Alfabeta - anno VII - n. 69 - febbraio 1985

chiavelli o Casanova, Hobbes o in un certo senso perfino Proust, non sono esistiti invano. Per il poeta, invece, non si danno altrettanti margini, salvo forse quello (minimo e rischioso) dell'arte retorica: ma, in linea di massima, per lo scrittore di versi che nomini invano il nome della parola, il fallimento (cioè il non esser poeta) è l'unica, inevitabile e giusta prospettiva e punizione. Percepire, dunque, questa facoltà di autodifesa attiva presente nel corpo stesso della lingua, prenderne coscienza e sapere che essa è lì, pronta a punire i nostri abusi, diventa una condizione pregiudiziale della scrittura poetica, che è (ripetiamo) esercizio della lingua al livello più alto. Non soltanto non possiamo non scrivere che il vero, ma non basterà neppure che questo «vero» sia tale, o come tale si ponga appena in noi, alla luce di un nostro giudizio intellettuale o comunque acculturato o della nostra (sia pure) più candida coscienza: la sincerità, in poesia, sarà infatti una condizione certamente necessaria, ma (con pari certezza) tutt'altro che sufficiente. II «vero» di cui dicevo dovrà essere, anche e nello stesso tempo, un «vero» oggettivo delle parole, del loro suono e ritmo, della loro fisicità, delle (mi si consenta l'espressione) aree e costellazioni di significati attuali e/o potenziali che ciascuna o diverse insiçme irraggiano intorno a sé provocando o stimolando nei destinatari quella che gli antichi filosofi chiamavano la facoltà o potenza immaginativa. Dovrà essere, detto altrimenti, un «vero» della lingua, un «vero» del parlato e dello scritto, oltre che del parlante e dello scrivente. Qui sto alludendo, è chiaro, ad alcune caratteristiche fondamentali e imprescindibili della cosiddetta «lingua poetica»; che, sì, indubbiamente, si possono e si devono conseguire attraverso l'esercizio dell'arte e la messa in opera di «artifici» o procedimenti che, di caso in caso, ci sono stati e ci vene redo che il senso della letteratura debba essere ricreato. O, almeno, tolto dalla genericità in cui riposa. Oggi sembrano esistere una pratica della letteratura, per lo più condotta professionalmente, con interesse alle posizioni di classificae scontata coincidenza del Nome e della Qualità, e una teoria ripetitiva o allusa senza convinzione. Una corporazione confusa tutela la continuazione di tali genericità, pratica professionale, ricerca di successo, riferimenti vagocircolatori. In chi ha lavorato in opposizione, la letteratura critica può tranquillamente assumere, nello sfacelo acquoso, funzioni di adozione ripulita, di lotta antideologica, di misurazione eontinua della realtà, tentando di spostare il campo vigente. Perché avvengano spostamento, ricreazione, liberazioni nell'ambito, una diversa incidenza all'esterno, occorrono articolazioni e condotte nuove. Proviamo a fissare qualche punto da discutere. 1. Un avvio pertinente può consistere nella centralizzazione del passaggio tra letterario ed extraletterario. Nei due sensi: da quale extraletterario si «stacchi» e si disponga il letterario; verso quale extraletterario s'istituisca e si muova il letterario. A questo modo il letterario risulta pensato in entrambi i sensi e in movimento. Parlando di rilievo dell'extraletterario, il rischio è di risentire incombere una richiesta di sudditanza, vuoi di riflesso vuoi d'impegno, a partire dalla società o da qualsiasi autorità; parlando del letterario in sé, il rischio è di risentire elevarsi una richiesta di assolutezza, vuoi di autonomia vuoi di scorrimento a partire dal letterario stesso. Sono due rischi da contrastare perché ideologici, gono consegnati dalla tradizione o proposti da giuste istanze d'innovazione e di ricerca, ma la cui apparente praticabilità (quasi da manuale d'istruzioni) non deve trarci in inganno circa i limiti della loro efficacia e validità. II problema può essere provvisoriamente eluso, schermato, allontanato