V orrei, per iniziare, spostare, almeno per un attimo, l'attenzione dal problema della letteratura e del suo senso, al problema del suo insegnamento: spostamento del resto non così vertiginoso, essendo i due termini non poi così distanti ... La domanda potrebbe dunque essere per un momento: la letteratura, se la si possa insegnare; ma anche: che cosa insegna la letteratura? Quale il suo magistero? In altre parole, quale particolare dono, o qualità riconosciamo alla parola letteraria - sì che la vogliamo insegnare, tramandare, commentare ... Quale il suo «insegnamento», che vogliamo continuare a «insegnare»? Il sapere della letteratura ognuno che lo debba di necessità praticare per una certa posizione (o posto) che si è preso, o in cui s'è per avventura trovato, sa quanto è ottuso, opaco, bete, inconcludente e inconclusivo. Forse semplicemente utile, come utili sono per lo più le cose stupide. Utile, o stupido, o ottuso, c'è tuttavia un sapere della letteratura che pensa, nell'amministrare il corpus di una. certa tradizione, che lì si trovi un significato da conservare e da diffondere ... Si tratta comunque di un bene, di come disporne, e mantenerlo: un bene, certamente - perché, potremmo forse voler diffondere una malattia? La letteratura pone certamente a chi amministra il suo sapere una questione di morale, non fosse altro che per via di un certo piacere che ne dovrebbe derivare. L'etica, prendendo la parola assai genericamente, ha fondamento nel bene: è certamente etica l'azione il cui fine, o senso (almeno come direzione) non è il male, ma appunto, il bene. Che la letteratura lo dispensasse a iosa, lo si è certamente creduto·. Le teorie settecentesche dell'arte e della letteratura - e penso soprattutto ad autori inglesi - contavano su questo; che l'arte fosse a means of grace, strumento di salvazione, arma redentiva. Pensavano senz'altro che l'immagine, e dunque la creazione artistica, obbedissero a un principio benefico, risultante nella costruzione di beni utili all'anima, vuoi per spurgarla, vuoi per elevarla. Anzi, il Settecento, dice che l'imagination, ben distinta in questo dalla fancy, è al centro del senso morale, che qualcuno chiama the sympathetick sense, e Adam Smith concordemente lo immagina come ciò che ci permette di metterci al posto dell'altro, e di formarci dunque un «vivido concetto» delle sensazioni e sofferenze del nostro simile. In un mondo che sempre più comincia ad apparire estraneo, impersonale, remoto, e minaccioso - non è così che il mondo, e le sue città, e le sue fabbriche, appaiono ai primi romantici?- l'imagination ha il potere redentivo di riconciliare l'uomo, completo dei suoi bisogni spirituali e del suo desiderio di cosmo, al mondo stesso. E tuttavia c'è nell'opera compiuta qualcosa che è inequivocabilmente «male»: come quel testo Unaforma-delmale maledetto, il King Lear, di cui Johnson disse a chiare lettere che era intollerabile. Diseducativo. A meno di non cambiare il finale: cosa che gli editors setteéenteschi fecero. Perché, secondo voi, si può insegnare l'intollerabile? ciò che diseduca? Nell'Ottocento il finale fu ristabilito. Si sa che questo è il secolo in cui si afferma dopo un'insinuante e irresistibile ascesa il tema della felicità del male; il che è già l'inizio di una certa perversione ... Perché se l'asse antico dell'etica è l'egoismo della felicità, non v'è sovversione nel dire che sì, certamente l'uomo desidera il bene ... : ma, non si sta bene anche nel male? Del resto, non è ciò che, con impietosa evidenza, la vita a ognuno mostra? Non è forse questo il disease, il disagio e la malattia della civiltà? E la letteratura dal canto suo non mostra esattamente questo? Che v'è una certa congiunzione tra il gioco del dolore e il gioco della bellezza? Il King Lear, tanto per riprendere un fastidio dichiarato, non rivela precisamente questo: che si gode del male, che il male è bellezza? Shakespeare è certamente letteratura. Non c'è un altro nome proprio della letteratura inglese che abbia contribuito quanto lui a creare il sistema della letteratura stessa. Togliete Shakespeare, e che rimarrà di quella letteratura? E tuttavia Virginia Woolf ha ragione quando in un diario annota: «Shakespeare supera (sorpassa, oltrepassa) la letteratura». C'è in questa semplice osservazione della Woolf qualcosa che continua a tornare quando ci mettiamo di fronte alla letteratura - ammesso che ci si possa mettere di fronte alla letteratura tutta. Diciamq_,a un'opera. E la questione che torna ad esempio in T.S. Eliot, e che lui pone come il problema del rapporto tra tradition e individuai talent. Che noi potremmo formulare come il problema del rapporto tra il nome proprio (Shakespeare, Keats, Rilke ... ) e il nome comune, i sostantivi letteratura, arte, poesia. Questione dunque di nome, questione di iscrizione, apertura di una serie di domande relative alla proprietà ( come si dice «proprietà di modi») e alla firma, al testamento, all'eredità, al monumento ... : problema di proprio - il proprio della letteratura; mi pare Alfabeta avesse chiesto, all'inizio, del problema che ha portato a questo convegno; è questione di senso, di orientamento, e di destinazione ( ... ). Il poeta è colui che abborda il linguaggio in virtù di un giro (o raggiro) che lo approssima a quel punto in cui se è vero che tra il soggetto e la lingua si interpone una sbarra, questa viene momentaneamente tolta, e il significante miracolosamente pare pervenire ad attraversarla. Lacan dice di Joyce che una ragione della sua incomprensibilità è dovuta precisamente a questo: che il significante investe e trabocca e· straripa sul Nadia Fusini significato stesso, lo deforma, lo travolge in un eccesso di senso: e si sovverte così un principio, forse l'unico, di intelligibilità della lingua - che tra il significante e il significato ci sia un contratto chiaro, che ne operi la congiunzione nel momento stesso che ne ribadisce la distanza. Se la letteratura ha un senso, oltre quel «poco di senso», che non credo sia in questione qui, perché ognuno se lo troverà comunque da solo, come in ogni altra attività della sua vita, il senso, potremmo dire, forse è di mettere in rilievo, in sbalzo, quella sbarra dell'algoritmo saussuriano, sì che invece di marcare lì una corrispondenza, di facilitare un passaggio, quella testimonia piuttosto di una separazione, e di una resistenza. Il significante non è più lì in rappresentanza, delegato obbediente del significato e dei suoi messaggi: è un'articolazione di per sé vuota, è un non-senso che continuamente scivolando, dislocando, spiazzando, trasportando il significato, disordina un'enunciazione di cui il soggetto vorrebbe riconoscersi padrone. Sì che lì, nella poesia (que- . sto sempre dicono i poeti), il soggetto si trova eccentrico. Perché è proprio l'ordine della spaziatura che il poeta disordina, per poi aprire, nel gioco tra significante e significato, come v'è gioco tra vite e bullone, le condizioni di possibilità della sua «strana» parola: «meraviglia» di un dire che, per eccesso e non per mancanza, lo porta contro un muro, e lo espope a una sospensione nei confronti del nome. Perché, questo è importante, il poeta non è vero che rinomina le cose: il poeta sospende la nominazione, e ogni parola che dice è ogni volta salvata al silenzio. ( ... ) Keats tuttavia le dà un senso. Il senso della letteratura per Keats è che esiste Shakespeare. Come dire, ci SQnole vite dei santi. Leggendole io disciplino, oriento, apprendo... Shakespeare si offre cioè a Keats come un maestro nel senso spirituale del termine. Se una tecnica gli insegna è nel senso di un esercizio dell'anima: non certo perché derivi da lui, o ne imiti modi, metodi, immagini, stilemi. Non