Alfabeta - anno VII - n. 69 - febbraio 1985

accettiamo che lo spazio sia curvo, non mi pare assurdo supporre che lo possa essere anche la vita. La nozione tradizionale della vita come sequenza lineare (e per tradizionale intendo aristotelica, e dunque cartesiano-hegeliana) ha una sua congrua collocazione all'ufficio dell'anagrafe, ma ci sentiremmo fortemente imbarazzati a proporla sul piano ontologico. Ha detto Antonio Porta che la letteratura è la Vita e i suoi sentimenti. È un'affermazione che riceve la mia adesione incondizionata. Certo, la letteratura è la rappresentazione simbolica della Vita, è la finzione della Vita, e in quanto tale è vera. «Ho pianto tante lacrime sulla finzione», diceva Pu~kin: e certamente non erano lacrime finte. Ma se la vita è obliqua e surrettizia e sostanzialmente equivoca, non mi pare incongruo che la sua finzione, la letteratura, sia, in quanto vera, altrettanto obliqua ed esposta alle molteplicità dell'essere. Vi prego di credermi sulla parola, non avendo la possibilità di dimostrarlo, che questa mia supposizione non è un relativismo di tipo pirandelliano: o forse lo è solo nella sua iniziale formulazione ma arriva a conclusioni assai differenti. È invece, certamente, il rifiuto di una costrittiva unità di visione e piuttosto una condiscendenza alle infinite ipotesi dell'essere, in piena libertà e senza nessun rimpianto per il presunto paradiso perduto di un'unità aristotelica che non trovo affatto attraente. Ed è anche, per quanto mi riguarda, il rifiuto dello statuto rigido del personaggio e l'accettazione di prendere il suo posto quando egli lo ritenga necessario, quando io lo ritenga necessario o quando io e il personaggio, di comune accordo, conveniamo che ciò sia necessario. Anche perché l'idea della letteratura soltanto come un freudiano «ritorno del rimosso» mi pare una semplificazione di una banalità esasperante. Che mancanza di rispetto per il nostro Inconscio postulare che il «represso» riemerga in letteratura. L'Inconscio merita indubbiamente una considerazione più reverenziale, e anche la letteratura, che diamine, altrimenti sembra di giocare una partita di ping-pong. Si dice da più parti che la letteratura, oggi, è post-moderna. La nostra epoca è post-moderna, e noi siamo di conseguenza post-. moderni. Se è consentito il sofisma, noi saremmo dunque futuri a noi stessi, il che dovrebbe permetterci, usando di questa facoltà, di guardarci anche come uomini già stati che nel 1984 tennero a Palermo un convegno sul senso della letteratura. Personalmente sono poco incline a storicizzarmi, perché ritengo che le opinioni dei viventi siano subordinate all'effimero: è preferibile lasciare questa stanca attività alla burocrazia dei posteri, se ve ne saranno. Mi risulta dunque poco facile vedermi in termini generazionali. Del resto non riesco esattamente a vedere la letteratura in termini generazionali, se non in termini sociologici e di costume, che certo esistono, sono vistosi e forse anche importanti, ma che non esauriscono il senso della letteratura. Detto ciò non credo dunque che la letteratura possa essere vista come un passaggio di generazioni: mi pare una classificazione utile per un manuale scolastico ma poco utile a leggere davvero la letteratura. Mi avvicino alla conclusione con un'ammissione inevitabile: alle generazioni di scrittori che anagraficamente mi precedono io credo di dovere molto, e lo considero un fatto di tutta normalità. Delle loro cose che mi sono sembrate migliori, o per me più utili, io mi sono appropriato senza riserva, e le ho esibite senza riserva, perché esse sono patrimonio della mia cultura, costituiscono l'io che oggi io sono. Ma, allorché tali scrittori sono diventati patrimonio della mia personale espressione, io sono anche diventato patrimonio della loro, con una valenza che le loro opere prima non possedevano e che io gli ho dato appropriandomene. E credo che questo non sia un discorso valido esclusivamente per l'oggi, ma che sia applicabile a tutti i tempi. Per concludere: un senso della letteratura, o