lare di cambiare teatro o società, che oggi possiamo liberarci, in gran parte, del legame con un solo tipo di organizzazione teatrale. Nella vita di un gruppo, come in quella di un individuo, viene il momento in cui le condizioni per una certa sicurezza sono consolidate. Ci si trova, allora, nell'alternativa fra routine e accumulazione. Per sfuggire alla morsa è importante a questo punto imparare a conoscere in quale direzione proiettare le proprie energie. È il momento critico quando il filo rischia di rompersi. Ognuno, per sfuggire alla morsa, cerca una sua strada. La spinta diventa così centrifuga, da frantumare il gruppo in progetti individuali o fughe verso l'esterno per cercare ossigeno, nuove sfide, nuove relazioni. Spesso si crede che in un gruppo di teatro, unità fra diverse persone significhi assomigliarsi. Al contrario: bisogna cercare la differenziazione reciproca, se si vuole raggiungere la totalità. È attraverso questo processo di differenziazione, basato sulla fiducia degli uni verso gli altri e sulla mancanza di illusioni, che si forma un solido terreno unitario al di sotto delle. differenze. L'unità superficiale, invece, anche quando è unità di idee o di intenzioni, è spazzata via al primo vento. In termini professionali si può tradurre così: se guardando un gruppo di attori si vede il lavoro dell'uno assomigliare al lavoro dell'altro, quasi sempre significa che essi hanno solo qualche teoria in comune, consumata la quale lo sviluppo artistico rischia di deperire. È un buon segno quando il lavoro dei singoli attori di un gruppo comincia a svilupparsi lungo linee così diverse che l'una sembra non aver più rapporto, dal punto di vista tecnico ed estetico, con l'altra. La differenza, la disomogeneità dei risultati è forse una delle prove più credibili di una profonda unità di metodo. Questa unità di metodo alimenta solo l'impulso che spinge ognuno a percorrere la propria strada fino ad incontrare se stesso e la propria visione, non la visione del maestro. Cosa resta, alla fine, della relazione fra colui che fu maestro e colui che fu allievo? La ricerca della propria strada significa ricerca della solitudine? Raccontando storie di aquiloni Mi è stato raccontato di una discussione fra gruppi di teatro. Qualcuno sosteneva che l'Odin Teatret era l'esempio di un gruppo che aveva aperto una strada lungo la quale altri potevano andare. Era, si diceva, l'esperienza di un'avanguardia, nel senso in cui la parola vfone usata in politica, non nel senso 1 i'r1 tui è usata nei contesti artistici. Allora uno disse: «Questa rion può essere la nostra relazione con un gruppo come l'Odin Teatret». «E perché no?», chiese qualcuno. «Perché l'Odio Teatret è come un aquilone», rispose il primo. Glielo avevano detto gli I Ching. Immagino che alcuni cominciassero a sorridere. Ma l'altro, sempre più sicuro di sé, cominciò a spiegare. Non era la sua personale opinione: ci credessero o no, era l'opinione dell'oracolo. Stessero dunque a sentire: sbagliano quelli ~ .5 che credono, pensando all'Odio g,o Teatret, di trovarsi di fronte a un ~ gruppo forte, dai solidi legami qua ~ e là per il mondo. L'Odio Teatret ...... .Sl è molto più fragile, molto meno l:: potente di quanto appare: solo.un :2 esile filo lo assicura a terra. Ma lui ~ è importante perché esplora i ven- ~ ti. È insensato voler seguire i suoi sentieri senza terra. Così aveva ~ detto l'oracolo e aveva aggiunto: ~ «Voi orientatevi coi venti, ma se- ~ guite i corsi d'.acqua». È impossibile, infatti, trasmettere in eredità l'armonia dei venti, il loro accordo continuo e mutevole. La storia del teatro è percorsa spesso da viaggi che non trasmettono rotte. Vedendo gli spettacoli del Berliner Ensemble negli anni Cinquanta, e poi quelli di Grotowski negli anni Sessanta, si aveva, malgrado le molte leghe che li dividevano, la stessa sensazione di giustezza, della presenza di un' «armonia» per cui un cercare personale diventava qualcosa di oggettivo, ma per strade cosl sue - per l'armonia dei venti, appunto, che guida il volo di un solo aquilone - che sembravano escludere ogni possibilità di ripetere il processo da cui quei risultati nascevano. Anche gli spettatori di Stanislavskij, all'inizio del secolo, debbono aver avuto la stessa sensazione di una nuova personalissima armonia. Armonia non è bellezza statica, ma proporzione attiva, movimento in quiete. Il bisogno di armonia non è il bisogno di trovare la soluzione di un problema, ma l'impulso a cambiare di posto alle cose in un modo spesso difficile da spiegare anche a se stessi. L'armonia è