• Mensile di informazione culturale marzo 1985 Numero 70 I Anno 6Lire 4.000 Edizioni Cooperativa Intrapresa Via Caposile, 2 • 20137 Milano Spedizione in abbonamento postale gruppo 111/70• Printed in Italy Luhmann: Senghor: Amorecome • passione. . Decostruzione Africa-madre Su Pasolini (Gramigna,Porta SuNapo 1 / .·. • . Francia-Usa (Piemonfffse) . · ·.·.•, (Derrida,Valesio) Bloom, intervista Prove cl' artista/(. Ramous ( L. Senghor: L'Africa-madre *A.Porta: Un'ambiziosa proposta * G. Gramigna: Pasolini, poesia *A.Porta: Pasolini, tealio N. Loren.zini: Libri per Montale* M. Serenellini: Milano: Film-maker * Da Berlino Est* Da Parigi Prove d'artista: C. Ramous/Alcuni testi inediti leffi a Palermo il 9 novembre 1984 * M. Castulcli: Tre finestre • F. Piemontese: A Napoli la .zoccola* C. Vasio: I diari delle clame * P. Valesio: Critica a Yale Testo: N. Luhmann: Amore come passione (a cura cli B. Accarino e C. Formenti) * J. Derricla: LeHera a un amico giapponese A. Tagliaferri: Conversazione con Bloom * G. Restivo: la clesemioti.z.za.zione * L. Kreycler: Homo acaclemicus G. De Martino: Omosessu■lità «bianca» * 5. Nigro: La Cauaria * La cognizione clel foHere (clal testo cli A. Vignali) Cfr. Marc'o: La Nouvelle lmage * A. Faboui/G. Mammoliti: Gli Eretici cli Dune * R. Sanesi: CongeHure per Bai 5. Vegeffi Fin.zi: L'altra scena clel parto * Giornale clei Giornali: Il dollaro e la seconda rivoluzione americana Indice della comunicazione: -Telecomunicazione globale * Immagini: Aaron Siskincl
le immagindiiquestonumero Oggetti abbandonati, graffiti, segni sui muri e sui marciapiedi, tronchi d'albero, fili d'erba: oggetti comuni che Aaron Siskind riesce a trasformare in sagome, maschere, figure, totemizzando il quotidiano, fino a ricuperare una esteticità del banale. A metà degli anni Quaranta Siskind ha iniziato una vera rivoluzione nella fotografia, inserendola al centro della ricerca e della sperimentazione artistica. Lavorata a New York, dove era nato nel 1903 e dove aveva cominciato a fotografare - dopo appassionate esperienze in musica e in poesia - partendo dalla foto-documento e spostando poi la sua attenzione alleforme architettoniche. Ma già nel 1945 nel saggio Il dramma degli oggetti osservava: «La natura essenzialmente illustrativa della maggior parte dellafotografia documentaria e l'adorazione dell'oggetto per se stesso, nella nostra migliore fotografia naturalistica, non bastano a soddisfare. l'uomo odierno, composto com'è di Cristo, Freud e Marx. Il dramma interiore è il significato dell'evento esteriore. E ogni uomo è un'essenza e un simbolo». Un programma ben preciso, dunque, e una lucida consapevolezza estetica fin d'allora. Siskind non rinnega i suoi primi dieci anni di fotografo, ma ora guarda quelle sue foto con distacco, come se fossero di un altro. Per gli altri quarant'anni, dal 1944 a oggi, è rimasto fedele al suo impegno di ritrovare/ripresentare/inventare attraverso la fotografia «la trasformazione della sostanza del mondo in poesia». Così, gli oggetti Sommario Leopold Senghor L'Africa-madre pagina 3 Antonio Porta Un'ambiziosa proposta pagina 3 Giuliano Gramigna Pasolini, poesia pagina 4 Antonio Porta Pasolini, teatro pagina 6 Niva Lorenzini Libri per Montale pagina 7 Mario Serenellini Milano: Film-maker pagina 8 Prove d'artista Carlo Ramous pagina 9 Alcuni testi inediti letti a Palermo il 9 novembre 1984 in occasione del convegno «Il senso della letteratura» pagine 10-11 Comunicazione ai collaboratori di «Alfabeta» Le collaborazioni devono presentare i seguenti requisiti: a) ogni articolo non dovrà superare le 6 cartelle di 2000 battute; ogni eccezione dovrà essere concordata con la direzione del giornale; in caso contrario saremo costretti a procedere a tagli· b) "tutti gli articoli devono essere corredati da precisi e dettagliati riferimenti ai libri e/o agli eventi recensiti; nel caso dei libri occorre indicare: auAaron Siskind Roma 25, 1967 banali diventano nelle foto di Siskind - sono sue parole - «rivelazioni, forze, energia, tensione, emozione, ordine, conflitto, ambiguità, significato»: personaggi senza volto di una rappresentazione Da Berlino Est a cura di Eugenio Petz e di Maurizio Ferraris pagina 12 Da Parigi a cura di Nanni Balestrini e di Maurizio Ferraris pagina 13 • Marosia Castaldi Tre finestre pagina 15 Felice Piemontese A Napoli la zoccola pagina 15 Carla Vasio I diari delle dame pagina 17 Testo: Niklas Luhmann Amore come passione a cura di Bruno Accarino e di Carlo Formenti pagine 19-22 Jacques Derrida Lettera a un amico giapponese ( «Decostruzione, Francia-Usa») pagina 23 Paolo Valesio Critica a Yale ( «Decostruzione, Francia-Usa») pagina 24 Aldo Tagliaferri Conversazione con Bloom pagina 25 Giuseppina Restivo La desemiotizzazione pagina 26 tore, titolo, editore (con città e data), numero di pagine e prezzo; c) gli articoli devono essere inviati in triplice copia; il domicilio e il codice fiscale sono indispensabili per i pezzi commissionati e per quelli dei collaboratori regolari. La maggiore ampiezza degli articoli o il loro carattere non recensivo sono proposti dalla direzione per scelte di lavoro e non per motivi preferenziali o personali. Tutti gli articoli inviati alla redazione vengono esaminati, ma larivista si compone prevalentemente di teatrale che in fondo non è altro che l'invenzione/ripresentazione del sé/noi. Per questo la sofisticatastruttura esteticadellefoto di Siskind non diminuisce la profonda esperienza emotiva che si prova di fronte ad Laura Kreyder Homo academicus pagina 27 Gianni De Martino Omosessualità «bianca» pagina 28 Salvatore Nigro La Cazzaria pagina 29 La cognizione del fottere (Citazione dal testo di Antonio Vignali) pagina 29 Cfr. pagina 30 Marc'o La Nouvelle Image pagina 32 Antonio Fabozzi e Gianni Mammoliti Gli Eretici di Dune pagina 35 Roberto Sanesi Congetture per Baj pagina 35 Silvia Vegetti Finzi L'altra scena del parto pagina 36 Giornale dei Giornali Il dollaro e la seconda rivoluzione americana pagina 38 Indice della comunicazione Telecomunicazione globale pagina 38 collaborazioni su commissione. Occorre in fine tenere conto che il criterio indispensabile del lavoro intellettuale per Alfabeta è l'esposizione degli argomenti - e, negli scritti recensivi, dei temi dei libri - in termini utili e evidenti per il lettore giovane o di livello universitario iniziale, di prepa- . razione culturale media e non specialista. Manoscritti, disegni e fotografie non si restituiscono. Il Comitato direttivo esse, come ad immagini che fanno ormai parte della nostra memoria collettiva. Ho incontrato Siskind l'ottobre scorso al Padiglione d'Arte Contemporanea di Milano, in occasione della straordinaria mostra antologica curata da Giuliana Scimé. Gli ho domandato che effetto gli facesse vedere esposte di seguito duecento sue fotografie che abbracciano un arco di tempo di oltre cinquant'anni: «Che vuole - mi ha risposto - mi sento un pezzo di storia». Ironia di un vecchio saggio, oltre che tensione e ambiguità di un grande artista, intrappolato anch'egli - come tutti - nel tempo, ma sempre in lotta con esso. Anche se, quando gli artisti parlano della loro arte, quel che dicono è generalmente senza tempo. Antonio Ria Aaron Siskind (New York, 