Paul Veyne Il pane e il circo Bologna, Il Mulino, 1984 pp. 680, lire 40.000 Ef rar? che un saggio ?i storia antica, necessanamente specialistico ed esotico, possa riguardarci direttamente, permettendo se non altro dei con-. fronti significativi con il ;nostro mondo sociale. Paul Veyne è riuscito invece, con Il pane e il circo, a scrivere un libro in cui, accanto all'analisi di fenomeni esotici come l'evergetismo ellenistico o i circenses, sono coinvolti alcuni aspetti essenziali della politica e della società moderne. Infatti, Veyne non ha voluto scrivere tanto un capitolo di storia antica, quanto un saggiodi sociologia- centrato sulla generosità dei notabili, e quindi sui rapp,orti tra denaro e politica - che utilizza soprattutto esempi tratti dalla storia antica. In questo modo, nella cornice di un racconto storico apparentemente tradizionale, ci vengono proposti incessanti confronti tra il modo antico e il modo moderno di fare politica, cioè tra due stili di dominio; con il risultato che lo stile antico, dissolta l'aura esotica, ci diventa assai familiare; mentre lo stile moderno, che siamo abituati a considerare ovvio, ci si mostra in tutta la sua stranezza e la sua arbitrarietà. Da solo, questo aspetto di straniamento e di capovolgimento dei ruoli basterebbe a rendere notevole il libro di Veyne. A questo si deve aggiungere che le modalità del confronto non sono affatto ovvie. Veyne lascia che esso abbia luogo soprattutto nell'immaginazione dei lettori, più che nella mera contrapposizione di dati, fatti o generalizzazioni. Con un uso al tempo stesso discreto e spregiudicato del metodo comparativo - che ha avuto ben pochi esponenti di rilievo dopo Max Weber - Veyne ci invita a cogliere due caratteristiche apparentemente contraddittorie, eppure inestricabilmente connesse, del suo oggetto storico: da una parte la specificità {il carattere unico, irripetibile, contingente) dell'evergetismo; dall'altra, la presenza di elementi che rimandano a una caratteristica universale, a un'invariante - ovvero il carattere espressivo, «eccessivo» del dominio. L'evergetismo greco, ovvero la disponibilità dei ricchi e dei notabili a sovvenzionare le disparate esigenze delle loro città, è qualcosa di impensabile al di fuori della Grecia in epoca ellenistica. Già a Roma le elargizioni degli optimates hanno caratteristiche completamente diverse (in una parola, non si tratta più di civismo ma di clientelismo); a maggior ragione, il mecenatismo rinascimentale non è confrontabile con quello della famiglia Rockefeller. Eppure, si tratta in ogni caso di rapporti par- °' ....., ticolari, singolari, tra ricchi e po- .s veri, tra dominanti e dominati. Se ~ c'è qualcosa di comune tra questi I:)., eterogenei esempi di generosità ~ °' attraverso i secoli, si tratta proprio ; di quell'elemento espressivo che l:: sembra instaurarsi in un rapporto :g che dovrebbe essere razionalistico ~ °' 'O e utilitaristico per eccellenza, e cioè il rapporto politico, la dipendenza tra dominanti e dominati. !::! La domanda intorno a cui ruota ~ l il libro di Veyne sembrerebbe es- ~ sere dunque: che bisogno h.anno i Panee circo potenti o i notabili di essere generosi, in particolare nella società ellenistica e poi in quella romana? Ma questa domé!Jlda presuppone che i rapporti umani e sociali siano spiegabili solo in base ai bisogni, alle ragioni e alle pecessità, ciò che è veramente ingenuo e riduttivo. La domanda diventa allora: in che modo la generosità dei notabili influenza le relazioni tra dominanti e dominati nella società antica? (e inoltre: rispondere a questa. domanda ci può essere utile quando pensiamo ai rapporti tra dominanti e dominati nella società moderna?). Il passaggio dalle ragioni e dai bisogni alle modalità, ovvero dalla spiegazione causale o teleologica a una spiegazione di tipo contingente basata sulla nozione di pratiche, Alessandro Dal Lago quella di Macht, ovvero di potenza proprio nel senso ripreso da Veyne. e iò che dunque emerge nel Pane e il circo è un capovolgimento, o meglio un dislocamento, dei nessi di causalità che sono impiegati più o meno acriticamente nelle scienze storico-sociali. Consideriamo ad esempio la nozione di interesse. Secondo il senso comune, questo concetto indica un determinismo più o meno rigido operante nell'agire sociale; si dice ad esempio che in un certo ambito, nell'agire di determinati individui o gruppi, prevale l'interesse di classe. Ma questo non può significare che ogni agire, individuale o di gruppo, sia determinato in ultima analisi dall'interesse. Se :::,:-::::: ,·.