Alfabeta - anno VII - n. 69 - febbraio 1985

Tendenze di ricerca/Teatro OdinTeatret,storiae oggi Nel numero scorso ( Alfabeta n. 68) abbiamo inaugurato con interventi di A. Gargani (Epistemologia) e K. Stockhausen (Musica) una nuova serie di scritti dedicata alle «Tendenze della ricerca». Estendiamo ora l'argomento alla ricerca nel teatro con gli scritti di Eugenio Barba e di Antonio Attisani; prevediamo di avviare il dibattito anche in altri campi. «Qualunque frase io dica, non deve essere intesa come un'affermazione, ma come una domanda». Niels Bohr A lcune persone nascondono le loro infermità, le seppelliscono nel più profondo di sé. Alcuni malati di cuore per esempio rifiutano di vivere come invalidi che debbono misurare ogni loro passo. Continuano la loro vita normale, ma coscienti del vuoto. Dopo l'ultima pagina, viene la prima: questa premessa, che potrebbe essere la conclusione del libro, ne è l'inizio. Questo libro è costruito con testi che si riferiscono ad una biografia professionale e all'attività di un gruppo di teatro caratterizzate d,i condizioni e necessità particolari. Ne elenco alcune: - il non esser stati, per lungo tempo, accettati; - l'aver accettato che gli altri non considerassero necessario il nostro lavoro; - il bisogno di cambiare noi:stessi senza cambiare gli altri; - la necessità di inventare il nostro sapere teatrale partendo dalla condizione di autodidatti; - l'esigenza di una disciplina che ci rendesse liberi; - il desiderio di rimanere stranieri; - l'impulso a viaggiare lontano dai territori in cui vive normalmente il teatro; - l'incontro con altri 'emigranti'; · - la profonda convinzione che il teatro non può che essere rivolta; - la ricerca .del modo in cui trasmettere il senso della rivolta senza essere sopraffatti; - la scoperta di un legame con persone e gruppi di persone che vivevano in condizioni simili a quelle in cui anche noi vivevamo o eravamo vissuti; - la scoperta di un sub-strato comune che dividiamo con maestri lontani nel tempo e nello spazio; - la consapevolezza che la professione del teatro proviene da un atteggiamento esistenziale in un unico paese trans-nazionale e trans-culturale. Questo paese mi è a lungo apparso come un arcipelago. E le sue isole come isole galleggianti. Ho usato un paragone storico: un episodio minore della storia del Nuovo Mondo racconta di uomini che abbandonarono la sicurezza della terraferma per condurre una vita precaria su isole galleggianti. Per rimanere fedeli ai loro desideri, costruirono villaggi e città, oppure misere dimore con un pugrio di terra per orto, là dove sembrava impossibile costruire e coltivare qualcosa: sull'acqua e nelle correnti. Erano uomini che, o per necessità personali, o perché costretti, sembravano destinati ad essere asociali e riuscirono a creare altri modelli di socialità. L'isola galleggiante è l'incerto terreno che può perdersi sotto i piedi, ma che può permettere l'incontro, il superamento dei limiti personali. Ma al di là delle isole galleggianti, cosa esiste? Che cosa o chi si incontra? I viaggiatori della velocità Esistono persone che abitano una nazione, una cultura. Ed esistono persone che abitano il proprio corpo. Sono i viaggiatori che attraversano il Paese della Velocità, uno spazio e un tempo che non si confondono con il paesaggio e l'ora del luogo attraversato. Si può restare fisitamente per mesi ed anni nello stesso posto, eppure essere un «viaggiatore della velocità» che attraversa luoghi e culture distanti migliaia di anni o di chilometri, che si sente in sincronia con pensieri e reazioni di uomini lontani per pelle e per storia. La velocità è una dimensione personale che non si lascia misurare con strumenti scientifici, anche se la scienza e il progresso hanno origine da questa dimensione immisurabile. In questa dimensione personale, al centro di questo paese che si limita al nostro corpo in vita, c'è la capitale, il Palazzo dell'Imperatore, e nel Palazzo una camera segreta, e in questa il cuore. Il cuore di questo paese che è il nostro corpo in vita è una costellazione di idee fisse, di problemi particolarissimi, di ossessioni che appartengono al singolo, di infermità