1903), fotografo e docente, ha scritto saggi (Il dramma degli oggetti, 1945), ha pubblicato numerosi libri fotografici e cataloghi di sue mostre che ha esposto negli Usae in Europa. Delle sue serie di immagini ricordiamo: «Harlem document» (1935), «Dead End: the Bowery» (1936), «Louise» (1974), «Homage to Franz Kline» (1975), «Volcano» (1980). Fra i suoi libri fotografici: Places: Aaron Siskind Photographs, a cura di Thomas B. Hess ·(New York, 1976); Aaron Siskind: Pleasures and Terrors, a cura di Cari Chiarenza, Boston, 1982; Aaron Siskind: cinquant'anni di fotografia, 1931-1981, a cura di Giuliana Scimé, Monza, Selezione d'Immagini, 1984. alfabeta mensile di informazione culturale della cooperativa Alfabeta Direzione e redazione: Nanni Balestrini, Omar Calabrese, Maria Corti, Gino Di Maggio, Umberto Eco, Maurizio Ferraris, -Carlo Formenti, Francesco Leonetti, Antonio Porta, Pier Aldo Rovatti, Gianni Sassi, Mario Spinella, Paolo Volponi Art director: Gianni Sassi • Editing: Marisa Bassi (AER-Milano) Grafico: Bruno Trombetti . Edizioni Intrapresa Cooperativa di promozione culturale Redazione e amministrazione: via Caposile 2, 20137 Milano Telefono (02) 592684 Coordinatore tecnico: Giuseppe Terrone Pubbliche relazioni: Monica Palla Autorizzazione del Tribunale di Milano n. 342 del 12.9.1981 Direttore responsabile: Leo Paolazzi Composizione: GDB fotocomposizione, via Tagliamento 4, 20139 Milano Telefono (02) 5392546 Stampa: Rotografica, viale Monte Grappa 2, Milano Distribuzione: Messaggerie Periodici Abbonamento annuo Lire 40.000 estero Lire 55.000 (posta ordinaria) Lire 70.000 (posta aerea) Numeri arretrati Lire 6.000 Inviare l'importo a: Intrapresa Cooperativa di promozione culturale via Caposile 2, 20137 Milano Telefono (02) 592684 Conto Corrente Postale 15431208 Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica riservati
I Peuls del Sénégal, cugini dei Berberi Zénegas, che hanno dato al mio paese il suo nome, definiscono così la poesia: «parole piacevoli per il cuore e l'orecchio». E infatti ci sono tre elementi, essenziali, che caratterizzano la poesia africana. E sono le immagini analogiche, la melodia e il ritmo. Per i miei esempi, mi baserò soprattutto sulle «poesie ginniche» della mia etnia sérère. Ho raccolto queste poesie ginniche, vale a dire poesie di lotta, dalle bocche delle mie tre grazie, poetesse popolari del mio villaggio. Faccio notare, tra parentesi, che la poesia araba, la poesia semitica in genere, presenta numerosi tratti comuni con la poesia africana. E benché sia possibile distinguere tra poesia egiziana, poesia berbera e poesia più specificamente negro-africana, non ci sono differenze fondamentali tra di loro, come si vedrà. Primo elemento caratteristico della poesia africana è l'immagine simbolica, «l'immagine analogica», come dicevano i surrealisti, quella che unisce il visibile e l'invisibile, l'elemento materiale e quello spirituale. Come in questi tre versi di una poesia berbera dell'esilio, che canta la bellezza di un giovane emigrato in Francia: «D'oro e diamanti è il suo viso / dove non si nasconde menzogna alcuna,/ è alto come la palma del deserto». E gli fa eco una ragazza del mio villaggio, che canta la bellezza del fidanzato: del suo «Nero slanciato». Perché, nel Sénégal, per essere belli, bisogna essere alti, veloci e neri come l'ebano. Ascoltatela: «Che belli i giovanotti, I Campione di Fatù; I E che massaggiano sei tu, I con un vaso d'olio». Sei tu quello che massaggiano, perché sei il più bello. Il secondo elemento della poesia africana è la melodia. Nella mia lingua madre, come nelle lingue del gruppo dell'Atlantico occidentale, nelle quali l'accento intensivo è sulla prima sillaba, dominano gli effetti •di allitterazione. Tuttavia, sono frequenti allo stesso modo anche le assonanze. Ed ecco un valido esempio. Siamo ancora nell'ambito dei canti ginnici, i quali, come gli haikai giapponesi, Il suggestivo scritto di Senghor che qui pubblichiamo non solo ci gratifica come tutte le belle utopie ma ci costringe a riflettere non oziosamente sul destino della poesia nel mondo occidentale. Va da sé che l'Africa per noi più che Madre può essere un esempio e anche molto salutare, come lo è stata per l'arte di questo secolo, e che non dobbiamo rinunciare alle nostre caratteristiche e tradizioni, che a sua volta l'Africa riflette (da noi è certopiù problematico ma non impossibile un rapporto costante tra poesia e danza, trapoesia e musica e di fatto viene praticato, sia pure eccezionalmente); ma quello che ancora ci manca è l'inserimento l'Africa-madre· sono brevi, dai due ai quattro versi: «Daankiim, ngel né mfeeka; / Lam la mi caala a yuube». Si tratta di una ragazza che ha visto il suo «campione», vale a dire il suo fidanzato, trionfare nella lotta sulla piazza del villaggio. Ed esprime la sua gioia, che è per lei come un gioiello. Traduco: «Non dormirò sulla piazza, ma veglierò; / io, tam-tam adorno di una collana bianca». Osserviamo il ·secondo verso dell'originale. C'è, all'inizio, una allitterazione in 1am la e un'assonanza tra 1amla e caala. Ma non è tutto. Avrete notato, infatti, che, in questo verso di otto sillabe', cinque hanno la vocale a, che esprime, qui, la gioia col risalto di quel biancore. Rassicuratevi, gli africani non hanno complessi. E lo stesso popolo sérère esprime la bellezza nera attraverso il risalto della Leopold Senghor vocale a, come in questi versi, che cantano l'eleganza di un giovane di nome Lang Sar: «Lan Sar a lipwa pay baal, / O fes o genooc, nan fo sorom». Traduco: «Lang Sar ha indossato un perizoma nero,/ Un giovane si è alzato come un arbusto». Come avrete notato, nel primo verso (dell'originale), su sette sillabe sei hanno la vocale a. Dalla melodia, passiamo al ritLima 58, 1975 mo africano, che io ho definito: «serie di ripetizioni che non si ripetono». Infatti, la stessa parola viene ripresa, e così lo stesso sintagma o la stessa espressione: ma non allo stesso modo. L'elemento che si ripete si colloca in un'altra posizione del verso, o viene leggermente, modificato. Come in questi versi estratti da una poesia ginnica wolof del Sénégal. Si tratta di un campione di lotta che sfida i suoi antagonisti, e salmodia la sua poesia camminando, rit~ndola con le sue lunghe braccia e gambe: «Kandaadat, pat um Ndar, maa ko daan. /- Dege le!/ Muusa Gey ça Kees-Kaay, maa ko daan. I - Dege le!/ Ma né Asan Fay Tengegeej, maa ko daan. / - Dege le! / Ma di ko nax, di ko nax, di ko nax. I - Dege le! / Ma di ko nax bé mu kosté ci man./- Dege le!/ Weex u Naar laa ko jox, bajo yés. / - Dege le!/ Té fi ma jaar, ku fa jaar taxa ban. / - Dege le!». Traduco: «Kandadate, il guercio di Ndar, io l'ho battuto. / - È così!/ Moussa Gueye di Thiès-Kaye, io l'ho battuto. / - È così! / E Assane Faye di Rufisque, io l'ho battuto. I - È così!/ Io lo attiro, io lo attiro, io lo attiro./- È così!