···\=:=:::·:: Vittore Baroni, Forte dei Marmi ci porta al cuore teorico del libro di Veyne. All'origine di tanti comportamenti apparentemente razionali non ci sono interessi, ragioni, bisogni, scopi ma elementi espressivi, pratiche, costituenti la materia originale e plastica della vita· storico-sociale, che gli uomini utilizzano, razionalizzano e modellano. In altri termini, la generosità dei notabili antichi non è una ideologia, un trucco, una finzione che i dominanti userebbero per sottomettere i dominati. Si tratta invece di un comportamento che è al principio di un rapporto sociale, e non al termine, un comportamento che può essere descritto e analizzato, ma non «spiegato» ricorrendo a determinismi più o meno nascosti. Veyne, per esprimere lo spirito della generosità antica, usa l'espressione di «volontà di attualizzare la propria potenza», volontà di esprimersi, di manifestarsi, senza altro scopo che la realizzazione delle proprie virtualità. Ciò sembra un'indebita applicazione di concetti di Nietzsche o di Bergson a problematiche gravi e concrete come quelle storiche o sociologiche. Ma non bisogna dimenticare che in Max Weber, che pochi accuserebbero di inclinazioni per la metafisica, la nozione specifica e concreta di Herrschaft - dominio in senso stretto - presuppone la musica di Mozart mi «interessa» al punto tale che voglio diventarne competente, può anche essere che io trascuri i miei interessi (il posto nell'azienda di famiglia) per dedicarmi anima e corpo a ciò che mi interessa. Come sarebbe insensato chiedersi perché a qualcuno interessa la musica di Mozart, il mestiere dello storico o l'arte di riparare le motociclette, così è insensato presumere che alla base di ogni agire sociale esista un determinismo rigido, razionale, trasparente e consapevole. Lavorando intorno a'! concetto di generosità dei notabili antichi, Veyne sottopone a un'analisi serrata, distruttiva e spesso divertente, alcuni concetti d'uso comune nelle scienze sociali, dalla nozione di carisma a quella di ideologia, di razionalità o appunto di interesse. Il senso di questa analisi e di questa critica è proprio quello di suscitare dubbi radicali sui modelli causali che spiegano l'agire sociale in base a motivi «profondi». Veyne usa a questo scopo un esempio che può essere apprezzato da chiunque si dedichi al lavoro intellettuale. Pensare che qualcuno scriva un libro per essere letto - dice Veyne - significa forse spiegare l'attività degli scrittori in modo forzato. Sembra più ragionevole pensare che lo scrittore desideri soprattutto esprimersi°ed essere riconosciuto, in breve pubblicare; se poi verrà letto, ciò costituirà per lui una gradevole sorpresa. Se qualcuno volesse spiegare lo scrivere un libro con lo scopo di «essere letti» darebbe forse una spiegazione plausibile ma errata. Dire insomma che all'origine dell'agire politico sembra essere presente non tanto una razionalità (subìta o promossa), quanto un problema di espressione, significa introdurre uno stile abbastanza imprevedibile nell'analisi storica. Naturalmente, bisogna intendersi sui termini. Veyne non è tanto ingenuo da ritenere che gli attori sociali non si propongano degli scopi, oppure che il loro agire sia libero da determinismi. Anzi, è piuttosto vero il contrario. Veyne vuol dire invece che tra l'agire come intenzionalità o razionali'tà e l'agire come processo effettivo c'è uno scarto, che la nozione di pratica descrive proprio questo scarto, e che le scienze storico-sociali proprio di questo dovrebbero interessarsi. Per chiarire la differenza tra il metodo «di superficie» e quello che ricorre a causalità profonde, Veyne utilizza soprattutto l'esempio della supposta spoliticizzazione del popolo romano. Il motto di Giovenale, che ha dato lo spunto al libro di Veyne, esprime proprio la teoria della spoliticizzazione. In cambio della loro indifferenza politica, i romani avrebbero ricevuto panem et circenses. Ciò presuppone che i romani, prima dell'età imperiale, fossero attivamente impegnati in politica, e che poi invece Imperatore e oligarchi li avessero corrotti per riservare a se stessi, nel proprio interesse, la gestione della cosa pubblica. L'analisi di Veyne svuota invece il motto panem et circenses di questa enfasi moralistica. Parlare di spoliticizzazione non ha senso