Alfabeta - anno VII - n. 69 - febbraio 1985

Checosafareecomeoccorrfeare A ffronterò il tema della responsabilità nell'Antico Testamento e nella tragediagreca, ma sono molto lunghi; e riassumo l'essenziale, diciamo quello di cui non si può tacere. Avviene che in una tragedianon necessariamente greca, anche novecentesca, qualcuno sia spinto da un comando di giustizia a compiere una serie di gesti criminosi che ingenerano un'ingiustizia ancora più grande della giustizia che si voleva ottenere; c'è chi tenta di esentarsi, chi tenta, di fronte ad un presagio che dice qui c'è il male, di spostarsi di due metri, ma il fulmine lo colpisce proprio perché si sposta di due metri: il male era'quello. E, proprio ieri sera, in una surreale scena con Leonetti, Porta e una ragazza di qui, di cui non ricordo il nome, si parlava di sparizione de~'autore, non nel senso comune della frantumazione dell'io e di altre cose cooperiane, langhiane, e raccontavo di un episodio che mi è accaduto a Bombay, con un tabaccaio assai sapiente, il quale diceva che c'è un uomo Q ualcuno dovrà, o potrà, riconoscere un senso allo scrivere versi, oltre che un senso al testo. L'ultimo al quale tocca questo compito è l'autore. Forse, anzi, neppure il senso del testo lo riguarda. Che lo riguarda, invece, è il compimento dell'opera, a partire, dal primo sospetto dell'opera. E dapprima, allora, immerso in una sorta di «profondità d'ignoranza», dove forse si assopisce entrando nel guscio socchiuso della reverie, nella quale poi il pensiero si manifesta con movimenti strani. «Il cogito che pensa - dice Bachelard - può vagare, attendere, scegliere; il cogito della reverie è immediatamente legato al ,suo oggetto, alla sua immagine. E il percorso più corto tra il soggetto che immagina e l'immagine immaginata». D'altra parte l'oggetto dell'incontro può rivelarsi - lo è in prevalenza dentro varie maschere - l'immagine del se stesso autentico nell'orrore della sua provvisorietà e quindi, dopo il richiamo del primo approccio, che lusinga, attrae, il confronto è con qualcosa di elementare, potremmo chiamarlo la verità, e rischia di annichilirci. In quel buio profondo sognante avviene qualcosa di simile a un violento risveglio, il finto dormiente ha visto qualcosa e dice, rabbrividendo: «no, putroppo non è un incubo». «Dormiente» lo chiama Marina Cvetaeva, che afferma anche che «la condizione creativa è quella dell'ossessione». Dunque, spesso mi capita di incontrare un conoscente, o un amico che non vedo da tempo, e mi chiede: «Stai scrivendo?». «No», rispondo io il più delle volte, e il più delle volte dico la verità. Allora vedo un'espressione delusa e di circostanza sul volto dell'amico, che, costernato, vorrebbe consolarmi. Io, al contrario, vorrei rassicurarlo, dirgli che è bene cosi, che è molto meglio, che nulla posso aspettarmi di meglio che la salvezza provvisoria nel banale, vicino agli altri dai quali non ci si distingue; vorrei citargli Leopardi, dire che «la felicità consiste nell'ignoranza del vero», o che mi trovo rilassato in una «disperazione placida, tranquilla, rassegnata»; o viceversa che «l'attività è il mezzo di distrazione il più facile, più sicuro e forte, più durevole, più frequente e generale e realizzabile nella vita». E la banalità conforta a lungo. E all'attività vorrei concedermi. Senonché, prima o poi, l'ossessioassetato e incontra una donna che gli offre da bere, ma prima ancora che la sua sete venga saziata quest'uomo inizia a tessere gli elogi della bellezza di questa donna. Il Sargadata allora interviene e dice: «Ma tu credi di essere poeta per questo? Per questa rinuncia?». L'uomo tentenna e alla fine dice: «Però, sì, in fondo ho rinunciato a qualcosa di materiale in cambio di una lode». Allora si scaglia il Sargadata contro costui