/ Io lo attiro fino a che lui si accosta. / - È così! / Come un Moro io lo Un'ambiz~osparoposta della poesia nel sistema generale delle arti. Non vi è manifestazione ufficiale che metta in programma la poesia. Non lo fa la Biennale veneziana, non lo fa quella parigina. La poesia si regge, da questo punto di vista, sull'iniziativa di pochi e singoli (Polyphonix o Milanopoesia), ma non ha ancora un punto di riferimento più stabile. L'anno scorso nell'ambito della Biennale veneziana qualcuno ha parlato di un «progettopoesia» ma tutto sembra caduto nel vuoto. Prevalgono le resistenze di derivazione scolastica, come fosse accettata senza discutere la convinzione che la poesia non serve a nulla. Non è un business... Il che è forse vero ma ininfluente rispetto al nostro discorso. C'è in realtà una forte richiesta di poesia e di manifestazioni legate ad essa che trovano poche e sporadiche risposte, le quali risposte riscuotono comunque un successo sempre eccezionale, da Parma a Roma, da Milano a Palermo. No,n sembra dunque prematura né tanto meno stravagante l'idea di fare entrare la poesia, in tutte le forme oggi praticate e con tutte le possibili simbiosi, nel circuito generale delle manifestazioni culturali. Di più, i tempi sono ormai maturi per proporre· a Milano un centro permanente .di documentazione e informazione sulla poesia nel . mondo, cui si possa fare riferimento per qualsiasi richiesta, dallo studio allapossibilità di incontri regolari con i poeti di ogni lingua, linguaggio e nazione, a partire da quell'Africa-madre di cui ci parla Senghor. Non sfuggirà a nessuno che un centro siffatto avrebbe anche una straordinaria importanza politica: in molte parti del mondo i poeti (e gli scrittori) sono perseguitati, imprigionati e a volte assassinati. Spesso non possono lasciare il loro paese nemmeno per una lettura e vengono dichiarati «irreperibili». È in gioco la libertà di linguaggio, dunque di pensiero. Certo, i poeti non possono vivere nelle riserve o afferro e lui crolla./- È così!/ Chi mi incrocia va all'inferno. / - È '' COSI.». Avete ascoltato, ritmate, le ripetizioni che non si ripetono1 • Le si ritrova nel!'Africa del Nord, presso i Berberi del Maghreb, ma anche presso gli Egiziani. Eccone un esempio, tratto dal Libro dei Morti: «Ecco che ho riunito I Tutte le parole di Potenza / Di tutte le regioni in cui si trovavano / Come nel cuore di tutti gli esseri umani / Che hanno potuto ospitarle. / E io le cerco e le riunisco / Più veloce della luce / Più zelante di un cane da caccia. / Sono colui che fa sorgere dagli abissi gli dei / E che, compiuto il loro ciclo, / Li vede discendere verso il Nulla / E verso la distruzione per opera del Fuoco. I Ecco che ho riunito tutte / le Parole di Potenza I Che io cercavo più veloce della luce, / Più zelante di un cane da caccia». 2 M a andiamo più lontani nel ritmo, fino alla prosodia o, più precisamente, alla metrica. Quando ero studente all'Istituto di Etnologia di Parigi, ci insegnavano che non c'era poesia nelle letterature orali africane: semplicemente «prosa ritmata». Come se non fosse, proprio questa, la definizione stessa della poesia. Poi, un giorno, misi delle poesie senegalesi in formule matematiche. I versi di prima, per esempio, ognuno con la ripetizione· di Dege le, «È così»3 sono dei tetrametri di 12 sillabe, formati dunque, ciascuno, di quattro metri o misure. E il ritmo di base del verso, scandito dal tamburo, è 3+3+3+3. Tuttavia, la realtà è più complessa. Infatti ci possono essere, nel verso, controtempi e sincopi, o addirittura dei silenzi. Così ognuno dei 4 metri può avere 3 sillabe, 2 sillabe, 1 sillaba o uno zero, vale a dire un silenzio più o meno lungo. Ma andiamo avanti. La poesia di lotta in questione è a più voci. C'è, da una parte, tin campione di lotta, che fa il .corifeosalmodiando • la poesia, e, dall'altra, ci sono gli spettatori, che fanno il coro sottolineando il loro consenso nell'ultimo metro: Dege le: «È così». Ma talvolta, prima ancora che il coro abbia salmodiato a sua volta il quarto e ultimo metro, il campione-corifeo attacca il verso seguenal di fuori delle lotte e delle trasformazioni socio-politiche in cui nascono, ma sarebbe comunque di grande conforto e aiuto sapàe che in alcune città del mondo vi possono essere centri di appoggio e protezione, magari momentanea. In questo periodo si parla molto, e giustamente, dell'iniqua sorte degli scrittori da vecchi; ma una cosa è certa, che i poeti rischiano di essere abbandonati anche da giovani, a cominciare dal rifiuto e dal disprezzo di quei valori linguisticoespressivi di cui sono gli umili o geniali interpreti. A.P.
te su un controtempo. Come nel nostro caso sulle due parole ma né. Il che, per una o due sillabe, dà luogo a una poesia a più voci, per non parlare di «polifonia». Non è un caso se la parola polifonia mi viene in mente. André Gide fu uno dei primi a segnalare che, in Africa Nera, il canto popolare è per definizione a più voci. La verità è che una volta di più si tratta di un elemento caratteristico che si estende a tutto il continente. Tanto è vero che l'anno scorso, ascoltando dei canti berberi editi in cassette, ho constatato con gioia che erano a più voci, con accompagnamento di terza e di quinta, come nell'Africa subsahariana. Al colmo della delizia, ho anche scoperto un canto polifonico nelle stesse cassette, che mi era stato segnalato come un tempo esistente nello Yemen, nella penisola araba. E ciò non mi aveva sorpreso. Infatti, prima dell'arrivo, nel IV millennio avanti Cristo, degli Indoeuropei e dei Semiti, l'Europa del Sud e il Vicino Oriente erano abitati dalle stesse popolazioni dell'Africa dell'emisfero settentrionale. Ecco perché si trovano, ancor oggi, canti popolari polifonici nei villaggi arretrati di certe isole mediterranee, tra cui anche la Corsica, la Sicilia e la Sardegna. Ma occorre tornare alle poesie ginniche per finire di illustrarne la complessità. Infatti queste poesie possono essere, volta a volta, cantate e salmodiate. Quando sono salmodiate, come è il caso del precedente componimento wolof, ciò che conta nel ritmo non è il numero delle sillabe, come nella poesia francese classica, per fare questo esempio, ma il numero delle sillaO Nel recensire le abitudini socio-linguistiche di Van- • ni Fucci, Pasolini notava come esse fossero probabilmente addebitabili «a un trauma a noi ignoto di quella turbata e irriducibile anima pistoiese. Un trauma che però noi potremmo anche riconoscere attraverso i nostri strumenti contemporanei di diagnosi (il marxismo e la psicoanalisi), ma che Dante non riconosceva tuttavia meno o peggio di noi: e che quindi descriveva per quello che era ... ». Il passaggio si trova in Mala mimesi, appendice dello scritto La volontà di Dante ad esserepoeta, del 1965, poi conferito nel volume Empirismo eretico. Non è arbitrario dire che qui Pasolini parla in casa - o causa - propria; ma conta più sottolineare il legame fra trauma (evento) e linguaggio (atto di significazione). È sulle modalità del manifestarsi di tale legame nel testo che intendo fermarmi, anche se in forma sommaria. Non si tratta, beninteso, di aprire ancora una volta dietro i libri di Pasolini il ventaglio di una storia psicologica, come è stato fatto troppo spesso, con risultati volentieri devianti. Resta esclusa la trouvaille biografica o peggio ancora la classificazione nosografica, da un excursus che vuole situarsi esclusivamente sul piano dell'economia della significazione. La domanda avanzata è, nell'insieme, questa: attraverso che processi lessicali, sintattici, prosodici, metaforici, di «posizione» - insomma: attraverso quale economia (proprio nel senso che il termine assume in Freud), il testo pasoliniano abreagisce al ripresentarsi del trauma? Deducendo, nemmeno troppo per scherzo, da be accentate. Del resto era questo il ritmo non solo dell'antica poesia egiziana, ma anche dell'antica poesia semitica come dell'antica poesia germanica. Ecco, ad esempio, come bisogna accentare il già citato componimento ginnico: «Daankiim, ngel né mfeeka I Lam la mi caalaa yuube». Vorrei avviarmi con lentezza alla conclusione, dicendovi ciò che la poesia africana, quella tradizionale come quella moderna, potrebbero dare, oggi, _alla poesia mondiale. Dunque, dopo che l'Asia, coi Sumeri, poi l'Europa, coi Greci, hanno preso dalle mani dell'Africa la fiaccola della civiltà umana, il nostro continente ha frequentato la scuola dei suoi due vicini. Tuttavia, da ciò che io chiamo la Rivoluzione del 1889, segnata da Henri Bergson e dal suo Saggio sui dati immediati della coscienza, le lettere e le arti sono molto cambiate. Di nuovo si è assegnato il primato alla ragione intuitiva sulla ragione discorsiva. Di nuovo, poiché i Greci, compreso Platone, se non anche Aristotele, lo facevano già. È questa rivoluzione del 1889 che ha permesso all'Africa di rientrare nel concerto delle nazioni, in quel XX secolo in cui si elabora la «Civiltà dell'Universale», per parlare come Pierre Teilhard de Chardin. Sono i suoi valori, più precisamente quelli della sua estetica, che hanno, nelle arti plastiche, influenzato le scuole francese e tedesca, il Cubismo e l'Espressionismo, come mi diceva Pablo Picasso. Ed è nella stessa epoca che la musica e il canto negro-americani, venuti dall'Africa, il jazz, gli spirituals e i blues invadevano l'Europa e il mondo, portandovi non solo nuove tecniche d'espressione, ma anche una vita spirituale nuova. E la poesia, benché troppo spesso lo si ignori, non era da meno. A questo scopo vi rinvio alla tesi di dottorato di un francese dell'Università di Dakar, Jean-Claude Blachère. È uno studio sulla poesia surrealista e si intitola Il modello negro. La realtà, ancota una volta, è che nel XX secolo l'Africa intera, dal Cairo al Capo di Buona Speranza, è tornata agli avamposti ·della civiltà umana, in alcuni suoi campi essenziali. Non si tratta di scienza, ma di arte letteraria, e, in questo ambito, dell'arte originaria, dell'arte maggiore che è la Poesia, vale a dire la Creazione nel senso etimologico della parola. Ciò che conta ora, ed è la mia conclusione, è che nella Civiltà dell'Universale che sarà quella dell'anno 2000, la Poesia riacquisti la sua centralità, tornando ad essere parole, canti e danza. E in questa direzione, nel Sénégal, nel quadro di attività del nostro «Teatro nazionale Daniel Sorano», si svolgono serate poetiche durante le quali i 1200 posti della sala sono tutti occupati. Questo perché le poesie, anche in francese, sono accompagnate da uno strumento musicale, quando non sono cantate o accompagnate da orchestra. E sono ritmate dai corpi, talvolta anche danzate. È del resto alla poesia africana che si ispira Maurice Béjart, il coreografo. Non è un caso se la sua troupe si chiama Balletto del XX secolo. È che anche Béjart ha scelto di creare una danza integrale, che è poesia che unisce, in simbiosi, la parola, il canto e la musica alla danza. Non è un caso se il padre di Maurice Béjart, Gaston Berger, il fondatore della Futurologia, una nuova scienza umana, era un meticcio franco-senegalese, nato in Africa. Gli antichi parlavano dell'Africa portentosa, che, sempre faceva nascere, aliquid navi, qualcosa di nuovo. Io mi auguro, terminando, che questo congresso, che si tiene nel continente che fa della poesia l'arte maggiore, perché integrale, sia, per la fraternità dei poeti, il segno di una rivoluzione poetica: di un aliquid navi. Note (Traduzione dal francese di Maurizio Cucchi) * È questo il testo della relazione letta da Léopold Sédar Senghor in occasione del VII Congresso mondiale dei poeti, svoltosia Marrakechdal 14 al 19 ottobre 1984. Dopo essersi rivolto al Segretario generale del convegno (Mimmo Morina), e a tutti i presenti, Senghor aveva fatto precedere il contenuto vero e proprio della sua relazione da queste parole: «Così, dunque, il Segretariato permanente e il Comitato internazionale hanno deciso di tenere in Africa, inMarocco, il nostro settimo Congresso mondiale, sotto l'alto patronato di sua Maestà Re Hassan Il. Vorrei, in primo luogo, a nome di tutti i poeti africani, dire quanto ci tocca l'onore fatto ali'Africa-Madre, poiché essa è stata, ed è ancora, essenzialmente una terra di poesia. Non dimenticherò di rivolgere il mio ringraziamento a Sua MaestàRe Hassan II, che oggi ci accoglie.A mio avviso, e io lo conosco bene, egli è uno dei più colti tra i capi di stato africani e in tutti i campi, soprattutto però nella poesia, e fa stanziare circa un terzo del budget n·azionaleall'Educazione, alla Formazione e alla Cultura. Il suo paese è uno di quelli che lavorano attivamente per favorire la simbiosi dell'Africa araboberbera e del!'Africa negro-africana. Pasolinip, oesia un titolo di Pasolini stesso (Trasumanar e organizzar), la questione si pone fra, il traumatizzar e l'organizzar, ossia investe i modi in cui il discorso poetico opera il rammendo o la compensazione del trauma. Un indizio supplementare che così facendo non si ricorra a nozioni estranee a Pasolini lo esibisce il bel saggio (pasoliniano) su Penna, che per buona parte--fuota intorno alla percezione di ';ma «qualità deformante» indott~' da Giuliano Gramigna «un trauma che sfugge a ogni diagnosi ... ». 1. Le carte d'appoggio di cui mi servo sono abbastanza casuali, nel senso di schivare ogni pretesa sistematizzatrice o esaustiva. Esse implicano, nei primi esempi, soltanto la traccia del trauma, il suo funzionare in absentia; altre lo dichiarano con eccesso di esplicitazione o addirittura lo agiscono, come quel testo;Una disperata vitali-_ Boston 2, 1974 tà, che sembra addirittura proporsi, nella stessa disposizione tipografica, in una sorta di acting out. Ho scartato la galleria di reperti fin troppo esposti che è L'usignolo della Chiesa cattolica. Prendo invece il poemetto che apre La religione del mio tempo, intitolato La ricchezza, del 1955-59. La sua prima sezione anticipa e condensa, "-ossia anticipa come un già convenuto la lesione in profondo che i segmenti successivi del poemetto «Il mio desiderio, in questa sede, è essenzialmentedi parlare del sensoche deve avere questa nostra riunione di poeti nella terra in cui l'uomo emerge dall'animale. Infatti, il primoCongresso internazionale di Paleontologia umana, che si è tenuto a Nizzadal 15al 21 ottobre 1982, ha confermato che l'uomo era emerso dall'animale in Africa, circa due milioni e mezzo di anni fa, e che il nostro continente era rimasto agli avamposti della civiltà umana fino all'Homo Sapiens. Io dico: fino alla creazione, in Egitto, con la scrittura, della prima civiltàumana degna di questo nome. Come ha scritto il paleontologo e filç,sofoPierre Theilhard de Chardin: 'E in Africa( ... ) che si può osservare, nel miglioredei modi, il formarsi, crescere, partire e ritornare, fino alla saturazione delle terre abitabili, la grande ondata dei popoli, delle