individuali. Anche fra i teatri si possono individuare i viaggiatori della velocità. La stranezza della loro vita, della loro rivolta è stata dimenticata. A volte loro stessi sono stati dimenticati. Altre volte sono divenuti soltanto famosi. Uno, per esempio, aveva una personalissima ossessione: come essere in grado di ripetere ogni sera la sua parte di attore come se fosse la vita che fluisse, senza alcuna meccanica predeterminazione. Uno cercava l'uomo nuovo attraverso l'attore. Uno voleva nel teatro la rivelazione delle realtà trascendenti, quelle realtà più vere di tutto ciò che noi chiamiamo vere, e che stanno dietro il velo del nostro mondo e della nostra psicologia. Uno si affaticò tutta la vita a costruirsi il teatro come una muraglia cinese contro le onde irrazionali ed emotive che sconvolgono Eugenio Barba gli anni e i giorni e nascondono la profonda dialettica della Storia. E un altro, infine, forse a me il più vicino, certo il più caro, cominciò col voler cambiare la Polonia, poi cambiò il teatro e la sua professione. E poi volle cambiare la vita di singole persone. Nella mappa dei teatri e della loro storia gli abitanti delle grandi tradizioni e i viaggiatori della velocità convivono, e vengono confusi gli uni con gli altri. I primi vivono all'interno di un'eredità e la trasmettono a volte impoverita, altre volte immutata o arricchita alle generazioni successive. I secondi, giunti ad un certo punto del loro cammino, si guardano le mani e scoprono che con esse hanno costruito cose diverse da quelle che avevano pensato. A lungo hanno camminato in gruppo. Poi hanno scoperto di aver camminato soli fra altri soli. Continuano. Ma cosa vedono al di là dei visi conosciuti? Qui faèciG.una pausa: mi fermo a guardare indietro. Post lndustrialism, Gulfport, Florida Riflessioni su un ventenne sessantenne L'Odio Teatret, il mio gruppo, ha vent'anni. Vent'anni sono, per un gruppo, come sessanta per la vita di un individuo. Guardandomi intorno, posso dunque constatare: non siamo morti giovani. Nella storia del teatro questo è eccezionale. Mi chiedo quali fatti concreti e non programmati abbiano determinato,quel fragile equilibrio che ci ha permesso non solo di superare la giovinezza, ma di continuare a crescere, cambiare anche nella maturità. Mi chiedo quale logica sia rintracciabile e raccontabile dietro il concatenarsi di episodi dettati dalle circostanze. Mi chiedo se sia possibile rintracciare - dietro lo schermo di una biografia di gruppo - le linee di indicazioni che altri potranno utilizzare. Apparentemente ci. sono due periodi distinti nella vita del nostro gruppo. Il primo comincia nel 1964, quando l'Odio Teatret si è formato, ed è durato dieci anni. È stato caratterizzato da un lavoro che ricordiamo durissimo, tanto che sospettiamo che oggi non saremmo più capaci di sopportarlo: training per molte ore al giorno, preparazione durante uno-due anni per ogni nuovo spettacolo. Solo tramite gli spettacoli il gruppo si apriva verso l'esterno. Gli spettacoli erano per 60-70 spettatori, quanti poteva contenerne la nostra sala di lavoro. Erano innanzitutto i nostri spettacoli e rifiutavamo di trasformarli quando eravamo in tournée e sarebbe stato impossibile accogliere un pubblico più numeroso. Gli spettacoli si portavano dietro le piccole dimensioni in cui erano nati: sempre 6070 spettatori. Tutto il lavoro dell'attore, il suo training, la sua ricerca personale, si svolgevano fuori da ogni sguardo estraneo. Le nostre due stanze di lavoro, a Holstebro, erano gli ambienti separati («segreti», in senso etimologico) in cui la ricerca dell'attore poteva svilupparsi difesa da disturbi esterni, in una situazione di fiducia reciproca, senza essere sottoposta alla tirannia dei giudizi prematuri e della fretta di produrre. Le attività con cui eravamo visibili all'esterno - oltre agli spettacoli - erano attività che, a quei tempi, nessuno associava con l'abituale attività di un teatro: organizzazione di corsi, seminari o tournée di spettacoli stranieri, pubblicazione di una rivista e di libri, inchieste sociologiche, produzione di film didattici sul teatro. Il secondo periodo è iniziato nel 1974, con un lungo .soggiorno