Alfabeta - anno VII - n. 69 - febbraio 1985

mostravenezianafannoriferimento - sopravyiene con l'esaurimento del moderno, e cioè nel momento in cui l'avanguardia {ilmoderno) - che nasce come distruzione del passato e, poi, «distrutta la figura, l'annulla,arrivaall'astratto, all'informale, alla tela bianca, alla tela lacerata, alla tela bruciata» - si accorge di non potere andare oltre: a questo punto avrebbe inizio il post-moderno, che allora consisterebbe nel «riconoscere che il passato, visto che non può essere distrutto, perc~é la sua distruzione porta al sil~n7io,deve essere rivisitato: con ironia, in mudo non innocente». Così all'incirca, anzi alla lettera, dichiara Umberto Eco nelle postille al Nome della ros,1. Umberto Eco è l'ultima persoata con cui vorrei entrare in polemica e soprattutto cui si può rivoìgere il rimprovero di ingenuit? Ma tant'è: questa volta il semplicismo della formulazione, la meccanicità delle ragioni addotte è a prova di ogni (pur volenteroso) dubbio. Ma forse Eco è stato tradito dal proposito (peraltro così apprezzabile) che sempre lo assiste di riuscire comprensibile a tutti: la scelta dello stile didascalico comporta una semplificazione inevitabile dei concetti espressi con conseguente impoverimento degli assunti sostenuti. Forse Eco voleva affermare (ciò che è fin troppo vero) che nelle avanguardie letterarie (il riferimento è alle avanguardie del Novecento) prevalgono contenuti problematico-critici, cioè che le avanguardie del Novecento cercano il loro spazio creativo sviluppando u11aviolenta azione critica e demolitrice nei .riguardi del pas Jto, di cui denunciano l'inutilizzabilità, ne contestar...: ia pretesa di eternità, ne evidenzia.. 0 le contraddizioni, ne sottolineano la rigidità. Peraltro l'azione cri!;"'" e di smantelìamenìo ptL ammatico .:ompiuta dalle av:- 1g, 1rdie è detinata 11:1tJralme111acd., esaurirsi con il ldggiungiment degli ohiettivi mirati· a qnesto punte, gli en:di delle avanguardie storiche (qualche volta eredi di se stessi) si scoprono liberi, non più minacciati dalla violenza autoritaria del passato, che intanto è stato rinchiuso nel museo, dove è tenuto a bada da una schiera (qualche volta nobile) di eunuchi del sapere: ma la libertà acquistata confina (si confonde) con la solitudine, si accompagna al sentimento di essere sganciati da ogni legame di continuità, di essere immersi in un vuoto non temperato dal sollievo di alcuna voce: la libertà acquistata è appunto la libertà del giorno dopo. Che farne? Come farvi fronte? Certo l'unica cosa di cui disponiamo, per tirarci d'impaccio, è il passato-museo. Ed è ad esso che chiederemo aiuto. Ma come lo otterremo? Forse servendocene come di un deposito da cui prelevare i materiali che, trattati ironicamente, confluiranno nell'opera post-moderna? Ma non si tratterebbe in questo caso di un'operazione meccanica e per giunta datata in quanto il trattamento ironico in funzione demistificante è ciò che caratterizzava l'esperienza della neoavanguardia anni Sessanta? Oppure ce ne serviremo per costruire un mix di stili e filoni diversi, come vorrebbe Barilli, così da realizzare «il medesimo grado di libertà, di salto continuo tra generi diversi che ci è concesso ogni momento dalle reti televisive»? Confesso che questa ipotesi mi pare un po' ridicola. Ma allora? Allora l'utilizzazione più convincente del museo-passato non è di riproporlo, magari spostato di campo, ma di chiedergli la prova della nostra identità; la restituzione della fiducia in noi stessi; la conferma che la realtà del mondo non esiste per se stessa ma per lo sforzo di azione e di pensiero che l'uomo vi sa profondere; il ribadimento che le regole che presiedono alla fabbrica dell'opera sono tante di cui alcune variabili e altre fisse: tra queste ultime, due spiccano e chiedono di non essere dimenticate e cioè: 1) che l'opera di scrittura, qualunque sia il fine che persegue e il senso che ricerca, va