tecniche, delle idee'. «Vorrei subito sottolineareche, al di là delle diversità esistenti tra i molti popoli del!'Africa, c'è fra di loro una profonda unità. La divisionein AraboBerberi e Negro-Africani, in Bruni e Neri è relativamente recente e, in parte artificiale, come provano le tavole numeriche dei gruppi sanguigni, che, soli, costituiscono la razza. Va detto soprattutto che i fondamentidelle loro diverseculture continuanoad animare, nel senso etimologicodella parola, la poes_iascritta di oggi». (1) E chiaro che, alla semplice lettura sullapagina, queste sonoRernoi «ripetizioni che si ripetono». E nell'esecuzione orale che lo stessoricorrente Dege le! può - o deve - ognivolta risultare variato. (2) Qui la ripetizione che varia è da cogliersi, invece (anche) sulla pagina, anche nella traduzione (che nell'originale di Senghor era, ovviamente, in francese). Si vedano il «Tutte» («tutti») del 2°, 3° e 4°verso, o il «più»e il «verso»nelle parti seguenti del testo~ (3) La t,_raduzionle tterale sarebbe «E vero». E stata leggermentemodificata nel senso per evidenti ragioni di rjtmo (con preferenza per la soluzione«Ecosì», rispetto a un più letterale, ma improbabile «Vero è»). Lo stesso Senghor, nel testo completo, traduce «C'est bien vrai!»; quando riprende a parlare di questa poesia, nel corsodella sua relazione, dice più fedelmente (si suppone... ) «C'est vrai!». si affanneranno a denominare - mentre qui resta un buco o risucchio inarticolabile se non per accumulo di metonimie; e condensa, ossia affolla stilisticamente mosse e suture che verranno moltiplicate con insaziabilità nelle sezioni successive. La lesione è ufficialmente deferita al personaggio che si inoltra, con stento e imbarazzo, fra gli affreschi di Piero della Francesca in S. Francesco d'Arezzo: trauma di estraneazione, di vedersi nel luogo dell'Altro. Il rilievo «con le sue rase I mascelle d'Òperaio» sembra collocare l'opposizione a livello sociologico, o meglio classista; ma il sintagma «quasi, indegno, i ne avesse turbata la purezza» sconvolge di colpo lo schema, per un pùro momento autobiografico di proiezione e di autodenigrazione, appunto pasoliniano ... I dipinti di Piero sono una lingua che insieme enuncia e copre qualche cosa, cioè una separazione primaria, già avvenuta altrove, un altrove che si ripete, uguale e diverso, qui ed ora, nell'atto in cui l'«umiliato sguardo» percorre e distingue i segni pittorici senza tuttavia renderseli familiari. In coerenza con l'implicazione tematica vedere/vedersi, questa sezione del "t- poemetto produce ciò che chiame- <::s rei un sogno iconografico, mo- .s mento che evidenzia la funzione ~ riorganizzativa di ciò che lo strap- ~ po ha catastrofizzato, assunta dal ...., lavoro simbolico. Vi si insedia e ~ (::! E qualcosa di simile a un'allucinazione, nel senso attribuito da Lacan di «passione del soggetto». ~ 2. Il centro è l'affresco intitola- ~ to Il sogno di Costantino: «notte, che acerba e senza stelle Costanti- ..(:) ~ (::!
no I circonda, sconfinando dalla terra I il cui tepore è magico silenzio... ». Si propone il sogno di un sogno, che è nel senso più stretto una figura, un eidolon. Basta richiamare un momento alla memoria questo affresco per accorgersi che esso si costruisce esattamente come un fantasma. La scansione dello spazio, isolando nell'angolo alto a sinistra, in diagonale rispetto al dormiente Costantino, ciò che chiamerei il contenuto latente del sogno cioè il protoplasma ambiguo d'angelo croce uccello, traccia idealmente, con la doppia cuspide della tenda e del panneggio, quella losanga, quel poinçon che connette/separa il soggetto dall'oggetto di desiderio nel ben noto algoritmo del fantasma. Se il testo pasoliniano ripercorre tutta questa organizzazione, un senso ci sarà. L a descrittiva degli ultimi versi evidentemente è rivolta a ben altro che riprodurre con un oggetto verbale un oggetto oculare, magari secondo la vecchia categoria dell'ut pictura poesis. «Ma qui, sul latteo tendaggio sollevato, / la cuspide, l'interno disadorno, / non c'è che il colore ottenebrato I del sonno: nella sua cuccetta dorme, I come una bianca gobba di collina, / l'imperatore dalla cui quieta forma / di sognante atterrisce la quiete divina... » «Quiete» s'arà il ponte verbale di passaggio al blocco successivo, dove appare un altro oggetto a, un tipico oggetto di desiderio pasoliniano: «la pia sera provinciale», «il cuore / campestre dell'Italia» (con lecito rimando al poemetto appunto detto L'Italia nell'Usignolo ... ). Lungo tale ponte lascarica del trauma (cancellato) viene deviata su un bersaglio contornabile: la costruzione ideologica di un mondo «originario», preistorico, pregrammaticale, che regredisce ben più lontano di Casarsa, naturalmente; «l'inconfessabile sogno di risolversi in natura», come dice Edoardo Sanguineti. 3. Però la quiete non è la verità di quel sonno/sogno rispecchiato nell'affresco, sulla cui natura la dicono lunga invece il «rantolo degli insetti», il «colore ottenebrato» e soprattutto l'allarme di «atterrisce». Si tocca il punto in cui il rammendo del trauma si dirada tanto da lasciare quasi trasparire lo strappo - per un'organizzazione che direi metaverbale. Che tale punto dolente non sia immediatamente collegabile alla storia concreta di Pasolini, semmai ne rafforza la verità. Mentre il resto del poemetto parla chiaro sulle ferite narcissiche (ma anche sociali) dell'autore a quell'epoca, perfino con un'enfasi che suonerà un po' pascoliana: «il desiderio di potere contare/ sul pane almeno, e un po' di povera lietezza... »; e via, con l'ossessione «di comunicare, amare, guadagnare»; con l'invocazione: «a un po' d'ordine, a un po' di dolcezza», al tavolinetto antico, alla camera da letto («un semplice lettuccio ... »); fino ai pianti (non di gioia) nel rimorso della Resistenza ... A questo punto vediamo un po' in che modo lavora !'«organizzar». Di fronte allo strappo, la poesia di Pasolini ricorre a una trascrizione, che è nello stesso tempo una compensazione, fondata sul pieno. Si ~ tratta, insomma, di otturare ogni ~ minima falla con un accumulo· di .i e:.. ~ °' ........ ~ ~ elementi, con un eccesso. In tale senso risulta rivelatrice la stessa struttura metrica, che tende a far massa con le sue strofe irregolari ma in qualche modo ossessive. L'ipermetria o l'ipometria degli endecasillabi cospira all'effetto di bloccaggio: andando oltre il carico ~ necessario nell'un caso, tagliando .!::) il fiato nell'altro. ~ ~ Dopo un'apertura quasi discorsiva, La ricchezza potenzia la sua concrezione di aggettivi, sempre più risentiti nella pasta espressiva, volentieri divergenti: si produce così un effetto di ·iperdeterminazione che concorre alla finalità generale di incistamento o di cryptisation - per mutuare un termine di Derrida - della traccia del trauma. 