Alfabeta - anno VII - n. 69 - febbraio 1985

- «la notion pure». Che cos'è «la notion pure»? In definitiva la «notion pure» si dà all'interno dei codici ma si può definire come (a produzione di un senso non contaminato dal significato. Questo è il letterario secondo Mallarmé, a cui naturalmente sottoscrive anche il locutore, nella fattispecie io stesso. Il seguito del brano avanza altre importantissime affermazioni: «le dis: une fleur ! et, hors de l'oubli où ma voix relègue aucun contour»; «aucun» è usato da Mallarmé in senso positivo, vale a dire nel senso di «qualche»: io dico «un fiore» al di fuori di que~'oblio dove immetto i contorni del fiore, cioè il significato del fiore; devo passare insomma attraverso l'oblio dei codici per costruire questa figura musicale: «en tant que quelque chose d'autre que /es calices sus, musicalement se lève», devo passare attraverso l'oblio dei codici, naturalmente appoggiandomi ai codici (non si dà oblio se non dell'esistenza di un oggetto), per arrivare a costruire, cioè a sovradeterminare, il fiore codificato, il fiore semantico, e quindi a renderlo assente da tutti i mazzi: naturalmente dai mazzi vuol dire dai sistemi linguistico-culturali che determinano e che definiscono la realtà. In un articolo apparso in Alfabeta ( e credo che sia il numero precedente all'ultimo), L'altro quotidiano di Giorgio Franck, si studiano in maniera molto acuta le produzioni di senso che in definitiva sono sensi non contornabili, non afferrabili, sensi che esistono addirittura nel linguaggio quotidiano. E qui potrei citare tanti brani: «una parola che si dice senza che nulla sia veramente detto», «violenza in quanto imposizione di un nome e attribuzione di un significato», ecc. E si rifà a una posizione della cultura francese molto importante, quella di Blanchot, dove la nominazione, cioè l'attribuire un nome a una cosa, significa appunto distruggerla. Le cose esistono in quanto appartengono a dei sistemi di significato, cioè appartengono a dei codici, ma esistono anche al di là di questa loro circoscrizione, ed è appunto su questo eccesso - eccesso rispetto a quanto non figura nel sistema ideologico trasmesso dai codici - che noi accettiamo e recepiamo come realtà, è appunto su questo 'al di là' dei codici che interviene il letterario. A questo proposito mi servo di solito di un'interessante, io direi fondamentale, distinzione che fà Lacan tra la «realtà» che ci viene trasmessa dai codici e il «reale», quello che appunto i codici non riescono a contenere. Io direi allora che il letterario, nella fattispecie il poetico come punta estrema del letterario, il letterario e il poetico tendono non a riprodurre (perché irriproducibile), ma a manifestare il «reale», quello che Lacan definisce il «reale». Sono tornato ieri sera da Parigi dove ho parte~ipato a un convegno su Pasolini. E uscita, in occasione di una relazione, una indicazione ancora attribuita a Lacan: che in definitiva il significato, cioè il discorso dei codici, il discorso comune, il discorso su cui si fonda la concezione di realtà, è il discorso del padre; ma, dice Lacan, ilpadre non sa nulla, il padre non detiene la verità. Ed io aggiungo: sì, non detiene la verità, ma finge di detenerla. Allora io opporrei a questa figura del padre, come falso detentore di veritàma che impone questo suo falso sapere, io opporrei simmetricamente un'altra «figura» simbolica (il termine «figura» è tra virgolette in quanto non lo è), la figura della madre. La madre detiene la verità, è in possesso della verità, solo che non può dirla. Tutto il discorso fra senso e significato (il significato del padre, de~'autorità, della falsa verità), il rapporto tra questo significato e il senso, io lo proietterei su queste due figure: la figura simbolica del padre e lafigura della madre, la quale detiene la verità ma non può dirla in termini di significato; deve dirla in termini di senso, quel senso di cui parlava Mallarmé, che si dà come lavoro all'interno dei codici per produrre qualche cosa che i codici non contengono. Naturalmente non si dà senso senza appoggio al significato. Si potrebbe anche fare questo esempio; e qui entro in merito anche con le poetiche contemporanee, con l'avanguardia. Supponiamo l'esistenza di un albero, di una pianta, e di un albero-pianta parassita. Direi allora: come il parassita non può vivere da solo, anche il senso non può vivere da solo, deve appoggiarsi a un organismo, che è l'albero, che è la pianta che lo sostiene. Allora diciamo che il lavoro d<dla'vanguardia, il lavoro della poetica contemporanea, e delle poetiche contemporanee, è un lavoro