Alfabeta - anno VII - n. 69 - febbraio 1985

di un campo in cui è chiamato a misurarsi con gli strumenti espressivi propri della letteratura; e da essi non può prescindere, perché se ha da intervenire anche in termini di sabotaggio e contestazione, quegli strumenti deve usare; e dall'altraparte quello dell'oggettività della situazione in cui si trova, dell'hic et nunc della sua posizione storica e sociale. È chiaro che la rimessa in discussione dello scrittore nella forma dell'autocritica presuppone inevitabilmente anche una netta negazione, una posizione diametralmente opposta a quellapure legitti- ,ma che ciascuno può gestire (io la lascio gestire molto volentieri) dei sostenitori del primato della poesia, della funzione assoluta e separata dello scrittore. Il secondo elemento, la seconda categoria che mi premeva citare e che indica al tempo stesso una direzione in cui oggi si sviluppa e si articola la ricerca letteraria è appunto quella della citazione. A me pare che sia abbastanza irrilevante (condivido la polemica contro il post-moderno, qui condotta anche questa mattina da alcuni intervenuti) la proposizione post-moderna secondo cui tutto è già statofatto ed è già stato detto. In realtà anche ammesso che ciò sia vero, e non mi pare comunque che sia il caso di assumerlo come postulato, l'alternativa non è quella di un'accettazione indiscriminata di tutto, né l'indifferenza delle scelte, né il livellamento delle opzioni possibili. Ma è quella invece, mi pare, dell'interrogazione del già detto, dell'interrogazione del già fatto, proprio nella forma della citazione autocritica. Una poesia, una scrittura, una letteratura che oggi in realtà sia consapevole di quante tappe sono state bruciate e di quanti cimiteri sono stati lasciati alle spalle, in realtà non può esimersi dal compito di rivisitare quei cimiteri e attraverso la forza della citazione rimetterli in movimento, produrre un fenomeno di riattivamento di frammenti che restano, interrogandoli. In questo senso la citazione, che, per dirla con Benjamin, è il procedimento che chiama la parola per nome, la strappa dal contesto che distrugge, e che anche io credo il più forte ed efficace strumento di rivisitazione della cultura del passato, di interpretazione delle contraddizioni e dellefratture alla luce dell'oggi nella forma di una rielaborazione autocritica che al tempo stesso è atto di trasformazione e di scarto. E infine un terzo punto, un terzo aspetto e direi contenuto, enunciato dall'ipotesi di una scrittura materialistica, che è quello dell'allegoria. Io credo che quella forma di visione auratica del poeta ancor oggi dura a morire, quel principio del primato dellapoesia e dell'aura dello scrittore, che la proposta di un sabotaggio letteralmente contraddice e mira a negare e a sovvertire, si basi ancora una volta e ancor oggi sul principio implicito del- /' esistenza del potere evocativo e simbolico della parola poetica, sul postulato di uno scarto immaginativo e figurativo che la parola in quanto tale è portata a suscitare nel sistema percettivo del lettore e del suo fruitore. In realtà nel momento in cui il simbolo chiude il circolo e ricompone il contrasto esistente tra il sistema e il microcosmo letterarioe il macrocosmo della realtà esterna, io credo, dico che finisce per rappresentare sul terreno estetico e sul terreno della pratica poetica l'equivalente operativo appunto della pratica, della continuazione, della ritrasmissione di una visione di una concezione auratica della poesia. Ecco ad una pratica della poesia nella chiave appunto del simbolo e della valorizzazione del potere evocativo della parola, io credo che ancora una volta, dal punto di vista benjaminiano, che in questo senso mi sento di sposare, di riproporre, di riattivare criticamente, non si possa che contrapporre appunto un recupero di quella nozione di allegoria, che lo