4. La ricchezza s'inscrive, pour cause, sotto Il sogno di Costantino. Sogni ricorrono con tale frequenza in Pasolini, che sarà impossibile non giudicarla significativa. Cito, almeno per contiguità, Calderon, dove si dà addirittura la proiezione dei personaggi dentro il dipinto, anche questo famosissimo, delle Meninas. Un sogno è l'introduzione e la chiave di Affabulazione. Nella opposta e complementare nudità del sogno contenuto in Uno dei tanti epiloghi, di cui l'autointerpretante dichiara «era il viaggio della vita», si arriverà a leggere l'avviso freudiano secondo cui i sogni che si verificano nelle nevrosi traumatiche obbediscono alla coazione a ripetere. E difatti: «quel sogno / di cui abbiamo parlato tante volte ... ». Lascio un momento questo filo del sogno per riprendere le modalità dell '«organizzar» pasoliniano, stavolta prelevando da Trasumanar e organizzar e da Poesia informa di rosa due altri esempi: La città santa e Una disperata vitalità: date, non prive di r~lievo;dei due volumi: 1971 e 1964. La città santa, che è una suite di quattro composizioni, dichiara teoreticamente la natura del trauma: «un luogo che non ho mai esplorato, UN VUOTO / NEL COSMO ... Chi c'è in quel VUOTO DEL COSMO?/ C'è il Padre, sì, lui! / Tu credi che io lo conosca? Oh, comè ti sbagli... ». Del Padre - qui insignito debitamente della maiuscola - lo scrittore non ha «alcuna informazione»: «l'ho frequentato in un sogno che evidentemente non ricordo ... »; «Nel vuoto dell'Altro I per me c'è un vuoto nel cosmo... »; «per me quel vuoto nel cosmo c1 sarà sempre ... ». Una ripetizione (coatta?) riconduce di nuovo ad A/fabulazione, alla battuta del Padre «Tutto ora comincia con questo sogno / sogno che io, però, non ricordo ... », che già implica uno scambio fra le posizioni del Padre e del Figlio. Si possono attivare i due testi l'uno con l'altro, credo senza commettere arbitrio; almeno fino al punto critico del quinto episodio, con il rovesciéimento chiasmatico che è la sostanza di quella pièce: «così davanti alla tua giovinezza... / il padre sei tu. / E io sono il bambino». E alla confessione, più oltre, che il Padre fa di se stesso come padre castrato, morto: «I padri, sappilo, sono tutti impotenti». Aggiungerò, di passaggio, che c'è un'indubbia intelligenza del discorso freudiano nel legare la ripetizione al fallo «Devi sapere, che tutto ciò ritorna e si ripete. I Ogni nuova erezione lo pretende», recitano due versi di Orgia). ( on La città santa, il male si trova enunciato a tutte lettere, troppe: è quel buco - meglio si direbbe forclusione - che oblitera il nome del padre. Tutto l'andamento della suite sta fra un discorso volentieri sconnesso e un dichiarativo stridulo. Il fatto è che la questione investita è la questione del sapere: «Ogni vuoto del mio sapere è un vuoto del cosmo / ed è là che risiede lui, non invisibile, no, ma mai visto». S'intende che liquidare quel Boston 19, 1974 «vuoto di sapere» mediante pura eloquenza o scarica confessoria è pia illusione. I versi lunghi, non dirò informi, di questa suite, attorcigliandosi, frantumandosi con cesure fraudolente, sballando con sapiente disprezzo gli appoggi fonici, simulano un potere liberatorio del riconoscimento del male che in ~ffetti non si dà. Ma sono osservazioni ancora generali. È possibile invece rilevare procedure linguistiche e retoriche specifiche, che vengono impiegate per 'attuare' il trauma originario, non semplicemente per nominarlo. Sul piano retorico saranno, ad esempio, le forme dello 'sproloquio'; dell"arringa', violentemente adibite, come testimonia anche il resto del libro; o la figura della 'voce', del canto quale sperpero libidico irraggiungibile (la poesia di Pasolini, malgrado tutto, è comandata da una repugnanza del godimento ... ): figura connessa con il personaggio di Maria, «grande fanciulla» legata alla cultura del Padre. A livello del linguaggio sarà l'emergere della funzione fàtica. Qui la faticità agisce, se così posso dire, come un pieno perfettamente vuoto, sfruttando costellazioni di termini deprivati di vero senso: «c'è il padre, sì, lui... », «eh, sì. ..», «te lo giuro». A questo punto, fàtico, tecnicamente, diventa anche il gioco di parole fra «porcospino» e «biancospino». Ho detto «agisce» non a caso, perché quest'uso, non meno della messa in scena del Padre e della Donna Adulta, produce una specie di acting out, in cui credo si possa intravedere l'altro procedimento, simmetrico a quello descritto per La ricchezza, con cui viene attuata la.difesa dagli effetti del trauma. Consiste in un diradare piuttosto che in un accumulare, scardinando invece di restringere gli spazi del discorso, anche a livello sintattico e prosodico. Si tratta di un «organizzar» in assenza della legge del Padre: il quale, peraltro, a credere a Lacan, «è colui che non sa niente della verità». Se la mettiamo su questo binario, la lettura della Città santa si delucida a ricordare che ciò che viene chiuso fuori dal processò di simbolizzazione riemerge nel reale come allucinazione. La suite pasoliniana adempie a questo tragitto con irresistibilità quasi involontaria. Se le prime tre composizioni figurano un chiudere fuori tanto netto quanto è violento l'enunciato, nell'ultima, La baia di Kingstown si può sorprendere ciò che ricompare fatalmente con forma allucinatoria: il grumo corporeo della Cosa, «i lombi immondi di donna, di carne d'uomo I non fatta a somiglianza di Dio, preda del serpente». Un cerchio si chiude, a meno non si voglia riconoscere che un altro subito se ne apre. 5. Trasumanar e organizzar, questo libro innovativo (per Pasolini) e plurimo, di là da certi quasi insopportabili spiegamenti di umor pedantesco, è il contenitore perfettamente adeguato alla Città santa e al senso che ho creduto di individuarle. In Trasumanar e organizzar si «sentono voci» - non altrimenti di quanto accade al presidente Schreber. Non mi riferisco solo al fatto che vi pullulano i passi in cui l'atto di enunciazione è messo direttamente o indirettamente a carico di una figura, di una «maschera», poco importa se storica: da Pio XII a san Paolo, a Giovanni in Patmos, ali' «orfano di von Spreti», a Nixon ecc: prosopopee o ipotiposi, magari, secondo retorica, ma qui segni di un processo di decentramento insieme subìto e progettato. In effetti, l'intera struttura del libro e il suo linguaggio rispondono a una necessità paranoide. Che complessivamente esso abbia retto (abbia diretto?) tali sfaldamenti, dislocazioni vocali e acustiche con rigore tanto più ostinato quanto più s'alleava, a tratti, con qualche manierismo dell'informe, può lasciare ancora il lettore ammirato. Le voci attraversano indifferentemente il Fas e il Nefas, del resto chiamati in causa in una poesia (Riassunto per un «Digest» del «Poema politico»).· Il poeta Pasolini si ribattezza, con perfetta pertinenza, «poeta dilettante», se il dilettante è colui che non finisce mai di far coincidere l'istituzione (magari l'istituzione poetica) e il godimento. 