scoperta al di là di quel fine e di quel senso; 2) che l'opera di scrittura, per quanto evidente e apparentemente naturale è l'effetto di semplicità che raggiunge, è sempre la realizzazione di un artefatto, frutto di sofisticatissime operazioni. Il passato-museo funziona come una sorta di momento, che ti accompagna da lontano perché tu non abbandoni la partita. All'occasione ti aiuta ma mai facendo i compiti per te. Nell'impegno che hai di fronte sei solo: il passato si limita a guardarti dicendoti che ce la puoi fare. Questa è la condizione in cui, tu scrittore, oggi ti trovi: una condizione certo difficile che ti vede impegnato, accerchiato come sei da una dilagante solitudine, nello sforzo di ridare nome alle cose, previo un rinnovato riconoscimento, di elaborare nuovi miti, nuove leggende, nuove favole. O meglio di ricostruire dentro di te la vocazione alla favola (che negli ultimi decenni avevi tenuto in fiero sospetto e, conseguentemente, in ogni modo disturbata e allontanata). Ma al timore che essa potesse essere usata come strumento di consolazione - che fino a ieri ti ha inquietato - oggi è subentrata la consapevolezza che la favola rappresenta un impulso incoercibile che tu puoi occultare ma non reprimere in quanto coincide con il tuo ste·sso bisogno di crescere (cioè di scoprire sempre nuovi rapporti tra le cose scoprendo sempre nuovi rapporti tra le parole) e definisce la via indispensabile (e non sostituibile) lungo cui dar sfogo al tuo istinto di socializzazione. ( ... ) Perscatenarel'acquisizione Adriano Spatola . Q uando la letteratura s'interroga sulle prospettive della costruzione o dell'autodistruzione, con la coscienza di una frattura nella stabilita circolarità dei messaggi, si suppone che la macchina pensante che la produce stia cambiando ritmo e lunghezza d'onda. Alle domande sul proprio destino la letteratura ama spesso rispondere presentandosi come sintesi tra il processo creativo e il condizionamento o sfruttamento a livello di diffusione e mercato. In queste occasioni appare sotto specie di sintesi anche la semplice constatazione di una dispersione o di un fallimento. «Il suffit que nous parlions d'un objet pour nous croire objectifs», dice Bachelard, e aggiunge: «Mais par notre premier choix, l'objet nous désigne plus que nous ne le désignons et ce que nous croyons nos pensées fondamentales sur le mond sont souvent des confidences sur la jeunesse de notre esprit» (La psychanalyse du feu, Paris, Gallimard, 1949). Applicate alla letteratura in crisi queste considerazioni mostrano in che modo essa possa decidere per la sintesi con sbrigativa immediatezza. La letteratura ritroverà nella 'giovinezza dello spirito' la spiegazione di se stessa, e dunque la spiegazione del mondo: falsa obiettività che può giustificare i giochi della macchina pensante tanto nella stasi che nel mutamento. Così la letteratura che parla dell'oggetto 'letteratura' dentro il momento dell'interrogazione sul destino, sul futuro, si esibisce in un ruolo metafisico: ma, ha scritto D iceva Conrad che «prima si crea l'opera e solo dopo si teorizza su di essa; è questa un'occupazione divertente ed egoista che non serve a nessuno e che generalmente conduce a false conclusioni». Non vorrei intendere questa affermazione esclusivamente nel suo senso più immediato, ironico e provocatorio. Sospetto che sotto la sua prima lettura essa nasconda una seconda lettura che mi pare forse interessante cercare di portare alla luce. L'affermazione di Conrad è certo l'affermazione di un solitario, e sarebbe assolutamente impensabile in una pagina di Marinetti o di Tzara o di Breton, per limitarmi esclusivamente alle avanguardie storiche del Novecento. Essa è comunque impensabile nella pagina di tutti coloro Derrida, «la metafisica ha costituito un sistema di difesa esemplare contro la minaccia della scrittura» (Della grammatologia, Milano, Jaca Book, 1969). Il fatto è che è l'interrogazione stessa