su questo senso parassitario, un lavoro tanto frenetico e tanto abnorme, che avvolge, copre e addirittura rompe la pianta, l'organismo di sostegno. Le rotture della sintassi sono o possono ascriversi in effetti a fenomeni di questo tipo. Un altro esempio interessante (appunto perché non si sono fatti esempi concreti in questo convegno, e Arbasino ha ragione: una teoria deve esseresempre verificata attraverso esempi e deve ricavarli, dato che è un convegno sulla letteratura nostra, anche sugli esempi contemporanei), ebbene un esempio che mi pare sintomatico di questa dialettica fra discor~o e senso, fra figura del padre e pulsione rappresentata dalla madre, un esempio di questa lotta, di questa dialettica è proprio quello fornito da Pasolini, dove nell'operazione poetica di questo autore, che io considero grandissimo, si danno due esseri semiotici in opposizione. Proprio: l'essere del discorso (l'essere del padre), e l'essere materno che dovrebbe essere rappresentato dal canto, in quanto sovradeterminazione fonosemantica del discorso, del significato. Ed è una lotta che finisce per rovinare entrambi i contendenti. In definitiva l'operazione di Pasolini è quella di mettere in primo piano l'impossibilità di una congiunzione della figura materna e della figura paterna, o ancora meglio: tutta l'operazione di Pasolini .mi sembra consista nell'esibire incessantemente laforma di un' impossibilità e raggiungere la totalità del canto, che è anche se vogliamo il dramma di tutta la poesia contemporanea. Allora se la verità non può essere detta dentro i sistemi di significato, l'unica maniera per mantenerla attiva è quella di mantenerla presente, in una mezza-latenza: non in una sorta di lutto, ma in quello che i francesi chiamano un «demi-deuil», un mezzo-lutto. E qui (poi magari si può intervenire ancora, ma credo che gli interventi debbano essere brevi), qui vorrei citare, ancora di memoria, un testo di Derrida che si chiama Otobiographie: biografia per l'orecchio, mettiamo la biografia di Goethe scritta da Eckermann, biografia che passa attraverso l'orecchio di Eckermann, o quella del dottor Johnson scritta da Boswell. In questo testo Derrida parla di quel femminile più profondo, che è lafigura della madre, la quale dà vitq_a tutte lefigure ma non si rapprende mai in un'afigura; essa permane (e allora leggete in questa figura della madre, infiligrana, anche quello che si dicevaprima della verità) «sulfondo della scena come un personaggio anonimo: essa sopravvive a condizionè di restaresul fondo». Francesco Muzzioli. Anticlassico, ironia, esitazione I ntervengo alla luce di quello che è emerso di nuovo in queste giornate di discussione e soprattutto questa sera. Innanzitutto: avevo scelto la formula dell'«interruzione» nel mio scritto precedente per Alfabeta; e direi che questa formula era nella linea di quella che Leonetti ha chiamato questa sera una letteratura anticlassica. Lo sforzo che sono andato facendo, sia attraverso un confronto serrato e mai appiattito con l'esperienza della nuova avanguardia negli anni Sessanta sia anche con quella ipotesi di scrittura materialistica in cui ho lavorato con il gruppo dei Quaderni di critica che ieri ricordava Filippo Bettini, ecco credo si situi molto bene in questo solco di una linea di letteraturaanticlassica. E perché è importante forse oggi tornare a parlare anticlassico? Perché in fondo c'è una scorciatoia, mi sembra, abbastanza facile e forse troppo veloce, che porta a recuperare il classico come valore incondizionato nella generale crisi dei valori; in fondo è comodo attaccarsi a questo ancoraggio di un valore indiscutibile, di un valore facilmente riconosciuto, chepoi diventa nel mercato una sorta di etichetta, e infatti non a caso si moltiplicano questi riconoscimenti del classico e del classico-moderno soprattutto nelle recensioni della stampa, dove questo serve proprio per, veicolare certi prodotti. E importante il termine anche che Leonetti dava di una tendenza di ricerca, invitando a superare certe formule come avanguardia e sperimentazione; si può dire ricercaproprio perché si tratta di ripartire al di là di ciò che è sicuro, come appunto sarebbe, il valore classico. Mentre mi sembra (e anche da molti interventi viene fuori) un recuperoforte del valore della letteratura, e mi accade di pensare che curiosamente oggi la formulazione di un pensiero debole coincide con la formulazione di una poesia forte. Mi viene il dubbio che ci sia una sorta di vaso comunicante in questo indebolirsi e fortificarsi. Dicevo, la tendenza di una letteratura di ricerca (e ricerca anche, appunto, come