6. Trasumanar e organizzar fo-. calizza dunque non dico un punto d'arrivo ma un punto bloccato del discorso del soggetto nella poesia di Pasolini. Esso si può sintetizzare così: l'Altro (sarà un caso se Dio compare di quando in quando in forma denegativa- «Non si tratta di Dio!» nelle ricorrenti note a questi poemi?) lo ha lasciato en panne. La storia - o traccia - occultata-ravvivata come si è visto dagli eccessi di una compensazione, è diventata una storia morta. Il Fase il Nefas, ciò che si può e ciò che non si può dire, hanno relazione con la verità? Pasolini realizza che l'Indicibile si può tentare di dirlo fingendo di dirlo, mentre se ne riconosce apertamente, quasi istituzionalmente, la finzione. L'esempio tipico lo trovo nella poesia Una disperata vitalità, che peraltro fa parte del volume antecedente, Poesia informa di rosa, e che conferisce qualche supplemento alla dimostrazione del «traumatizzar». Quale comunicazione si può immaginare più «dicibile», in presa diretta e falsa, dell'intervista? Una disperata vitalità è per l'appunto un'intervista immaginaria, che mescola frammenti di koiné giornalistica, didascalie, lembi di romanzo familiare, digests storico-culturali, mitografie e aulicità metriche in figura di momentanee regressioni. Ciò che non «poteva dire (o sapere)/ ma c'era», eccolo sventrato e attivo nell'istante, nel farsi. Legata a nient'altro che una spasmodica corrente narcissica, questa poesia si presenta contemporaneamente come un massimo di sincerità e di falsificazione. Segnalo almeno un aspetto, ancorché laterale ma godibile, dell'acting out, intinto di ciò che chiamerei, con modificazione minima, la belle bouffonnerie des hysteriques: la danza delle marche grammaticali di genere nel sintagma che designa l'intervistatrice: da «il cobra con la biro» a «il cobro con il bi- .-ro», a «la cobra con la biro», ecc. Vi si potrebbe leggere una specie di degradazione beffarda del meccanismo di scambio delle identificazioni parentali (ma anche sessuali) «padre/figlio», cui si è accennato a proposito di Affabulazione; che richiama a quel meccanismo 'logico' di inversione del verbo, dell'agente, dell'oggetto, che mette in moto la paranoia - come del resto dimostra •Freud trattando del caso Schreber. 7. Può arrestarsi qui un primo tracciato che riconosca certe relazioni fra economia delle forme letterarie e vicissitudini delle energie psichiche. Questo tracciato fa avanzare, anche di poco, la comprensione di Pasolini poeta? In ogni caso, scavalcando comode equazioni fra vissuto (supposto) e sua espressione, suggerisceun qualche funzionamento essenziale della scrittura in quanto realtà globale del soggetto.
11 «teatro di parola» di Pier Paolo Pasolini, come egli stesso lo definì, nasce anche da un'ammirevole furia polemica· contro il teatro così come lo si praticava in Italia nella prima metà degli anni Sessanta. Tale polemica non può, oggi, essere occultata o giudicata «poco interessante>►, a meno che non si voglia rendere innocua e inoffensiva la sua opera, che rimane invece fortemente attuale anche per la sua persistente carica aggressiva, sia politica sia letteraria. A parte le primissime esperienze giovanili, in Friuli, in veste di demiurgo-regista, come ci ricorda Attilio Bertolucci, un precedente significativo delle sei «tragedie» (e la definizione è ancora di Pasolini) è la traduzione del Miles gloriosus di Plauto, con il titolo Il vantone, dell'inizio degli anni Sessanta (l'edizione Garzanti è datata dicembre 1963) eseguita «su ordinazione». Nella breve e, come al solito, acuta e provocatoria nota introduttiva, Pasolini, nell'esporci i gravi problemi che l'impresa aveva comportato, comincia la sua polemica che chiamerò «di fondazione». Qui, come in altre circostanze, è opportuno cedergli la parola. Ecco: «Per che palcoscenico, dunque, per che spettatori traducevo io? Dove potevo trovare una sede dotata di tanta assolutezza, di tanto valore istituzionale? Nel teatro dialettale, sì, ma il testo di Plauto non era dialettale. Del teatro corrente, ad alto livello, in lingua, mi faceva (e mi fa) orrore il birignao». Proprio su questo «birignao», su questa insofferenza dettata da un rifiuto quasi istintivo tornerà, e vedremo tra poco come. Conviene, per un momento, continuare su Plauto ed esaminare la soluzione che trovò: «Beh, qualcosa di vagamente analogo al teatro di Plauto, di così sanguignamente plebeo ( ... ) mi pareva di poterlo individuare forse soltanto nell'avanspettacolo (, ..) È a questo, è alla lingua dell'avanspettacolo che, dunque, pensavo - a sostituire il 'puro' parlato plautino. Ho cercato di mantenermi il più squisitamente possibile a quel livello. Anche il dialetto da me introdotto, integro o contaminato, ha quel sapore. Sa più di palcoscenico che di trivio. Anche la rima, da me inaspettatamente, credo, riassunta, vuole avere quel tono basso, pirotecnico». Ecco il gioco straordinario delle rime (che tornerà in altri luoghi teatrali) a tenere «squisitamente» alto il gioco di un dialetto reinventato per un avanspettacolo nobilitato da uno stile del tutto inusuale. Si ripresenta dunque qui, indirettamente, quella questione e ossessione dello stile che percorre come un filo conduttore tutto il suo lavoro, in tutti i campi, e che nel teatro si svilupperà in modi aperti e complessi, in parallelo col suo linguaggio cinematografico, nell'affrontare i problemi della particolare e intollerabile artificiosità della lingua italiana. Aveva scritto su Officina (n. 910, giugno 1957) in «La libertà stilistica», che: «Lo sperimentalismo stilistico, dunque, che non può non caratterizzarci, non ha nulla a • che fare con lo sperimentalismo novecentesco - inane e aprioristica ricerca di novità collaudate - Pasolinit,eatro ma, persistendo in esso quel tanto di filologico, di scientifico o comunque cosciente, che la parallela ricerca 'non poetica' comporta, esso presuppone una lotta innovatrice non nello stile ma nella cultura, nello spirito. La libertà di ricerca che esso richiede consiste sopratutto nella coscienza che lo stile in quando istituto e oggetto di vocazione, non è un 'privilegio di classe': e che dunque, come ogni libertà, è senza fine dolorosa, incerta, senza garanzie, angosciante». Il corsivo è mio, ma avrei voluto anche sottolineare, e lo faccio subito, che lo stile per Pasolini non sarà mai un punto di arrivo, mai quello che ora da alcuni viene chiamato un «grande stile», ma sempre e ovunque sinonimo di ricerca. Pasolini non fu neo-classico, né sognò un ritorno a quella «purezza» che fu definita «classica» solo da alcuni classicisti; pensò piuttosto alla riconquista di un assoluto della forma che ricomponesse, per mezzo di una fusione sincretica, storicamente fondata dall'uomo, in unità stilistica tutte le possibili stratificazioni dell'esperienza personale e sociale. Era così, per esempio, che leggeva l'architettura antica (come si può vedere nello stupendo breve film intitolato La forma della città, in cui Pasolini, intervistato, risponde esplorando, con la macchina da presa, la città di Orte). Ma torniamo alla scrittura teatrale, così come l'ha puntualizzata Pasolini in un'intervista a JeanMichel Gardair per il Corriere del Ticino (13 novembre 1971): «Nel '65 ho avuto l'unica malattia della mia vita: un'ulcera abbastanza grave, che mi ha tenuto a letto per un mese. Durante la prima convalescenza ho letto Platone ed è stato questo che mi ha spinto a desiderare di scrivere attraverso personaggi. Inoltre, in quel momento avevo esaurito una mia prima fase poetica e da tempo non scrivevo più poesie in versi. Siccome queste tragedie sono scritte in versi, probabilmente avevo bisogno di un pretesto, di interposte persone, cioè ·di personaggi per scrivere versi. Ho scritto queste sei ~ragedie in pochissimo tempo. Ho cominciato a scriverle nel '65 e pratiAntonio Porta camente le ho finite nel '65. Soltanto che non le ho finite. Non ho