uno dei suoi infiniti sensi, insomma, è fondamentalmente questo: che la letteratura non è a senso unico, non è lineare e progressiva, ma funziona nei due sensi: influenza il futuro ma anche il passato, è una freccia geometrica con due punte e due direzioni. Alle opere che ci precedono noi scrittori dell'oggi possiamo forse dire questo: perché le abbiamo lette noi esistiamo; e perché le abbiamo lette esse esistono. A meno che anche questa non sia una di quelle false conclusioni di cui parlava Joseph Conrad. Lacomunicaziofnaeccia faccia Il Non un'opera d'arte, non '' un pensiero ha la possibilità di sopravvivere, in cui non sia implicito il rifiuto della falsa ricchezza e della produzione di prima classe, del technicolor e della televisione, delle riviste in carta patinata e di Toscanini. I mezzi più antichi, non rivolti alla produzione di massa, acquistano nuova attualità.» Adorno scriveva questo ben noto passo dei Minima moralia esattamente quarant'anni fa, quando mancavano ancora dieci anni all'inizio dei programmi televisivi della Rai. Purtroppo, , dobbiamo constatare che le riviste in carta patinata sono ancora di moda, anche se, nel frattempo, il technicolor è stato dimenticato. Ci si può chiedere se la letteratura sia sopravvissuta nello stesso modo delle riviste in carta patinata: come simbolo di «falsa ricchezza», come etichetta che garantisce, per usare le parole di Adorno, la «produzione di prima classe». Io penso di no e i motivi che portano a questa conclusione non riguardano la qualità della recente produzione letteraria, ma considerazioni relative alle strutture elementari della comunicazione e al ruolo che la letteratura ricopre in queste strutture. Oggi rischiamo di vedersi riaprire, con qualche cambiamento di soprammobili, la vetusta polemica su apocalittici e integrati. Dovrebbe essere ormai chiaro che gli «integrati», oggi conosciuti come «post-moderni», e gli «apocalittici» abbarbicati a qualche relitto, non si sa bene se «antico» o «moderno», sbagliano grossolanamente sul punto fondamentale, perché entrambi sopravvalutano la potenza dei mass media e dell'informazione elettronica. La produzione letteraria, è vero, oggi dipende in mille modi dai grandi mezzi di comunicazione, molto di più che nel tempo in cui Adorno scriveva i Minima moralia. Ma non per questo il sistema dell'informazione ha cessato di dipendere, nell'essenziale, dalla letteratura, così come la grande industria culturale continua a dipendere dalla galassia delle piccole L a prima domanda che si può fare è: ci crediamo ancora o no? E se ci crediamo, quali pratiche di scrittura e lettura dobbiamo, possiamo, vogliamo adottare? Quali pratiche di produzione e di consumo? Anche potremmo chiederci, oltre al senso della letteratura, qual è il senso di altre nozioni, termini, concetti. Certi per esempio sono molto vecchi e démodés come il bello nella letteratuimprese di cultura. La ragione fondamentale è semplice: la letteratura affonda le sue radici nella comunicazione orale, interpersonale, faccia a faccia. Ed è quest'ultima che condiziona i mass media, perché solo quest'ultima può stabilire il senso di una comunicazione unilaterale. Il sistema dell'informazione può diffondere prodotti e messaggi su vasta scala, ma non è in grado di imporre, da solo, i codici che ne determinano il significato. La riprova è che i grandi canali di comunicazione, per garantire il successo di ciò che diffondono, ricorrono quasi sempre a codici preesistenti, già operanti su scala di massa. Tra sfruttamento dei codici invalsi e mutamento dei codici c'è un abisso, un salto nel vuoto che i mass media non sono in grado di controllare per la debolezza intrinseca dei messaggi di risposta provenienti dal proprio pubblico. La letteratura toopera in questo vuoto dove avviene l'elaborazione di senso, dove si determina il processo di evoluzione dei codici. Essa, a differenza dei media, conosce il suo pubblico. Una fitta ragnatela collega, per vie dirette e indirette, il produttore e il consumatore di letteratura, ma vorrei dire