e dice: «Tu sei blasfemo, perché tu hai ringraziato, hai elogiato quella donna e non l'acqua, l'hai separata dall'acqua, per lei l'acqua era bella come i suoi occhi, ma hai ringraziato quella donna perché lei e soltanto leipoteva esserti riconoscente, l'acqua no». Un inno è ringraziare qualcosa che non firma la ricevuta di ritorno del dono. So che c'è una responsabilità storica in ciascuno di noi in quanto molte volte, troppe volte abbiamo ringraziato colui che dà e non ciò che viene dato. Ora, cotidie morimur, cotidie ademitur aliqua pars vitae et cum crescimus vita decrescit. Ciò che ne viene a cercarti, e ti punta, e allora sei costretto, dopo un po', già scivolato nella seduzione o nella vaghezza di una reverie, a guardarla in faccia, sotto la maschera, in una solitudine sotterranea. Comunque, di nuovo riemergendo col proprio giocattolo, l'autore può dimenticare l'accaduto, passare col suo feticcio dall'autentico all'inautentico, affrontare con rinfrescata energia le meraviglie del banale. L'oggetto verrà affidato ad altri, al caso, al futuro, che è il vero destinatario onesto, che potrà stabilirne il senso, che non è mai individuale. Mi piace l'abbandono a quest'idea; le sue linee sono tutte profondamente vere. Ma è vero anche tutto il contrario. Su Rinascita del 20 ottobre è uscito un articolo di Roberto Roversi che ci parla dei giovani poeti, che ci spiega la differenza che esiste tra i giovani poeti e la poesia ufficiale. Già la divisione nelle due categorie, mentre leggevo, mi suonava come una forzatura, una schematizzazione. Comunque l'articolo era molto interessante, provocatorio credo senza intenzione. Roversi dice tra l'altro che questi giovani poeti «vivono biologicamente con tutta la pelle risentita, in un mondo che si è scomposto, ridotto nella sua evidenza come un'arancia che si stà asciugando; un mondo in cui niente è più definibile con sicurezza ed è in atto una stravolgente scomposizione generale ... ». Dice poi che in loro c'è la perdita «ormai quasi totale della ricerca della bella scrittura, che contraddistingue il momento», parla di «mescolanza di generi» ecc. L'articolo porta esempi delle poesie di questi giovani. Ecco, è stato a Milo De Angelis afferma lo stoicismo in tutte le versioni successive e quindi anche contemporanee, ossia un'approssimazione tranquilla alla morte, è ciò che ho sempre combattuto inutilmente, comunque, con ottuso e ciecofurore. Ciò che mi è accaduto non mi è mai parso più prevedibile o più imprevedibile di ciò che mi avverrà. E allora ripeto la frase, non di Lukacs come qualcuno ha detto, ma di Dostoevskij nell'Idiota che «né vivere, né morire possono esprimere l'essenziale della vita». Leggo per concludere un riassunto di Guido Piovene da una novella di Boccaccio: «Natan era il più ricco e più generoso signore di un regno del Vicino Oriente. Chiunque arrivasse al suo palazzo edificato su un passaggio obbligato traponente e levante, vi era ricevuto e onorato; nemmeno l'estrema vecchiaia offuscò l'anima liberale di Natan. Il giovane Mitridanes, che viveva poco lontano, reputandosi non meno ricco, divenne invidioso e decise di competere con lui. Fece costruire un palazzo e si acquesto punto che qualcosa ha cominciato a insospettirmi. L'esposizione di Roversi era certo molto suggestiva e portava argomenti validi, ed altri meno validi, per esempio non è vero che il momento si contraddistingue per la ricerca della bella scrittura (anzi, semmai si cerca un'energia spoglia, chiara, forse violenta nella scrittura) e la mescolanza di generi è un effetto - se riferito ai giovani di cui parla - per lo più involontario o inconscio dovuto alla confusione, della presenza dei vari stili sottoculturali circolanti visto che oggi la parola non è più rara; o semmai è rarissima... Ma, appunto, gli