ma, in realtà, per parlare di quest'Incubo, di questo inferno metropolitano del ventesimo secolo declinante, ci vorrebbe il miglior Céline, con tutta la sua rabbia, la sua frenesia linguistica, lè sue allucinazioni.

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==