messa in questione dei propri modelli), una letteratura di ricerca ritengo che sia quella che· fa vedere il linguaggio con cui opera; mentre d'altraparte abbiamo la letteratura trasparente, una letteratura che non fa vedere ipropri strumenti. Una letteratura di ricerca è quella che si problematizza e, ·come poi vorreipuntualizzare un pochino meglio, è quella che si guarda con uno sguardo strabico sia dall'interno che dall'esterno. Un altropunto interessante (e mi scuso per la velocità e anche per i salti che ci sono) che è uscito in questi giorni è lapolemica sul postmoderno, che molto giustamente è stata portata avanti soprattutto da Angelo Guglie/mi, ma anche da altri. Di che cosa si tratta?Delle pratiche di riuso, di recupero, di citazione; ecco, direi che i materiali stessi che vengono recuperati non sono indifferenti, cioè parlare di riuso significa che si recuperano materiali del già scritto, tecniche del passato, ma ciò che si recupera non è assolutamente indifferente. Direi che ci sono ancora, malgrado l'omologazione, zone linguistico-letterarie che ci intrigano più di altre, cioè ci sono zone dell'immaginario letterario con le quali dobbiamo fare i conti più di altre. E credo che questa sia anche una ragione per cui ci interessa intervenire nel campo della letteratura; cioè, finché ci sono degli aspetti del nostro corpo e della nostra stessa vita fisica che noi viviamo sotto specie letteraria, che viviamo letterariamente. Proprio per questa ragione fisica, direi, dobbiamo attraversare il letterario. Riguardo ancora al post-moderno secondo me ci sono molto schematicamente due possibilità del riuso, e qui si gioca il senso di questo riuso, di questo recupero: una direzione critico-ironica del recupero in cui i materiali vengono messi nel testo con un particolare stridore e vengono presi alla lettera, e una seconda direzione invece di tipo esorcistico-sublimante in cui · i materiali vengono presi come contrassegno artistico che rifonde i materiali recuperati, quindi senza stridori e che attraverso questi materiali dimostra una nuova idea della vita. Ho indicato questi due modi, che forse potrebbero essere anche attuali, ma sono stati dettati da due autori che sono nati allafine dell'Ottocento e sono uno Gozzano e uno Saba, dietro la filigrana, dietro questi ritratti. Una contrapposizione Gozzano/Saba è una contrapposizione che ancora ci può intrigare e direi che i due sono assolutamente non compatibili, dobbiamo scegliere o Gozzano o Saba, o la linea del riuso di Gozzano e quella di Saba. La mia scelta purtroppo sta fra posizioni forse troppo drastiche, ma è dalla parte della linea critico-ironica di Gozzano. Un altro punto che è uscito fuori è quello della duplicità del punto di vista del testo letterario; la duplicità è molto importante, accennavo anche al fatto che la stessa «interruzione», la stessaforma che ho usato nell'intervento in Alfabeta è in qualche modo un segno di duplicità. Nell'intervento mi ero rifatto a un passo di Benjamin su Goethe, per Le affinità elettive, e vorreifare un passo indietro, cioè andare a riprendere proprio il testo delle Affinità elettive. C'è una lettura di poesia, tenuta dal protagonista delle Affinità elettive, Edoardo, che è un recitatore di versi, con un piccolo pubblico, ma sempre si tratta di una manifestazione di oralità. Ora Edoardo non sopporta che uno degli ascoltatori guardi e legga il testo dietro le sue spalle. Direi che questo è molto importante: cioè l'oralità, lo spettacolo della scrittura, non sopporta la lettura del testo, non sopporta la riflessione che il lettore può fare sul testo e il diverso percorso che il lettore può compiere nel tessuto della scrittura, perché questo, lo dice chiaramente Edoardo, gli rovina l'effetto, gli rovina la presa sul pubblico, se già l'ascoltatore conosce i percorsi che il testo seguirà. Mi interessava soprattutto questo sguardo esterno, di qualcuno che è fuori del testo e che guarda dietro le spalle della voce che legge. Ed è uno sguardo esterno che risulta nel testo attraverso le incrinature che la voce prende, cioè quando il lettore disturbato da questapresenza può avere dei momenti di interruzione, dei momenti di sospensione; e appunto anche qui veniva fuori questa dimensione di interruzione, di interpolazione, di interferenza, di intercarpedine, di intersezione, e così via. Devo dire che poi in Goethe ciò viene in qualche modo ricucito, perché c'è una nuova omogeneizzazione dello sguardo che sta alle spalle di Edoardo: c'è la giovane Ottilia, lo sguardo della donna innamorata; e a quel punto Edoardo può sopportare che qualcuno gli