esempi di versi dei giovani poeti mi sono parsi per lo più voce già udita, parola anonima, lamento (anche sincero, drammatico) d'epoca con suono d'epoca, suono fedele. A prescindere dal fatto che i poeti non si possono scovare in gruppi o in bande né cogliere nei prati o vicino agli alberi a mazzi come i chiodini, mi è parso - ma è un'impressione abbastanza superficiale, visto che i testi letti sono pochissimi - di leggere in questi giovani poeti molto semplicemente un linguaggio medio semi-espressivo sotto-poetico di ascendenza essenzialmente canzonettistica (cantautoristica, per dire meglio), con venature (probabilmente indirette) da beat-generation. E d'altra parte uno dei citati compone e canta, e canta cose, ahimè, del tipo: «e vedi non c'è niente da fare siamo nati per aspettare / per aspettare che qualcosa si muova e che ci venga a cercare / magari un'altra guerra mondiale». Questo è per fortuna l'esempio più basso. Ma d'altra parte non è che gli esempi meno bassi siano molto più interessanti (salvo forse, in parte, un caso). Un sospetto, la cosa, riesce a suscitarlo. E il sospetto mi è venuto pensando per l'ennesima volta al sistema dell'informazione-spettacolo, a questa straordinaria ma infernale specie di azienda-varietà senza precedenti che respinge progressivamente ai margini gli organismi forti, gli individui non idonei, che reagiscono negativamente alla possibilità della risposta immediata, della verifica e del consenso-consumo immediato. Ma sono tutte cose arcinote. Comunque gli organismi più deboli possono tentare di aggregarsi, di essere omologati, di risultare funzionali al meccanismo o di rispecchiarlo. Tornando a Roversi, giustacinse a superare Natan mediante cortesie, che Boccaccio definisce immani. Avvenne che una vecchietta entrò successivamente a domandare l'elemosina per tredici delle porte che immettevano nella corte interna e la tredicesima volta, pur accontentandola, Mitridanes la redarguì per la sua indiscrezione. 'Oh, liberalità di Natan!', esclamò la vecchietta. 'Trentadue porte al suo palazzo, io sono entrata per tutte, mi ha sempre fatto l'elemosina e non ha mai mostrato di riconoscermi'. Dicendo così partì senza più tornare. Mitridanes si accese d'ira, capì che gareggiare con Natan non gli era concesso, gli restava soltanto una via: ucciderlo. Un giorno lo incontrò, ma senza sapere che era lui. Lo scambiò per un vecchio mendicante e gli confidò la ragione del proprio viaggio pensando di farsene un complice. Natan stesso, scambiato da Mitridanes per il vecchietto, per il mendicante, gli suggerisce il modo di eseguire lo scempio senza testimoni: potrà sorprenderlo, lo informa, in un bosco, dove ogni giorno va a mente afferma nel suo articolo che negli ultimi tempi gli anziani e più gloriosi,vengono applauditi e celebrati. E vero, senza esagerare. Anche perché i mass media non rifiutano le figure mitologiche, semmai le trattano come ovvie statue o garanti imbalsamati: sempre rigorosamente in modo improprio. Né rifiutano il sacro nome delle arti, che tendono ad assorbire, adeguando l'adeguabile, vale a dire trasformando nella sostanza, svuotando, sventrando, ed esibendo, i soggetti come semplici presenze. In altre parole il meccanismo ha bisogno di fabbricarsi il proprio orizzonte colto, complici anche ingenuità non sospette e, naturalmente, il mercato. Forse passeggiare da solo. Mitridanes segue le istruzioni, corre all'agguato, piomba sul vecchio; sul punto però di colpirlo riconosce in lui quello che l'ha accolto, istruito e gli si getta ai piedi. Qui Natan diventa sublime: 'Non vergognarti di avermi voluto uccidere per essere più famoso e credere che io mi stupisca. Nessuno è entrato in casa mia senza che mi sforzassi di accontentarne le domande; tu sei venuto a cercare