accordo tra tensioni. Se sento la mancanza di qualcosa per me essenziale, l'accordo in me non è perfetto. È come se un frammento di vuoto sia lì in me e volessi colmarlo e per questo mi .mettessi in moto. Questo essere in viaggio per trovare come placare il vuoto rivela il senso di ciò che mi spinge e che mi nutre. Immaginiamo un uomo di costituzione debole, con una mano quasi invalida e gli occhi che non vedono lontano, in un'epoca in cui lo studio delle stelle e dei pianeti si svolge ad occhio nudo e richiede una tempra forte per restare notte dopo notte ad osservare il cielo. Johannes Kepler è quest'uomo che sembrava negato all'astronomia. Egli è ossessionato dal bisogno di risolvere il mistero del Creato e i segreti della sua armonia: perché vi sono - si domanda - sei pianeti (tanti se ne conoscevano a quei tempi) e non venti o trentadue? Perché li dividono proprio quelle distanze? Perché si muovono a quella data velocità? Domaride inutili e ancora più strani i modi attraverso cui cerca le risposte: pensando che le diverse distanze dei pianeti stiano fra di loro in un rapporto che corrisponde alla successione dei poliedri regolari e agli intervalli delle note nella scala musicale. Quale metodo per le scoperte scientifiche avrebbe mai ·potuto trasmettere Johannes Kepler ai suoi allievi? Eppure, attraverso le personalissime ossessioni mistiche e pitagoriche che l'hanno guidato, ha scoperto che l'orbita dei pianeti è ellittica, che l'ipotesi di Copernico che pone al centro il sole è dimostrabile, e decine e decine di altri fatti che rivelano per la prima volta che le stessi leggi valgono per la terra e per il cielo: le basi per la gravitazione universale che Newton fisserà meno di un secolo dopo. Oggi molti ~tudiosi mostrano che esiste un contesto segreto, privato, della scoperta scientifica che non si. identifica con le giustificazioni di un'evoluzione razionale delle idee. Paradossi, ragionamenti che sembravano irragionevoli, pregiudizi, passioni personali e la tenacità del ricercare si combinano, a volte, in una nuova armonia fra la sfida solitaria e il suo risultato pubblicamente convincente. Una lotta personale, che mai potrebbe tradursi in un metodo universalmente valido, guida i più grandi fra i matematici a cercare una sorta di bellezza, di simmetria estetica, simile al bisogno che spingeva il musicista del romanzo di Thomas Mann a cercare un'armonia figurativa fra le note disposte sullo spartito. Poincaré diceva che, per il matematico, la ricerca di1 un'armonia estetica, «sconosciuta ai non iniziati», è centrale per la nascita delle nuove idee. Come nella storia della scienza, anche nella storia dell'arte e in quella dei teatri l'essenziale si nasconde sotto lo svolgersi dei metodi, sotto gli intenti pedagogici e il trasmettersi del sapere. La parola «armonia» indica il senso di questa lotta personale alla ricerca di nuove tensioni che ricreino la vita, diano un senso rinnovato a ciò che ha perso senso e che lo sta perdendo. Non nuovi fatti, ma nuove relazioni fra i fatti. Quando nell'arte o nella scienza volano gli aquiloni, quando queste tensioni e queste ricerche indicano nuovi risultati che hanno valore anche per l'ambiente circostante, sembra che si sia accumulato un gruzzolo da lasciare in eredità a chi verrà dopo di noi o a chi ci vuol seguire. Allora, apparentemente, c'è molto da insegnare. Eppure sappiamo che i risultati rischiano sempre di divenire zavorra. E che l'essenziale era nell'incrocio fra il nostro personale senso di vuoto, il nostro accanimento a placarlo, e i venti. Tutto questo non lo si può trasmettere. È la zona del silenzio. Parlare è un dovere. Proprio perché l'essenziale è muto. Bakhchanyan, New York Come si tace l'essenziale Ciò che determina i risultati sono le motivazioni, non solo le vie della ricerca. Eppure, l'unica cosa che si può trasmettere è la via che si è percorsa. Non sempre: in un lungo rapporto faccia a faccia è possibile passare ad un altro tutto ciò che si è accumulato in anni di esperienza, senza mai parlare dell'essenziale. È il caso del rapporto gurushishya nella tradizione teatrale orientale. Eppure, questo silenzio, alla fine, trasmette qualcosa, all'insaputa dell'uno e dell'altro, in maniera non prevista, secondo una logica superiore a quella di ogni sapienza pedagogica. Un vero rapporto di trasmissione implica anni e anni, un atteggiamento preciso dell'allievo verso i valori che il maestro rappresenta. Allora, più che il maestro, è il tempo e le correnti dei suoi venti che lasciano un'impronta. Più che la consapevolezza dell'allievo, è