di cultura in genere. Chi ha visto il pubblico che affollava le letture di «Milanopoesia» sa che cosa voglio dire: era un pubblico di poeti, anche se molti terranno per sempre le poesie nel cassetto o non scriveranno mai più neppure un verso. La stessa cosa si può dire del pubblico di un concerto rock o di una conferenza filosofica, e oggi, in Italia, le conferenze di filosofi e scienziati hanno un pubblico altrettanto numeroso di quello dei concerti rock. La letteratura, nel senso molto ampio che stiamo dando al termine, fonda il suo potere sul virtuale monopolio di una risorsa scarsa e preziosa: il dilettantismo. Questa affermazione può sembrare stravagante nel momento in cui furoreggia la moda ingenua del professionismo come volere supremo. In realtà, fra eccellenza tecnico-creativa e dilettantismo esiste, ed è Gianni Sassi sempre esistita, una profonda osmos1. Si possono distinguere due specie di dilettantismo; la letteratura le conosce e le pratica entrambe. Quella che potremmo chiamare «verticale» provvede al metabolismo, al ricambio fra il produttore e il consumatore, sedimentando categorie e codici comuni ad entrambi, che a loro volta rafforzano i circuiti della comunicazione interpersonale basata sull'invenzione continua degli atti illocutori. I grandi mezzi di comunicazione, al contrario, separano e specializzano nettamente i due ruoli, ipotizzando un pubblico puramente recettivo, che esiste solo in qualche immaginazione totalitaria, e un apparato di comunicatori-manipolatori. che finiscono per non sapere che cosa stanno comunicando, manipolando soltanto le proprie illusioni stereotipe. Ancora più importante è la seconda specie di dilettantismo, quella che potremmo chiamare «orizzontale». Nell'era delle superspecializzazioni, diventiamo tutti dilettanti: rispetto al 99% del sapere, ciascuno di noi è condannato al dilettantismo. Faremmo bene a non dimenticare che le chances di comunicazione tra i saperi, o più semplicemente con i nostri simili, sono affidate a premesse e a tecniche di comunicazione non specialistiche. La letteratura è, per sua costituzione, la forma di comunicazione colta che, per attuarsi, prescinde maggiormente dagli specialismi, dalle téchnai, anche se, proprio per questo, richiede a volte, in chi la produce, un sapere e un saper fare di assoluta eccellenza. Mi piacerebbe definire la letteratura come la specializzazione dell'anti-specializzazione, la coltivazione dei linguaggi e dei codici collegati alla lingua comune. Ho fin qui cercato di semplificare al massimo il discorso, anche a costo di renderlo generico. Questo non significa che manchino, in proposito, ricerche e risultati di grande rilievo. Mi limiterei qui ai nomi di Havelock, di Zumthor, di Gentile, di Vegetti, che hanno di- . mostrato il legame profondo ordinario della nostra tradizione letteraria con le forme e i contesti della comunicazione orale. È un legame tenace, che si interseca a più livelli anche con la cultura diffusa dai media, come mostrano le acute osservazioni di Havelock e Zumthor sulla continuità esistente tra la poesia epica greca e la musica pop dell'era elettrica. Il revival della poesia recitata in pubblico non cade certo nel vuoto. Ancora, si potrebbero citare numerosi studiosi che hanno attirato l'attenzione sulla dipendenza dei mass media dai flussi che si stabiliscono nelle reti della comunicazione interpersonale. Ma è inutile moltiplicare le citazioni. La mia intenzione si rivolge altrove, alle condizioni dell'impresa culturale indipendente intesa come supporto della produzione e della circolazione di letteratura. Non penso di essere stato frainteso ricordando come i grandi mezzi di comunicazione dipendono, in ultima istanza, dalla 'piccola' comunicazione letteraria ed extraletteraria. Non intendevo elargire inni trionfali sul ruolo eterno della letteratura sul potere di un improbabile «Repubblica delle lettere». Le istituzioni della letteratura sono spesso obsolete, declinanti, debilitate nella capacità di svolgere le importanti funzioni che ho descritto e che, a