e persino rimosso; però resta: il problema, intendo, la cui soluzione fa sì che una poesia sia effettivamente tale e che è appunto quello di attuare un'improbabile, improgrammabile e tuttavia sublime coincidenza tra il «vero» delle nostre intenzioni poetiche e quello dello «strumento» di cui ci serviamo per realizzarle, tra il «vero» dell'intellettuale o della coscienza e il «vero» della lingua. Questa lingua che, forse per pigrizia o abitudine o semplice comodità, ho appena qui chiamato uno «strumento», è infatti uno strumento tutt'altro che docile e inerte; anzi è uno strumento che paradossalmente recalcitra all'essere strumentalizzato e lo fa (come accennavo) vanificando gli intenti dei suoi profanatori e rendendo controproducenti le loro operazioni o le loro velleità. Basterebbe, accantonando per un attimo il tema «poesia», considerare la crescente vacuità e inefficacia dell'universo d'informazione contemporaneo (un tipico gigante-dai-piedid'argilla) per constatare con quanta irridente a sua volta facilità la lingua «strumentalizzata» sappia rivoltarsi, corpo vivo e persona essa stessa, al tronfio esercito di quanti pretenderebbero asservirla: da sedi e «sedie» politiche, da schermi televisivi, da suadenti e gracchianti microfoni, da noiosi giornali, da cattedre accademiche, da fabbriche di sentimenti collettivi in serie per tutta la gamma che corre dal lutto all'esultanza ... Con l'agile improvvisa e spietata contromossa di una (e pensiamola graziosa) lottatrice di catch, ecco la lingua offesa e umiliata che si vendica, autodissipandosi in «chiacchiera». Tanto più probabile, dunque, sarà l'esser sorpresi e beffati dalle contromosse della lingua, quanto più (come nel caso della letteratura e della poesia in particolare) ci si trovi ad agire istituzionalmente (perché qui deve consistere il senso della letteratura) per l'attuazione di quella «coincidenza» in virtù e in forza della quale un sempre caro mi fu quest'ermo colle non significa la stessa cosa di quest' ermo colle mi fu sempre caro. Mi scuso per l'elementarità dell'esempio; ma è stato un modo per suggerire quanto grande, quanto onnipresente e, purtroppo, anche quanto insidiosa e mascherabile possa essere in poesia, e più generalmente in letteratura, la trappola della «chiacchiera». Credo assai poco alle ricette e poi è difficile darne e comunque non sono io stesso individuo da accamparne la minima pretesa. Ma spero che almeno una cosa si possa dire, ed è questa: cerchiamo di rispettare i non codificati diritti e le misteriose (quasi sempre) volontà della 'persona' chiamata Lingua, tenendo presente che essa non è «strumento», bensì «co-autrice» della poesia al cui farsi mirano la nostre ambizioni e i nostri progetti, e che questa poesia, o poema, molto probabilmente preesiste, nel magmatico profondo della lingua, alla nostra stessa occasione/intenzione di scrittura. Ed è perciò che, tante volte, se non addirittura il più delle volte, non riusciamo a scrivere una certa poesia che vorremmo, ma più modestamente e con maggiore verità un'altra che «ci viene» e «ci vien data». Non posso davvero affermare, né presumere, di essere del tutto esente dai peccati di lesa lingua ai quali ho cercato, nei limiti di spazio qui consentiti, di riferirmi. Ma, in tanti anni che scrivo poesie o vengo richiesto di giudizi su poesie altrui, penso di essere giunto quanto meno al sospetto di alcune trappole, con un minimo d'attenzione evitabili. Per esempio, sono riuscito a maturare una diffidenza per i verbi al tempo futuro: dal momento, oltretutto, che.non possiamo sapere come il nostro futuro sia per essere e dunque ogni verbo al futuro finisce per avere come suo referente qualcosa che non esiste. Uguale diffidenza nutro per certe parole troppo ad effetto (come, non so, schiantare, strazio, graffiante ecc.) cariche di una pretesa di espressività che nasconde, quasi sempre, una reale condizione d'insolvenza