leggadietro le spalle. Noi forse non siamo in questa condizione così ottimale di affinità elettive, siamo forse ancora con alle spalle uno sguardo irriducibilmente eterogeneo. Spero di potere ancora dire qualcosa su questo punto della duplicità e del punto di vista esterno/interno... Sanguineti diceva nel suo intervento, che condivido assolutamente in pieno, che nella strategia del sabotaggio bisogna stare al gioco per dire non ci sto; anche qui c'è un punto di vista esterno/interno; innanzitutto dall'interno bisogna stare al gioco; bisogna che il testo si costituisca'come uno spazio chiuso e nello spazio chiuso del gioco c'è anche lo spazio chiuso del rito, ma lo spazio chiuso necessario perché in questi limiti precisi di un contesto i rapporti significativi si moltiplichino. Nella tessitura del testo ogni parola corrisponde alle altre e i significati, che altrimenti sarebbero semplicemente una successione lineare, diventano una sorta di costellazione, di raggiera. E diceva Lotman che èproprio grazie a questi confini, cioè ai limiti del testo, che il testo può essere metafora del mondo. Ma a mio modo di vedere ecco l'interruzione: tutti i momenti di squilibrio fanno entrare in questo organismo ciò che è tenuto fuori dello spazio chiuso, e dall'esterno il testo non è più visto come la metafora del mondo ma come la metonimia del mondo, un frammento parziale, una sorta di residuo minimo e in fondo risibile del mondo. Ed è questo aspetto, questo sguardo esterno che porta dentro la dimensione di critica e autocritica. Credo che questa posizione possa sembrare a qualcuno troppo distruttiva, come un intervento basato solo sull'interruzione, sul momento in cui l'unità è spezzata. E può sembrare anche una sorta di pratica penitenziale, cioè c'è prima una produzione immaginativa poi c'è la spezzatura, e ci si può chiedere allora perché punire questo primo momento di spontaneità. Io non credo però che l'interruzione sia un momento secondo; io la vedo come un momento interlato e iniziale, e semplicemente come due facce di uno stesso Giano bifronte, dove dalla parte del lettore c'è l'interruzione, dalla parte del- /' autore c'è un'altra formula usata di recente sulla scia del 'Fantastico' di Todorov, che è l'esitazione. L'interruzione è ciò che appare nel testo dell'esitazione che c'è nella fase di produzione. E mentre l'interruzione è una pars destruens, l'esitazione è una pars construens; perché l'esitazione, oscillando tra gli opposti, produce un movimento, produce un modo di costruirsi che non è lineare, ma è oscillatorio, fatto di continui spostamenti di confine, e, alla fine, proprio perché l'esitazione può anche consentire il tornaindietro e gli spostamenti laterali, una sorta di percorso ingarbugliato. Ho in mente parlando del/'esitazione il tracciatoche Stern disegna nella vita di Tristan Shandy, il percorso fatto di continue deviazioni e alla fine una sorta di groviglio. D'altra parte se noi scegliessimo la ricerca come nostro punto di partenza è chiaro che la ricercasignifica soprattutto momento di esitazione, di messa in discussione, per poter partire e procedere. Un'ultimissima cosa: c'è stato un intervento che mi ha molto interessato, anche se, è passato piuttosto inosservato. E quello di Gaetano Testa. Ha parlato di una scrittura di piccole esplosioni e anch'io vorrei parodiare il suo titolo parlando di una scrittura di piccole interruzioni, proprio perché una grossa interruzione allafine coincide con la fine, allora ha lo stesso limite della fine. E Testa concludeva dicendo che questa scrittura si deve fare sempre più piccola, anche l'interruzione deve forse farsi sempre più piccola, a rischio anche di apparire quasi reinglobata appunto ne~'armonia; ma è necessaria direi la sua presenza; è necessaria • ancora la presenza di questo sguardo duplice, proprio perché altrimenti la scrittura tende inevitabilmente ad innalzarsi, a salire verso il cielo, ad apparire un superlinguaggio, che decide in pratica delle contraddizioni del linguaggio pratico, che si innalza come una sorta di sfera libera al di sopra dell'inferno della prassi. E diventa anche una scrittura che, io direi, come ho visto anche in alcuni interventi qui, è incapace di ridere di se stessa, magari riesce a piangere di se stessa, ma raramente a ridere. Vorrei finire citando un autore che ritengo ancora un esempio fondamentale per il Novecento e cioè Carlo Emilio Gadda. Gadda definiva ad un certo punto dei 'santi', i santi di Gadda sono sempre dei camminatori, raramente si alzano verso il cielo, anzi direi mai, sono

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