finito di limarle, correggerle, tutto quello che si fa su una prirpa stesura. Alcune sono interamente scritte, tranne qualche scena ancora da aggiungere. Nel frattempo sono diventate un po' meno attuali, ma allora le dò come cose quasi postume». Dunque a cose quasi fatte Pasolini stenderà il suo «Manifesto per un nuovo teatro», pubblicato su Nuovi Argomenti, n. 9, gennaio-qiai::zo1968. Ciò però non significa, naturalmente, che non sia stato pensato e previsto prima o durante la stesura delle tragedie, in una contemporaneità di scelte ideologiche, poetiche e stilistiche che è caratteristica tipica della letteratura di ricerca, come dimostra Merida36, 1974 la citata nota alla traduzione di Plauto. Ora sono sostanzialmente due le preoccupazioni che nel «Manifesto» affronta e cerca di sciogliere: la lingua italiana e i linguaggi teatrali in atto, quasi come una conseguenza inevitabile, e il pubblico cui il suo nuovo teatro si rivolge. Il rifiuto dei precedenti linguaggi teatrali è duplice. Non sono più sopportabili né i nipotini stanchi delle avanguardie rimaste vitali fino al declino del Living, e tanto meno il «birignao» per cui aveva già manifestato orrore. Questi rifiuti torneranno nella nota introduttiva (del 1975) a Bestia da stile; ciò che interessa di più, a questo punto, è delineare le soluzioni che Pasolini propone e che ha tentato di mettere in atto, sia pure in modi non sempre definitivi, nelle sei tragedie seritte (o abbozzate) in quei pochi mesi del '66. 11 «teatro di parola» deve opporsi al teatro della «chiacchiera» e del «birignao», come a quello puramente gestuale delle avanguardie, portando in scena il linguaggio della poesia; sarà dunque un teatro in versi, capace di recuperare quell'oralità che sta all'origine della poesia stessa. Oralità che va inserita nello spazio rituale del teatro che cessa così di essere teatro sostanzialmente borghese, sia in senso negativo (quello delle avanguardie, appunto) ' che 'positivo', in quella inutile e leccata ripetitività che il teatro ufficiale si incarica di tenere in uno stato di vita apparente. Scrive Aurelio Roncaglia nella preziosa nota al secondo volume del teatro pasoliniano: «Teatro dunque, ma anche - e nel senso più radicale - Poesia: propriamente Teatro di Poesia». E giustamente mette in rilievo altre dichiarazioni di Pasolini, citando un articolo che egli scrisse per il quotidiano milanese Il Giorno (1 ° dicembre 1968): «Questo nuovo tipo di teatro che io chiamo 'teatro di parola'» (dove il passaggio alla minuscola connota l'acquisita familiarità con l'idea) è un misto di «poesia letta ad alta voce e di convenzione teatrale sia pure ridotta al minimo ( ... ) 'Poesia orale', resa rituale dalla presenza fisica degli attori in un luogo deputato a tale rito». Soltanto il linguaggio della poesia è in grado di risolvere il proble0 ma, apparentemente insolubile, dell'eccessiva artificiosità della lingua italiana (una delle cause principali del «birignao» del teatro), sommando due convenzioni, quella del verso e quella del luogo rituale. Il verso che ridiventa «orale» e il rito che si ripropone come evento socialmente rilevante. Su questo secondo punto si innesta il problema del pubblico cui Pasolini si rivolge. Ma prima di affrontarlo occorre rilevare quanto egli abbia anticipato i tempi nel riproporre pubblicamente la necessità di un ritorno alla poesia orale anche in funzione di un certo pubblico dal profilo ancora non ben decifrabile e sulla cui esistenza pochi erano disposti a scommettere. Nel punto 15 del «Manifesto» Pasolini si chiede: «Sarà possibile una coincidenza, pratica, tra destinatari e spettacolo?». E rispondeva: «Noi crediamo che ormai in Italia i gruppi culturali avanzati della borghesia possano formare anche numericamente un pubblico, producendo quindi praticamente un proprio teatro: il teatro di Parola ... ». La sua convinzione è profonda e viene così accentuata: «a) il teatro di Parola è - come abbiamo visto - un teatro reso possibile, richiesto e fruito nella cerchia strettamente culturale dei gruppi avanzati di una borghesia; b) esso rappresenta, di conseguenza, l'unica strada per la rinascita del teatro in una nazione in cui la borghesia è incapace di produrre un teatro che non sia provinciale e accademico, e la cui classe operaia è assolutamente estranea al problema ... ». È evidente che queste affermazioni hanno pure un forte significato politico, destinato per molto tempo ancora a essere rimosso. L'utopia o sarebbe meglio dire la visione di una possibile socialità dello stile, dal linguaggio della poesia al teatro di parola, rimane dunque il filo conduttore del lavoro di Pasolini. Ora sono in molti (o almeno più di allora) a condividere l'idea-progetto di una sociabilità della poesia e di una possibile forma nuova di comunicazione ad essa legata; quando egli cominciava a indicarne il tracciato questa proiezione rimase pressoché invisibile. In nome di questa ricerca Pasolini rifiutò anche il «teatro del Gesto o dell'Urlo» che aveva il torto non tanto e non solo di rappresentare una semplice «conferma, pure rituale, delle convinzioni antiborghesi» dei suoi destinatari, come scrisse nel punto 14 del «Manifesto», ma soprattutto perché mancava di stile, o quando lo raggiungeva ritornava accademia, del Gesto o dell'Urlo. Pasolini non fu neo-classico, ho accennato all'inizio, e bisogna ribadirlo, a questo punto, perché l'idea di una socializzazione dello stile può facilmente condurre al varo di uno stile egemone, il che significa, oggi, recuperare gli stili egemoni, del passato, dunque ricorrere agli anacronismi, ai remake, al citazionismo, che si travestono come ricerca allo scopo di occultare il prezzo che si deve pagare alla reazione per occupare un mercato forse immaginario. Pasolini rimase fedele a ciò che aveva scritto in Officina nell'articolo citato. Allora gioverà chiedersi in che modo il suo stile è andato via via mutando soprattutto per merito di quell'intuizione teatrale di recupero dell'oralità della poesia. Fu costretto, muovendosi in questa direzione, a scrivere «non più in terzine», come dice in quella straordinaria poesia che s'intitola Una disperata vitalità, eminentemente teatrale, a cominciare dal suo spunto dialogico (intervistatrice-intervistato), e la cui data finale, il 1964, arriva quasi alle soglie di quell'anno di grazia, il 1966, in cui scrisse o abbozzò le sei tragedie. Mi pare inoltre opportuno ricordare che nel 1968 lesse quest'a poesia a Roma, al Teatro del Porcospino, di fronte a un pubblico tesissimo e partecipe (segnale che i tempi stavano già maturando in favore dello stile della poesia ... ). L 'opera di gran lunga più importante di tutto il percorso stilistico di Pasolini è l'ulti- ~ ma, la più incerta e sofferta delle sei tragedie, Bestia da stile, per me I:! "i Cl. un capolavoro, a cominciare dal ~ bellissimo titolo, che sintetizzava ~ il suo «pensiero dominante». Stia- e ~ mo attenti alle date che egli ci ha c::s indicato nella breve nota introdut- E tiva che cercherò poi di interpreta- ~ re anche in un punto di rimozione. Dice: «Ho scritto quest'opera tea- ~ trale dal 1965 al 1974, attraverso Ì continui rifacimenti, e quel che ~
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