in sé a scatenare con gesto autoritario l'acquisizione e riorganizzazione dei dati indispensabili alla progettazione del futuro della letteratura, e del senso del suo destino. Sono regole semplici e costanti che nemmeno le tormentate vicende delle avanguardie del nostro secolo hanno scalfito. Le mutazioni delle forme della scrittura appaiono invece come qualcosa di genetico, appartengono a una dimensione nella quale si possono verificare catastrofi linguistiche inimmaginabili e soprattutto inutilizzabili ai fini dell'esibizione metafisica. Mentre l'oggetto 'letteratura' designa noi che pensiamo di designarla, la scrittura si rivela a nostra disposizione. Al compiacimento per le idee fondamentali sul mondo si sostituisce il disordine. «Il libero arbitrio», ha scritto Wittgenstein, «consiste nella impossibilità di conoscere ora azioni future; le potremmo conoscere solo se la causalità fosse una necessità interiore, come quella della conclusione logica» (Tractatus, 5.1362). Cosl il problema del destino e del significato della letteratura viene relegato in secondo piano dalla scrittura, il cui orizzonte racchiude almeno qualche rozzo rapporto causale evidente tra gli strumenti usati e i testi prodotti. La materia della scrittura ha bisogno di un'attrezzatura tecnica che la che nel Novecento hanno elaborato i manifesti letterari. (E credo che nessun altro secolo sia così ricco come il nostro di manifesti e di teorizzazioni.) Intendiamoci: le avanguardie non sono semplicemente un elemento caratterizzante del Novecento; esse significano intelligenza creativa, circolazione delle idee, produzione ed elaborazione di cultura, dialettica rinnovatrice intesa come éonfronto/scontro con elaborazioni culturali dissimili. Ma, al di là di estemporanee e certo ovvie considerazioni sull'enorme e spesso imprescindibile spessore culturale delle avanguardie del nostro secolo, suppongo che la sibillina frase di Conrad possa essere rovesciata in questo modo: coloro che scrissero le loro opere dopo averne già concepito faccia funzionare, e i risultati del funzionamento esistono necessariamente in tutte le opere, indipendentemente dall'aura metafisica con cui la letteratura le avvolge. Per quanto riguarda la poesia, ad esempio, l'attrezzatura tecnica si è configurata soprattutto come proliferazione di strumenti preziosamente individualizzati che finora hanno confuso il desiderio della scrittura con i procedimenti di uso della stessa. Nel frattempo però le forme metriche 'classiche', ormai abbondantemente socializzate, hanno sempre più accentuato il ruolo metafisico a scapito delle mutazioni genetiche· della scrittura. Si potrebbe forse affermare la teoria non avevano più bisogno di teorizzare su di esse, non avevano bisogno di interrogarsi sul senso della letteratura, perché quel senso essi lo possedevano già programmaticamente, diciamo pure che lo davano per scontato. Insomma, mi pare che chi si sia più interrogato sul senso della letteratura, qiagari a posteriori e raggiungendo le sue buone false conclusioni, nel nostro secolo siano stati, paradossalmente, proprio coloro che non appartenevano a programmi o a progetti di scuole, si aggiravano solo nella periferia dei progetti. Ora, il fatto che un gruppo di scrittori e di critici si riunisca all'insegna di un titolo di segno aperto e interrogativo mi induce a un'ipotesi forse azzardata ma non del .tutto implausibile: che codesta che soltanto i sistemi di 'fuga' dalle forme metriche istituzionalizzate permettono di trasferire il problema del senso dalla letteratura alla scrittura, senza dimenticare tuttavia il rapido assorbimento di forme 'aperte' quali il 'verso libero' o addirittura le 'parole in libertà'; e ciò vale anche per le recenti manifestazioni di poesia-spettacolo... Soffermiamoci un attimo su questo argomento, perché è abbastanza illuminante sulla tendenza alla sintesi della letteratura che si pone a sé come problema 'oggettivo'. La