c'è in effetti cosa che Keats debba «imparare»: si tratta semmai per lui di «disimparare». Se l'educazione è il cerimoniale attraverso cui stabilire un'alleanza con il reale, questo non interessa poeti come Keats, o Rilke. Dice Rilke: «Gli oggetti d'arte son sempre il risultato dell'essere stati in pericolo, dell'essere andati fino in fondo a un'esperienza». C'è, lo sappiamo dai poeti, nell'intimo di ogni scrittore «un demone che lo spinge a colpire a morte tutte le forme letterarie, a prendere coscienza della propria dignità di scrittore nella misura in cui rompe con il linguaggio e con la letteratura». Questo Blanchot lo sa perché anche lui, o lui è anche scrittore. Chiediamoci dunque anche noi, con lui, come può, in tali condizioni, esistere la letteratura. La letteratura, quando sia pensata come un atto, e quindi bisogna compierlo, per saperne qualcosa, pare proprio che vada ad indagare quel rapporto tra sapere e passione, tra sapere e godimento, il cui effetto è per l'uomo, spesso, l'ammutolimento, l'accecamento. Come sempre, pare, di fronte alla bellezza e alla morte. • In questo senso io direi alfine che il senso della letteratura è il male, e la letteratura è peccato: perché colto nell'atto, il dire della poesia articola una impossibile congiunzione tra il soggetto e la sua parola, che lo fa trovare esposto a un ignoto, a un potere, o legge, o struttura: qualcosa che comunque lo supera: un altro che noµ si fa supporto per l'identificazione e il riconoscimento, ma lo precipita a metà tra la coscienza e l'incoscienza, il sonno e la veglia, il sogno e la realtà ... E, al tempo stesso, è proprio attraverso questa esperienza che Keats ·chiama di estasi (parola che non evoca in lui nessuna immagine mitica di trascendenza, ma una sorta di immanente al di là o al di fuori); è proprio attraverso il dono di questo· eccesso che l'uomo trova un accesso (d'accordo, non è l'unico) al reale. E qui viene da ripetere ciò che non un poeta, ma un analista è arrivato a conoscere di Joycè; o con Joyce: e cioè che «è attraverso la scrittura che siamo entrati nel reale, che si è smesso di immaginare». Con il che non penso di ripetere che il linguaggio è la casa dell'uomo, e il poeta glielo mostra. Perché io, al contrario, credo che nel linguaggio l'uomo non è a casa: che la parola è sempre qualcosa di posteriore, una sorta di effetto ritardato, di après coup. Penso però che bisogna ascoltare i poeti. Non per classificarli, catalogarli, conoscerli: sì che raccolti in «sapere», in «tradizione», in «letteratura», con quei nomi co- .muni io li possa distribuire alle masse ... Bisogna ascoltarli, perché quel loro parlare ha un senso; e ha senso perché provoca all'ascoltò. Perché ci obbliga all'ascolto. La parola:del poeta, per quanto inaudita, è soprattutto in-inaudibile. Non si può fare a meno di ascoltarla. Essa si impone a npi, malgrado ogni nostro disegno. E pericolo inevitabile. Risuona in essa, e nell'inevitabilità del nostro -ascolto, una parte di noi irriducibile alla ragiq_- ne, al calcolo, al luogo comune. E la nostra parte «sovrana» che fugge verso quel luogo, che dialoga con quella potenza - che non ci riserva alcun bene, e tuttavia ci dona tanto! È la parte «maledetta», quella del rischio, del gioco, del pericolo. Ma la sovranità, lo sappiamo da Bataille, si espia. Il godimento più di ogni altra cosa si paga. Quello che voglio dire, e me ne accorgo solo ora, è che la letteratura è peccato. È tortura. È un atto che a chi lo commette «fa male al cuore», come dice Flaubert; perché porta a «un fetore del fondo». «Questo libro mi tortura», dice Flaubert del suo romanzo; e quante volte lo ripetono Virginia Woolf, Franz Kafka! Dunque bisognerebbe proibirla. Irresponsabile - perché non risponde a nessuno, anche se chiama all'ascolto; inorganica, perché assoluta, separata; autonoma - la letteratura