perché mai, nemmeno nell'età d'oro della repubblica, i plebei, anche se cittadini a pieno titolo, hanno potuto influenzare direttamente la gestione della cosa pubblica. Né è pensabile, secondo Veyne, che gli optimates, orgogliosi e invasati del loro orgoglio, si piegassero all'obiettivo di corrompere i plebei, che non avevano alcun bisogno di corrompere. Né la distribuzione di pane può essere interpretata come una forma di assistenza sociale mascherata, visto che ne usufrnivano solo alcune migliaia di privilegiati, che non avrebbero potuto campare comunque solo del poco pane di stato. Per comprendere panem et circenses, contiriua Veyne, non ha molto senso rifarsi a spiegazioni machiavelliche, all'interesse dei dominanti o ai bisogni dei dominati. È necessario invece ricostruire le pratiche specifiche, ad hoc, che in una cultura specifica portano a una formazione irripetibile. Sono le pratiche funerarie della nobiltà romana che spiegano l'origine dei giochi gladiatori e dei banchetti gratuiti. Come, a partire da queste pratiche, i giochi si siano sviluppati nella forma dominante nella tarda repubblica e nell'Impero, questo è un problema che lo storico non può certamente risolvere con l'ausilio di modelli pronti per ogni uso. Toglieremmo ogni piacere agli eventuali lettori del Pane e il circo se anticipassimo il complesso di descrizioni e di spiegazioni con cui Veyne ricostruisce il posto delle distribuzioni di grano e dei giochi del circo nella società romana. Vogliamo però indicare solo un aspetto che ci mostra l'originalità delle argomentazioni di Veyne. Se si rinuncia alla tesi preconcetta della. spoliticizzazione, si può vedere come il pane e il circo non siano la fine della politica nella società romana ma costituiscano un nuovo modo di far politica. Il circo diviene la scena privilegiata dei rapporti politici tra Imperatore, Senato e plebe. Al circo i tre ordini della società romana si confrontano, si scontrano e si accordano. Lungi dall'essere divenuto la tomba di un civismo immaginario, il Circo si mostra come uno dei primi esempi storici di spettacolarizzazione di massa della politica. A bbiamo detto all'inizio che Il pane e il circo è uno dei pochi testi di storia specialistica ed esotica in cui, grazie al particolare metodo o stile comparativo, un contemporaneo può vedere rispecchiate o problematizzate molte caratteristiche del suo mondo sociale. Ciò è vero in primo luogo se si pensa ai presupposti teorici e metodologici del libro di Veyne, alla critica di molti luoghi comuni dell'analisi storico-sociale. Ma ciò è vero soprattutto in riferimento a1ruolo che nel libro di Veyne hanno gli elementi culturali o non-razionali della politica. Un imperatore romano che, al Circo, si fosse mostrato - come Giuliano l'Apostata - poco interessato agli spettacoli, sarebbe incorso nello sfavore popolare. Un governante moderno preferisce invece dare di sé un'immagine discreta, professionale, sobria, rassicurante. Ma è anche vero che in certi ruoli politici che non esigono una specializzazione, un uomo politico attuale potrà ricorrere ad atteggiamenti vecchi quanto il mondo come lo stile paterno, si farà notare agli spettacoli amati dalle masse, farà sue le preoccupazioni dei cittadini più umili ... Alla base di queste pratiche politiche eterogenee, che sembrano contraddirsi ma convivono benissimo, non ci sono fasi diverse nell'inevitabile progresso dell'umanità verso la razionalizzazione, ma l'arbitrario storico, quella materia storica originaria, che le ragioni umane tentano di incanalare, di spiegare: la complessità e l'eterogeneità della politica, in cui lo stile, l'immagine, l'espressione, non sono elementi accessori o residuali, ma quelli decisivi. Si può dire in breve che Il pane e il circo è un libro sulla politica come attività espressiva. La posta della politica non è co~tituita solo dal «Chi comanda?» o dal «Che cosa viene comandato?», ma anche dal «In che modo si comanda?». A questi elementi della vita politica antica, a una materialità sociale che il materialismo curiosamente ignora, è dedicato Il pane e il circo. C'è da sperare che la riflessione politologica e sociologica, abbandonato per un momento l'interesse ossessivo per le condizioni puramente formali, contrattuali o razionali della vita sociale, cominci a indagare le forme della materialità e dell'espressione tipiche del mondo moderno.
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