la mia vita, ti dico ancora: prendila, ho vissuto tanti anni, tu mi hai chiesto la vita, nessuno finora me l'aveva chiesta con tantaf orza'». Dunque, anche se è la terza volta che si parla di Marina Cvetaeva, dico il più bello dei suoi aforismi di indizi terrestri:che occorre dare in ginocchio come i poveri quando chiedono. Nota di redazione Milo De Angelis ci scrive: «Mi scuso con gli organizzatori, ma preferisco non pubblicare il mio intervento di Palermo». chiarire: qui non si tratta di quantità, di diffusione, ma della qualità e del segno di questa eventuale diffusione, delle regioni da cui è promossa e a cui tende), si dice, appunto, che la poesia abbia virtù (o mancanze) proprie che le consentono resistenza, e in effetti credo sia vero. Ma ciò che si può proporre dietro la nobile etichetta di poesia è un campo vastissimo, dai confini labili, apertissimi alla mistificazione. Roversi, che lodevolmente, da tempo, cerca poesia in zone marginali, povere, non istituzionali, si affida, forse, a scriventi acerbi e mediocri, a giovani il cui linguaggio è prevalentemente piatto, reperto espressivo giovanilistico, a sua volta frutto di cultura dell'informazione, di sottocultura circolante, di atteggiamento verbale stereotipato e prigioniero, che non dice ma crede di dire o dice di un dire coatto. Ma potrei sbagliarmi sull'esempio, e del resto l'episodio mi è servito per introdurre un sospetto. Quello, cioè, che un certo gruppo, una certa squadra di «giovani poeti» potrebbero costituire l'occasione, ciò che la macchina è disposta - ad assimilare per disporre, finalmente, anche_delproprio padiglione-poesia, magari anche editorialmente appetibile. già esiste un'arte che gli appartiene. Penso ad esempio ai graffitisti americani o ai nuovi futuristi. In questi casi il rispecchiamento del gioco, del rituale ironico, dell'atteggiamento1 del linguaggio giovanile o giovanilistico come serie di micro-eventi autonomi, avviene con mano felic , a volte felicissima, esatta, t ,pestiva. Ed è tutto. Il livello di ml 'r 1ctazione, di elaborazione del messaggio è pressoché azzerato. S~ tratta essenzialmente dell'esatta traduzione in stile. Cosi, tra un complesso rock, l'emporio Armani e un complesso artistico non c'è differenza di qualità, ma sostanziale corrispondenza e contiguità o complementarità. La cultura di massa propone· un'orizzontalità senza spessori. Per tradizione, ma forse è poco più che un luogo comune in attesa di essere smentito, si dice che la poesia possieda eccellenti anticorpi (la narrativa, sappiamo bene, ne ha ben pochi e già parecchi dei suoi uomini funzionano attivàmente nel meccanismo; ma voglio Le conseguenze sono facili da immaginare. Non vorrei, comunque, risultare lamentoso, né tanto meno corporativo. E poi Keith Haring o i neo-futuristi, Fiorucci o i cantanti rock, per non dire di Falcao, Zico e Rummenigge, sono molto simpatici: basta non confondersi. E di certo sono più simpatici degli anacronisti e, in fondo, già che ci siamo, di tut-toil cosiddetto post-moderno, che o non esiste o è l'estremo rantolo del moderno. Quanto al moderno (ma cos'è, infine, mi domando?), forse è davvero finito, forse ha tentato a lungo di tenere il passo della civiltà industriale, fino a che i due ritmi sono diventati tra loro incompatibili, trovandosi d'improvviso ridicolizzato, in fuorigioco. Il moderno, insomma, non è più contemporaneo, è un'avanguardia di ieri. E l'antico non è nuovo, se non per gli ignoranti. La faccia del presente sembra decisamente minacciosa, ma anche estremamente ambigua, affascinante. Vedo due soluzioni possibili: la dignità del guscio o l'interpretazione aggressiva del contesto. E a quanto pare, almeno in questo, non c'è proprio nulla di nuovo.

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