fa parte di quella specie di cose in cui tra il profitto e la perdita è certo chiaro dove pende la bilancia ... E tuttavia se non la proibiamo, e lasciamo che ci inquieti, e ne tentiamo ancora e ancora il gioco insensato, è perché non siamo ancora morti del tutto, né del tutto vivi. Morti, non potremmo ascoltarne il canto, perché, come ci dice Keats, «avremmo orecchie invano». E chi fosse veramente vivo, è evidente, non ne avrebbe bisogno: la sua vita sarebbe quel canto. L'arte ci appartiene dunque come la nostra malattia a cui ci rifiutiamo di appartenere, come di vincerla. Ma appunto, una forma del male che si esprime in essa ha per noi un senso, un «valore sovrano». È clìe noi ancora pensiamo, poveri e illusi come siamo, di trovare al fondo della lettera ( e per questo ancora amiamo le humanae litterae, anche se non più l'universitas litterarum) il vocabolario, la sintassi, del nostro vivere imperfetto; della nostra vita ancora, come il libro, a venire. , Il che vuol dire, assai semplicemente, che quell'atto cieco, atto violento - che è la poesia, la scrittura - ha poi un altro problema; che non è la letteratura. Tant'è vero questo, che Virginia Woo'lf, dopo aver scritto il suo romanzo forse più grande, Gita al faro, dirà: «Che terrificante gioia dare vita a un libro ... »; e poi, in un timido aside, «but just a book!»: che non le darà ciò che non ha mai avuto, come il quadro non dà a Lily Bris-. coe la signora Ramsay. E, capite bene, scrittori come Kafka, come Virginia Woolf, non si accontentano di meno. Non sì accontentano di «letteratura». La questione è: ci accontentiamo noi? Ciòchenonsitrovada nessunpaarte J acqueline Risset 11senso della letteratura consiste forse in questo: che essa occupa la totalità dello spazio del senso, florida matrona adagiata sui cuscini del sofà e, allo stesso tempo, non si trova da nessuna parte: attaccata forse con una mano ad una finestra, penzolante nel vuoto... Comunque arrabbiata, sconsolata, se le viene assegnata una stanza nella grande casa. Il primo titolo dato da Proust alla Rice!"cadel tempo perduto era La Recherche de la Vérité. Il lettore che non avvertisse l'eco del primo titolo nel secondo ignorerebbe quell'ambizione totale, quella pretesa a render conto di tutto il senso reale, che è sottesa all'impresa della Recherche e finirebbe col non capir nulla di quel libro, collo scambiarlo o per un racconto delle memorie infantili o per la cronaca di una classe in via di estinzione. Allo stesso tempo, tuttavia, l'opera di Proust funziona, in ogni sua parte, come un dispositivo costante di svuotamento del senso dato, appena dato per pieno, nelle pagine precedenti. Ogni opinione trionfante è infatti destinata a rivelarsi, nel tempo della letteratura, opinione derisoria, o perlomeno provvisoria. L'universo del senso si trova svelato come mondo della betise. Letteratura come strumento, e come materia, dell'antisenso ... O forse, più precisamente, esasperazione del desiderio di senso fino al suo annientamento ... Nell' Expérience intérieure, che non è possibile delimitare all'interno delle categorie del letterario, o lo si può soltanto a patto che si accetti di considerare il campo del letterario come luogo dell'esperienza limite ( come accade per tutta la grande letteratura..çel Novecento, da Musil ai surrea}isti a Valéry a Proust stesso, che scriveva soltanto apparentemente «la marchesa uscì alle cinque»), Georges Bataille, nello sforzo di definire la sua sfuggente nozione ..centrale (che Sartre interpreterà erroneamente come esperienza «mistica»), riporta una frase dettagli da Blanchot in una conversazione sull'argomento: «L'expérience est la seulè autorité». Questa frase, che ha allora per Bataille una funzione decisiva nell'avvicinare il nucleo del problema, può valere, mi sembra, per
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