espressiva: esse vanno fatalmente in protesto come cambiali truffaldine. Molta circospezione ho imparato a tenere nei confronti di parole radicalmente definitive (per esempio: niente o tutto, vita o morte, sempre o mai), il cui abuso può non di rado sortire effetti semanticamente alienanti, per cui un tutto si stravolge in un niente. Al contrario mi trovo sempre di più portato a concedere preferenza a termini di tono medio: per esempio a un turbato più che a uno sconvolto, a un ride piuttosto che a un ghigna ( che poi quel «riso» sia davvero un «ghigno» provvederà il contesto a farlo risultare, se le cose stanno effettivamente così: altrimenti è inutile cercare di darla a bere). Ciò non esclude, comunque, il ricorso a parole anche inusitate, quando l'intento sia quello di evidenziarne appunto la stranezza; o viceversa alle parole più (sabianaPuntdi icambiamento cioè manipolatori a proprio vantaggio, autoistituentisi anche teoricamente senza misurare l'altro da sé, corrispondenti spesso rispettivamente a contenutismo e formalismo. II punto nuovo è il movimento tra letterario ed extraletterario, un movimento sinora maltrattato o celato o puramente alluso. So benissimo di riferirmi in maniera necessariamente sbrigativa (termini più adeguati e documenti stanno in due opere in circolazione - Cent'anni di. letteratura, Liviana Editrice, 1984,e Passaggicritici, Coop. Punti di mutamento, 1984- e nella rivista Incognita) a questioni intricate e, in quanto ideologicizzabili, munite di ogni possibile conforto saggistico unilaterale, ma si tratta di passare dall'ignoto-del-noto ad un ignoto liberabile. Quello cui gli opposti schieramenti (per usare altri termini: del primato del significato, con diffusione perlopiù tra i non addetti, e del primato del significante, con diffusione perlopiù tra gli addetti) raramente pervengono: Lo spettacolo, recentemente accelerato, di una produzione in aumento a titolo personale e in diminuzione (per quanto riguarda la poesia) o in stasi (per quanto riguarda la prosa) a titolo di pubbliGiancarlo Majorino cato, induce a discorrere alla presenza di uno sfondo gremito che si riduce, nel diventare visibile, quasi assumendo la forma di imbuto. 2. Se è vero che vivere è diventato ancora più faticoso di un tempo, e una tensione violenta domina il reale, tanto che il problema numero uno risulta quello di sopravvivere, perché i libri che leggiamo, di tali fatica, tensione, sopravvivenza, recano cosl labili tracce? È una domanda semplice che l'extraletterario spesso porge al letterario e che noi letterati, tanto attenti a ciò che accade nei circuiti interni della corporazione, quasi mai ascoltiamo. Nel migliore dei casi, constatando come la letteratura respiri, dirimpetto a un gusto orientato al visivo o comunque altrove indirizzato, in una circoscrizione sempre più angusta. Che ~ mezza verità e tace ben altro. E mezza verità perché, se da un lato - e sono comportamenti ancora da analizzare-, pare prevalere un atteggiamento di presenza e non presenza insieme (gli schermi abituando ad esserci e non esserci, e passa il guardare al posto del leggere e spesso lo scrivere al posto del leggere), è anche vero che la latitanza della letteratura si scontra con una domanda d'interrogazione profonda, d'intensità condivisibile, di orientamento vitale, cui_poco o male risponde. E che il corso della letteratura, da almeno un secolo, si è lasciato coricare nell'ideologico. In altri termini, la letteratura, dalla seconda metà dell'Ottocento, e quella italiana con specifiche motivazioni aggiunte, si è mossa con particolare distanza e scontrosità nei confronti delle reali problematiche comuni. L'aver eletto - è il centro della sistematizzazione più rigida adottata dalla cultura - la propria pe~sona o la scomparsa della propria persona, che è dialetticamente lo stesso, come perno di riferimento, ha importato grave diminuzione, l:1loccandoquel movimento tra letterario