stesso Benjamin si era impegnato a rifondare in chiave materialistica: di un'allegoria intesa appunto proprio come sistema di relazioni, di segni linguistici che nella loro totalità evidenziano la loro differenza dal/'esterno, che nella loro totalità mostrano ed esibiscono la loro compiutezza, nel momento in cui si pongono come organismo letterario, razionalmente analizzabile, razionalmente decodificabile, e al tempo stesso però rimandano all'altro e ali'esterno. E dove il simbolo chiude il cerchio, e dove il simbolo in realtà ricompone il conflitto, l'allegoria lo attiva, l'allegoria incide sulle contraddizioni, l'allegoriaporta finalmente alla luce quella forma di implicita razionalità dell'espressione poetica che non deriva dalla convinzione, dalla persuasione ottimistica che la parola poetica possa emanare messaggi di verità assoluta, ma semplicemente dal fatto che sa, ed è consapevole, che l'assoluto è per sempre perduto e irrecuperabile. E.di questa perdita in realtà non si lamenta, di questa perdita non evidenzia le ragioni di un impianto metastorico, ma ne accetta la contraddizione; e accetta di muoversi all'interno di questa contraddizione di nuovo nella duplicità del rapporto, lo ripeto, tra la specificità del segno poetico e l'ineludibile confronto con le contraddizioni dell'esterno, con le contraddizioni del mondo che oirconda la scrittura. A me pare che queste tre direzioni non siano soltanto delle categorie di enunciazione teorica di un progetto di letteratura, ma siano anche delle direzioni concrete di ricerca. E purtroppo esula da questo convegno (e il mio tempo ormai è terminato), ma credo che se volessimo andare a ricercare, a individuare e ad analizzare quali sono oggi le tendenze più vitali della ricerca letteraria attuale nell'ambito stesso della nuova avanguardia tuttora attivissima con alcuni suoi componenti e con alcune nuove generazioni di ispirazione assolutamente anti-irrazionalistica e antineoromantica, direttamente improntate direi ih direzione di una scrittura materialistica, credo che noi le ritroveremmo. E penso che, a dispetto dei fautori dell'idealismo e del neoromanticismo a tutti i costi, resti valida l'esistenza di una 'linea che si muove in direzione di un'interrogazione puntualmente problematica del senso della letteratura, senza concessione a nessuna ricomposizione assoluta. Sulsentimenteosulr.apporto letteratura-vita 1 Qualche anno fa, alla fine degli anni Settanta, Staro- • binski sosteneva che il prepotente bisogno di affermare una nuova coscienza sensitiva andava visto ormai come l'unico modo, in una società pianificata che ha abolito il probabile e l'ignoto, di garantire al soggetto una sopravvivenza psichica. Che, insomma, il culto del corpo, indagato, soprattutto in quegli anni, da antropologi, sociologi, linguisti, era ad un tempo sintomo di una crisi ~ella totalità e dell'identità, e tentativo di opporsi alla disgregazione del soggetto. Non chiariva però Starobinski i termini e l'estensione della nuova coscienza sensitiva, né si poneva, in quella sede, il problema del rapporto tra corpo e sentimento, né tanto meno quello del rapporto tra letteratura e vita. 2. (Letteratura-vita) Eppure lo stimolo alla riflessione era importante, e per me è diventato cogente proprio in occasione del dibattito aperto in Alfabeta, all'interno delle pagine dedicate al senso della letteratura. Uno dei binomi che vi si ripropongono con più frequenza è quello qel rapporto letteratura-vita. Rischiosissimo sempre, e soprattutto se non lo si decifra attentamente (e intendo: se non lo si ristoricizza, riprendendo in esame la categoria di tempo - quale il tempo del sentimento? relativo, misurabile, puntiforme, bergsoniano? - o quella di esperienza, che non possono rimanere immobili, codificate, adibibili a usi diversi e contrapposti). Perché c'è un modo nuovo davvero e fertile di