poesia-spettacolo dovrebbe fornire, secondo questa tendenza, alcune garanzie sul rapporto con il fruitore: a una proclamata emotività corrisponderebbe una notevole intensità di ricezione, non importa se di segno positivo o negativo; il rifiuto della sacralità della pagina porterebbe a un coinvolgimento globale; l'inserimento di immagini e di suoni aprirebbe la mente alla percezione di valori ritmici altrimenti nascosti; e così via. Tra le pieghe di queste supposizioni è certamente possibile trovare qualche verità parziale, ma a noi preme notare come in esse manchi qualsiasi accenno al ruolo non metafisico del poeta, che il più delle volte gestisce semplicemente un atto di volontà, un'azione che formula soltanto la propria gestualità (anche verbale), un esorcismo affidato all'estroversione, un'illusione di abilità teatrale, ecc. Insomma, non appena il discorso si sposta sul modo di fabbricare il messaggio mediante i rozzi riunione sia una riunione di solitari. Che noi tutti, qui oggi presenti, siamo dei solitari che si fanno compagnia. Sottolineo questo fatto: non solitari in solitudine; solitari ma in compagnia, perché la differenza è sostanziale. Solitari ma insieme, dunque, presenti a discutere, a interrogarci. Se questa ipotesi probabilmente eccentrica e vagamente dickensiana di un club di compagni solitari possiede una sua verità, anche in minima parte, essa mi sembra degna di essere salutata con soddisfazione: rivela una mancanza di superbia, una visione non totalizzante del mondo e un senso del relativo abbastanza salutare per un'attività come quella letteraria, che, com'è noto, mira sostanzialmente all'Assoluto. Se la letteratura è un tentativo di conoscenza rapporti causali di cui si diceva, ecco intervenire la letteratura con le sue conclusioni logiche o ideologiche, nel tentativo di recuperare ad ogni costo un senso al proprio destino. È una trappola senza uscita che rimanda al soggetto della scrittura le difficoltà dell'immaginazione e della sopravvivenza, ma anche, per fortuna, la leggerezza e l'inquietudine della curiosità creativa, prima di ogni giustificazione e consumo. L'attenzione del soggetto si sposta sull'attrezzatura tecnica come metodo di invenzione di regole arbitrarie, come scoperta della meraviglia e della fatalità della trasformazione dell'energia; attorno allo strumento si solidifica un progetto di scrittura, altrimenti labile e fallimentare. Non si vuole certo elaborare una mistica tecnologica, ma soltanto sottolineare che ogni concezione di scrittura si rivolge con determinazione agli attrezzi necessari a porre fine allo stato di fusione e di ambiguità, soprattutto quando è in atto la mutazione. Nell'universo gutenberghiano tale mutazione viene prima della pagina scritta, prima dei segni visibili, prima delle vibrazioni ottiche, perfino prima della soddisfacente scoperta tattile della qualità della carta. Il funzionamento della macchina pensante, cosl intrigata nella missione di trovare senso e scopi alla letteratura, non sarebbe possibile senza il primitivo automatismo che guida ancora oggi il miracolo della ripetizione e della variazione. del senso dell'uomo su questo paziente veicolo che ci trasporta da qualche migliaio di anni, non è disdicevole che essa provi a guardarlo con la consapevolezza del relativo, del non sistematico, del non totalizzante. Non escludo che questo senso del relativo o del precario o del frammentario possa essere interpretato come un sintomo del gene• raie smarrimento che contraddistingue la nostra epoca. Voglio augurarmi che tale smarrimento, se di questo si tratta, sia migliore delle consapevolezze preventive, perché mi pare, dati i tempi che corrono e che l'infau,sta storia del nostro secolo ha corso, che il dubbio sia meno pericoloso delle certezze. La Relatività non è soltanto un concetto della fisica: può anche essere una .visione esistenziale. Se

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