ed extraletterario che abbiamo indicato come decisivo. Siamo, lo si è detto, all'interno di più specifici, non esclusivamente di letteratura, che pure fa parte dell'insieme; siamo in linea con tendenze più generali .che intorno all'esaltazione o alla scomparsa dell'individuo argomentano, esprimono, si sviluppano. Manca - e qui occorre il più fermo andar controcorrente - l'incorporazione della duplicità dell'individuo, essere tanto di solitudine quanto di mente) «trite» e disarmate. Ho imparato anche a non insistere nell'inserire a tutti i costi in una poesia una certa immagine o idea che tanto mi piacerebbe e che però non c'entra: certi treni approdanti parallelamente a una stazione terminale sono stato costretto, di recente, a farli sparire da una poesia, perché a rifiutarli recisamente era proprio il testo, che infatti si sarebbe poi svolto su un'immagine successiva di barche. Non negherò un qualche mio debole per procedimenti retorici come, ad esempio, l'allitterazione o la litote o altri dai nomi più difficili: a patto però che vengan fuori da soli emergendo dal pozzo o miniera della lingua, e io debba darci al massimo un'aggiustatina. Considero assolutamente da evitare (a meno che esso non abbia una sua precisa funzione di ambiguità) il vecchio enjambement: altrimenti l'onesto lettore avrà tutto il diritto di dubitare che l'autore sia andato a capo perché non gli tornava il verso sopra. Discretamente sconsigliabile troverei poi l'uso dei relativi: possono condurre a inestricabili gineprai che molto disturbano la necessaria apparente naturalezza del discorso poetico. Analogamente mi guarderò, nella sintassi del testo, dal troppo far quadrare e troppo specificare: se certe cose non riescono a spiegarsi da sé, vuol dire che qualcosa certamente non va; e mi guarderò anche dal ripetere (se non per deliberata volontà) una medesima parola nel raggio di almeno venti versi ecc. Insomma, qualcosa avrò pure imparato: a lasciare che la lingua costruisca la sua parte di poesia, senza troppo imporre al suo amebico e autonomo fervore o movimento le spesso profane interferenze del mio colto intelletto a questo mentalmente magari rivolgendo l'intimazione del manzoniano Lodovico: «Nel mezzo, vile meccanico!». Sono io, infatti, al servizio della Lingua; non lei al mio. comunanza, essere tanto privato quanto pubblico, essere tanto differenziato quanto mescolato. Mancanza grave, che impedisce quell'accostamento spregiudicato tra somiglianti-e-diversi agli altri, alle loro vicende, alle personificazioni, agli scambi e ai dialoghirelativi. Di qui, per tornare al tema iniziale, uno dei perché più nitidiall'intoppo del passaggio, all'interruzione che soffoca. 3. Non stanno meglio, qui o nei bei paesi del socialismo di stato, gli esponenti della comunanza, della solidarietà, dell'altruismo scritto. Soffocati da una burocrazia rispetto alla quale persino lo schifo occidentale del governoindiscusso delle merci può recitare llbertà. Non stanno meglioe mancano, essi pure, di rispondere adeguatamente alle dòmande profonde delle persone, perché al polo opposto, e non meno unilaterale, della difesa della somiglianza,dell'identità, della ragionevolezza, dell'apologia in genere. Istituendosi quale esatta metà mancante. Ed esattamente compartecipe, con perché opposti e complementari, all'intoppo, all'interruzione che ci perseguita. Così si è istituito e s'istituisce .l'intero campo letterario vigente, subordinato alle opposte ideologie che opprimono il mondo, sen.7.a capacità di riscatto o di critica pertinente. 4. II discorso solitamente semplice che conduco ha per radice l'insofferenza. Da decenni l'assenza degli scrittori italiani, e non solo italiani, da quanto sta accadendo in profondità, è constatabile concretamente nelle opere. Corporazioni regolabilie regolanti occupano il campo ed è diventato difficilissimo,benché presso alcu-

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