dare voce al sentimento, nell'accezione proposta da Porta di linguaggio che articola l'essere più che svelarlo e prestabilirlo, utilizzando una scrittura 'trasparente' che andrebbe pazientemente indagata nelle sue strutture e modalità anche, e perché no, in rapporto al Grande Stile: penso proprio a Invasioni. Articolare significa estendere il linguaggio a ciò che è irriducibile ad esso (alla letteratura, diceva ieri Paolo Bertetto, spetta il compito di ricordare il senso dell'illimitato, di scrivere l'intensità celata negli eventi), ma anche significa, mi sembra, parallelamente affermare in positivo i gesti, il ritmo del fenomeoico. In forme non assolutizzanti. Sentimento è sempre e comunque, a partire da Kant, il contrario di totalità, io finito (mobile, dinamico, inquieto, imprevedibile, ironico) che ci contrappone a un infinito statico, onnicomprensivo, definito. Ove in realtà è poi il finito il luogo delle possibilità, l'infinito lo spazio della limitazione. Il sentiNiva Lorenzini mento è l'esperienza di un atto ed esperienza in atto, sperimentazione che consente, costruisce il vissuto, purché non gli si attribuisca un valore simbolico, istituzionalizzandolo in forme metastoriche. 3. (Corpo-letteratura) Ecco. Mi pare che la riscoperta del corpo, del suo linguaggio, anche pre- e non verbale, e la proposta del sentimento, o come altri suggerisce, di un nuovo rapporto poesia-vita, vadano nella stessa direzione. Ed è una direzione che ribalta il macrocosmo, lo rovescia ripartendo anche da una sopravvivenza molecolare, rasoterra, stentata, aleatoria, non costruita però sul togliere, guidata da un io esperienziale che, se non ha nostalgie misticheggianti, non ha neppure inquietudini tardocrepuscolari. Se c'è assenza, o silenzio, intorno a questo io, è l'assenza non simbolistica ma allegorica delle possibilità, il silenzio non metafisico che dà senso alla parola. Contro ogni totalità programmata, il vissuto temporale è azione e memoria di un presente in trasformazione, metamorfico, che non chiede - ed è importante - all'io di parcellizzarsi. Perché ormai l'io decentrato, che è - badiamo bene - non più provocatorio né trasgressivo, in quanto ormai norma, non eccezione - rischia di coincidere con l'io assoluto, facendosi come quello statico e sterile, e anche un po' nostalgico di gouffres magari desacralizzati, ma ugualmente indifferenziati. E va allora ricordata, come coincidenza non soltanto curiosa, che a fine Ottocento, in un'epoca di crisi dell'identità, la conoscenza del corpo, con il corredo di analogie, sinestesie, tuffi nell'inconscio, rispondeva proprio a un'esigenza di restaurazione - ma all'interno di ideologie totalitarie - dell'io diviso e disgregato. 4. (La scrittura-metamorfosi) Ricondotto il discorso alla letteratura, occorre forse rimeditare un'affermazione recente di Canetti: lo scrittore, la sua missione, sono sempre in rapporto con la metamorfosi. Nella crisi della rappresentazione, rappresentare la metamorfosi non significa sottrarsi alle contraddizioni né alle contrapposizioni, rifugiarsi nell'accettazione passiva e pacificata dell'accadere (è vero - lo diceva ieri molto bene Biancamaria Frabotta - non si esce dal moderno azzerando il contachilometri delle antinomie). E la parola letteraria è di necessità, per eccellenza, luogo di tensione, se non altro tra la forma e il non formato (il caos e il numero stellare, sempre). E qui, devo dire, non capisco proprio il senso di certe contrappos1Z1oni piuttosto pretestuose tra «nuovo classico» e sperimentazione, o di certe riproposte, perlomeno ambigue, di un ingombrante e vuoto contenitore chiamato forma: che possibilità c'è di formare - si chiedeva già Montale, e lo ricorda Luperini nel suo recentissimo Montale o l'identità negata - che possibilità dunque c'è di formare se manca la forma? Rappresentare la metamorfosi deve poter significare