in un villaggio del Sud d'Italia. Ci sembrò normale trasportare lì il nostro abituale atteggiamento: lavoro «segreto» di training e di preparazione di un nuovo spettacolo; attività non orientate verso l'esterno. Ma in quella situazione, in quel villaggio del Sud d'Italia, il «segreto» generava curiosità. E la curiosità che ci circondava ci spinse a chiederci se davvero il segreto era ancora necessario. Scoprimmo che non lo era più. Appena mostrato all'esterno, il nostro lavoro quotidiano che credevamo ricerca individuale, training professionale, si presentò come qualcosa d'altro. Rivelava la rete delle nostre relazioni interne, ciò che ci definiva davanti agli altri non come attori di uno spettacolo, ma come piccolo gruppo di uomini che hanno una storia in comune e un comune atteggiamento (forse non esplicito, ma certamente concreto ed evidente) di fronte alla realtà che li circonda. Il «segreto» che avevamo cercato solo per garantirci le migliori condizioni per lo sviluppo professionale aveva prodotto un risultato imp1 revisto: il coagularsi di una vera e propria «cultura di gruppo». Ora, quando scrivo questa espressione - cultura di gruppo - provo quasi fastidio. Sono ormai alcuni anni che ne parlo e ne scrivo, e rischia di trasformarsi in un'espressione vuota, in uno slogan. «Cultura di gruppo» non è che un modo, più orgoglioso ed eloquente, per indicare che il gruppo ha un sapere e delle esperienze in comune, un suo training, visioni artistiche e obiettivi propri. Tutto questo è naturale, se si tratta di un gruppo di teatro. Sia l'attività «segreta», sia l'uso del teatro nelle regioni senza teatro, ci hanno mostrato che è possibile trasformare il nostro mestiere in uno strumento di mutamento di sé e degli altri, purché ci si tenga al di qua e al di là del Teatro, del Sistema Teatrale. L'al di qua e l'al di là del teatro hanno segnato le due linee di azione dell'Odio Teatret. Quel che nel tempo sono stati c;lueperiodi complementari sono, oggi, i due poli di un'unica linea d'azione. Al di là del teatro c'era il «baratto»: scambiare la nostra presenza teatrale - training, spettacoli, esperienza pedagogica - con l'attività di altri gruppi teatrali o con gruppi di spettatori. Non era soltanto la ricerca di un uso del teatro con modi e in contesti diversi. Era soprattutto il modo di rivitalizzare un rapporto altrimenti logoro: il modo per passare dall'incontro con spettatori-fantasma che vengono una sera e poi spariscono, all'incontro con spettatori che mostrano e presentano se stessi, oltre a guardare gli attori. Al di qua del teatro c'è, per noi, il teatro «segreto», nel senso di separato: un luogo in cui un gruppo di persone, attori-spettatori che si sono scelti reciprocamente, si chiude per anatomizzare le forze che reggono i moti delle realtà umane e sociali, per confrontarsi con le proprie domande, gli enigmi irrisolti e vedere per frammenti, deformati o concentrati come in uno specchio, istanti del tempo passato e di quello imminente. Sia il «segreto» che il «baratto» sono basati sulla reciprocità di interessi e attese, non su un generale e vago bisogno artistico. Nel baratto risiede il segreto di un modo di utilizzare e insieme sprecare il teatro. E, nel «segreto», il momento più alto di uno scambio. I due periodi che hanno caratterizzato I.a vita del nostro gruppo paiono spesso agli osservatori due momenti ben distinti e contrapposti. Dal punto di vista dei risultati è giusto. Dal punto di vista del processo si tratta, invece, di uno sviluppo conseguente e unitario. In un primo tempo il gruppo pose solide fondamenta al suo inter- "° c::s no e all'esterno. Quindi costruì, su .s quelle fondamenta, un'attività che ~ infrangeva i confini del teatro. So- 1::1.. ~ lo da un punto di vista epidermico °' ...... si può vedere divisione e contrad- .9 dizione fra il periodo di un teatro i: chiuso, concentrato su se stesso, e :2 quello successivo in cui il teatro ~ sembra proiettarsi verso l'esterno. ~ È solo perché ci siamo concentrati ~ per dieci anni sulle condizioni del ~ nostro lavoro, e siamo riusciti a l cambiare noi stessi, prima di par- ~

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