mio giudizio, non sono venute meno nella società dell'informazione elettronica. Ho però voluto mostrare l'infondatezza della retorica corrente sulla presunta fungibilità o sostituibilità del campo letterario ad opera dei media. Sia sul piano economico sia sul piano della comunicazione, l'impresa indipendente di cultura ha davanti a sé Domandeerisposte Alberto Arbasino ra o la storia dellà 1etteratura, termini antichi che però sembra da qualche anno che siano sempre lì dietro la porta, pronti a rivenire fuori~ ma che in realtà non sono ancora rivenuti fuori. Oppure potremmo domandarci che senso hanno oggi dei termini recenti di ieri e dell'altro ieri, come per esempio la permissività, la trasgressione, vogliamo dire anche la contestazione; e nello stesso tempo che senso possono avere oggi le cosiddette regole del gioco, che abbiamo visto nella nostra esperienza degli anni scorsi convivere sempre con la trasgressione, come se fossero dei compagni di strada inseparabili. In sede di bilancio potremmo chiederci il senso delle nostre biografie individuali e generazionali, le carriere, cosa è avvenuto di ciascuno di noi; c'è chi è stato fedele ad alcuni valori del proprio tempo, alla fisionomia dell'esordio e, conseguendo degli sviluppi armonici e coerenti, in altri casi ci possono invece essere stati dei pentimenti, delle svolte, delle giravolte, delle rimozioni, degli itinerari a zig-zag. A questo punto ci si può ancora domandare: il senso di che cosa? Ha senso seguire tutte le mode anche se non ci appartengono? Una dopo l'altra le mode che sono venute fuori negli ultimi 20-25 anni? grandi spazi, molti dei quali sono aperti proprio dalla rivoluzione microelettronica. Per utilizzarli, però, occorrono due condizioni. La prima è che produttori e consumatori di letteratura non si facciano travolgere dalla retorica e dalla smania di subordinazione ai media, una retorica e una smania che nascono da una cattiva conoscenza del terreno. Per fare un esempio che ossessiona la mente di molti scrittori, giovani e meno giovani, Umberto Eco non ha imparato a scrivere Il nome della rosa consumando i corridoi di Canale 5 e computando febbrilmente gli indici dell'ascolto televisivo. La seconda condizione è che si cominci a capire qualcosa delle regole che presiedono all'impresa culturale. Da perfetti parvenus, molti italiani colti hanno cominciato a credere che essere imprenditori significhi essere ricchi, avere uffici con computer e moquette, avere sempre e comunque successo. Questa immagine, evidentemente mutuata da Dallas, è tipica del letterato umanista e del funzionario culturale che ignorano tutto della logica del mercato e dell'imprenditoria. Una delle maggiori imprese culturali italiane, la Einaudi, è nata dai debiti, non dalla ricchezza del suo fondatore, e si è incagliata, cinquant'anni dopo, precisamente per la difficoltà di dominare gli effetti del successo in un mercato fortemente anomalo come quello editoriale. Occorre discutere di più, e meglio, dei modi per dare, èinalmente, uno statuto all'impresa cultura1~,anziché protezioni e sovvenzfoni perfettamente inutili. La società dell'informazione elettronica richiede un'imprenditorialità culturale diffusa. Anche i grandi apparati di comunicazione subirannola spinta a diffondere i centridi decisione e di imprenditorialità. La letteratura ha grandi carte da giocare in questa partita, se comprenderà di averle e se non rinuncerà all'unica cosa che non può scambiare: la propria indipendenza, non solo rispetto al potere politico, ma anche rispetto ai centri di gestione dell'informazione. Era giusto o non eragiusto saltar, su ogni moda anche volendo indossare degli abiti che non ci stan• no bene o volendo usarestrumtnli che non ci appartengono, ancht di, un punto di vista generazionale? Può esseremesso comeesempio tr, parentesi: è stato utile seguire, o seguire troppo, gli esercizi dtll, critica strutturale del testo, opp le suggestioni del decostruzioni.mli quando questi diventano prectlli

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==