anche ripartire dai livelli minimi, non residui, ma tracce dell'esistenza e della parola poetica, sapendo bene - lo diceva ieri Bettini - che l'assoluto è per sempre perduto e irrecuperabile. Magari nelle forme conoscitive, nel qui e nell'ora del ludico, della deiezione, come nell'ultimo Sanguineti, o, all'opposto, negli «sbeccuzzati silenzi» del paesaggio verbale, rasoterra appunto, di Zanzotto, riconsegnati alla «fattuale presenza» di cui parlava la sua poesia letta ieri sera. Il senso della letteratura può allora davvero coincidere, o identificarsi, con una riscoperta - nell'accezione che si è detta del corposentimento che interroga il possibile linguistico, contro ogni sacralità e separatezza, storico e biologico, mai in fuga (neppure dal significato), sempre complice, linguisticamente, dell'azione. LimitidelmentireimP,unemente Giovanni Giudici A desso che, forse, potrei non avere più da scriverne molte credo di essermi abituato a una certa cautela nell'uso delle parole; di avere imparato soprattutto a limitare con una qualche disciplina l'apparente manipolabilità. Una parola o un sistema di parole (frase, cioè, o discorso) sembrano, e magari (in un loro deviato uso) possono essere, entità fatte di niente, cose che non sono cose, spiriti senza spessore che passano le pareti, segni che un breve tratto di penna può a piacimento modifi- • care e volgere e stravolgere a significati totalmente diversi. Loro apparente caratteristica (potremmo dire) è una pressoché completa inermità: non esiste in alcun codice alcuna legge che punisca la violenza contro la parola; e dunque, aggiungeremo, a questa sua inermità corrisponde (e quasi sempre, in pratica, anche nella sostanza dei fatti) una pressoché completa impunità per chi la usi (la 'nomini') invano. Mentire impunemente non è impossibile, è anzi facilissimo. Ma, come la Natura ha provvidenzialmente dotato alcune specie più deboli e più esposte di difese spesso insospettate che valgono a garantirgli sopravvivenza e durata, così la parola stessa sembra nutrire in sé degli anticorpi atti a salvaguardarla dagli abusi che oltrepassino un certo limite di tolleranza. Da una lettura ormai del tempo giovanile ho sempre conservata impressa nella mente l'osservazione di un filosofo polacco oggi esule, il Kolakowski, che (diceva press'a poco così) non bisogna sottovalutare una certa funzione positiva dell'ipocrisia: perché la facciata (diceva) finisce prima o poi per rivoltarsi contro il suo contrario a cui fa da schermo. Predicare la bontà e la carità ed essere, invece, malvagi è un giuoco, che non può durare più di tanto: viene infatti il momento che il malvagiofinto-buono sarà, e magari con le cattive, costretto a essere buono davvero. Le ,cambiali vengono a scadenza. Ma questa piega del discorso (che diventa subito politica) rischierebbe di portarmi troppo in là. Mio limitato intento era, infatti, e resta, quello di riferire su qualche personale esperienza circa l'uso della parola in letteratura e, più in particolare, in poesia. Ciò non significa, peraltro, che il possibile interesse dell'argomento debba considerarsi necessariamente circoscritto ai non numerosi cultori o utenti di quest'arte. No: il fatto è semplicemente che, essendo la poesia un luogo privilegiato di uso della parola e più in generale della lingua, e per giunta dipendendo dalla parola e dalla lingua la sua ragion d'essere, succede che in essa i peccati contro la parola e la lingua emergono con gravità ed evidenza maggiori che in altre sedi o situazioni. Un uomo politico, un imprenditore, un professionista, un amante possono (e, talvolta, addirittura non possono non) mentire senza con ciò tagliarsi le gambe e contraddire alla loro ragion d'essere; o, comunque, possono contare su margini di tolleranza più o meno praticabili, tanto è vero che Ma-

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