la sua coscienza subliminale che assorbe accenni a ciò che per lui è essenziale. Un vero rapporto di trasmissione riguarda pochissime persone. Ciò.che passa fra loro è, in fondo, un nocciolo di silenzio attivo nascosto nella polpa d'un sapere quasi scientificamente formulabile. Quando il rapporto pedagogico si apre e riguarda una cerchia più ampia di persone, rimane solo la polpa. Quando poi si passa dalla relazione diretta alla parola scritta, e chi scrive non può conoscere colui per cui scrive, le parole diventano di marmo e perdono il loro silenzio. Per questo, oggi, Stanislavskij o Brecht, Copeau o Grotowski, e molti altri che furono maestri e viaggiatori del Paese della Velocità sembrano statue. C'è allora un modo di trasmettere la propria esperienza, di accennare anche all'essenziale, sfuggendo, però, alla degradazione che minaccia ogni allargamento del raggio della propria parola? Bisognerebbe che la parola, non più trasmessa faccia a faccia, perdesse la pretesa di tradurre una volontà di dire. Bisognerebbe che si ritraesse in una zona al di qua del suo oggetto, che restasse in agguato. È questo stare in agguato per cogliere qualcosa di cui non si dice nulla che la parola scritta può trasmettere. Si rivestirà allora di sapienza artistica e di esperienza, indicherà regole e scoperte. Ma il suo più vero valore - se riuscirà a conquistarlo - sarà nell'essere una forma di non-dire dicendo. Più si cerca di avvicinarsi, con la parola scritta, al senso della trasmissione orale, più ci se ne allontana. E più ci se ne allontana, più in realtà ci si avvicina. Così mi sono detto: non cercare di insegnare nulla sull'espressione artistica. Attéstati in agguato nei territori del lavoro pre-espressivo. Non cercare di trasmettere il calore con parole calde. Cerca di catturare il caldo con il freddo di un discorso privo di emozioni. Non voler 'descrivere ciò che di più fecondo hai trovato nel corso della tua esperienza. Parla dell'arido lavoro che precede la vera esperienza. Ma perché? Per chi? Perché, se noi stessi abbiamo cercato il teatro come uomini che hanno fame di vento, per placare il vuoto, per vivere come isole galleggianti lontane dalla terraferma? Per chi trasmettere? In molte occasioni, negli anni della mia professione teatrale, diverse persone mi hanno posto la stessa domanda: per chi fai teatro, tu? Ho risposto in molti modi: ho aggirato la domanda, oppure l'ho analizzata. Ho lasciato capire che facevo teatro solo per me, oppure per due o tre persone ben conosciute, o per uno spettatore assente e presente, che mi immagino sempre accanto durante il lavoro, e il cui giudizio è per me la misura dell'obiettività. Oggi penso sempre più spesso di fare teatro per coloro che avranno vent'anni nel 1994, coloro che nascevano quando l'Odio Teatret faceva Min Fars Hus, la Casa del Padre. Credo che questa, per il momento, sia la risposta più vera a quella domanda che tante volte mi è stata posta. Ma è anche la rispota che più si affaccia sul vuoto, perché significa fare un teatro che sparisce per 'Spettatori ancora non !1pparsi. Nel cuore «O_Jnivolta che le fondamenta cominciano a tremarti sotto i piedi, ogni volta che non sei più sicuro della stabilità delle tue esperienze passate - così mi consigliava Grotowski - ritorna alle tue origini». Eravamo seduti al ristorante di una stazione ferroviaria polacca, un quarto di secolo fa. E aggiungeva: «È quello che consiglia anche Stanislavskij: ritorna alle origini, ritorna indietro al tuo primo giorno nel teatro. È il tuo primo giorno di lavoro che determina il senso del tuo cammino». Maledetto teatro Verso nuovi assetti Spazi de1la ricerca e ricerca di spazi Incontro internazionale Prato, Teatro Fabbricone 4 e 5 marzo 1985 Sono presenti i principali gruppi teatrali italiani e i teatrologi coinvolti nella ricerca. Rapporti dagli Usa, Francia, Germania Per informazioni telefonare al (0574) 464.339 Guida editori x: I .F, :\.1poli - , i.1 \',nt.1glii:ri X ì 1,1. (:!il) .HIX-tì Archivio del romanzo Carlo Dossi IL REGNO DEI CIELI. LA COLONIA FELICE Pref. di G. Oavico Bonino A cura di T. Pomilio pp. 175 Lire t 8.000 CAnO Dossi li Regno dei Cieli. LaColonia fclico Giovanni Rajberti IL VIAGGIO DI UN IGNORANTE A cura di E, Ghidetti pp. I94 Lire 18.000 Richard Beer-Hofmann LA MORTE DI GEORG A cura di L.M. Rubino Con un saggio di G. Lukacs pp. 157 Lire 18.000 R1CHA.llO BEEll•HOPMANN La mone di Gcorg Théophile Gautier ARRIA MARCELLA. JETTATURA A cura di P. Tortonese Pref. di L. Sozzi pp. 151 Lire 12.000
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