Storiaitalianadel·carcere R. Canosa e I. Colonnello Storia del carcere in Italia (dalla fine del '500 all'Unità) Roma, Sapere 2000, 1984 pp. 190, lire 16.000 11 carcere come forma generalizzata di sanzione penale è sicuramente datato. Raggiunge la sua massima estensione nel XIX secolo ma, nello stesso secolo, comincia ad essere «superato», dato il farsi strada dell'idea che, più che il carcere., possa essere utile l'apertura di possibilità di riduzione della pena per il condannato che si è ben comportato. Pur ridotto nella sua importanza relativa, tra i vari sistemi di controllo sociale, il carcere continua a sollecitare studi che, nelle ipotesi più serie, si interrogano sul perché e sul come del suo sorgere e generalizzarsi come forma di pena. La questione, sostanzialmente ancora aperta, è interessante anche per i riflessi immediati che ha sul modo di considerare il carcere e la pena, oggi ed in prospettiva. Nel filone di studi sulla genesi del carcere moderno si inserisce il libro di Canosa e Colonnello: una storia del carcere alla quale ben si potrebbe porre il sottotitolo «contro le teorie generali del carcere». Gli autori partono infatti dalla constatazione che i tentativi sin qui fatti di affrontare il problema delle origini del carcere e del modo attraverso il quale si sia giunti alla sua configurazione ottocentesca sono viziati proprio dalla pretesa, partendo da aspetti particolari, di costruire teorie generali del carcere o di individuare la chiave che dia la spiegazione di tutti i problemi. Le teorie generali I testi dedicati alle origini e allo sviluppo della pena carceraria sono in realtà di numero molto ridotto, «a voler esser brevi, possono addirittura essere ridotti a due: Pena e struttura sociale di G. Rusche e O. Kirchheimer, pubblicato dal Mulino nel 1978e Sorvegliare e punire di M. Foucault, pubblicato da Einaudi qualche tempo prima» (p. 9). La prima di queste opere ha un impianto sostanzialmente economicistico. Il carcere moderno è saldamente ancorato alla casa di correzione manifatturiera e ha come obiettivo principale quello dello sfruttamento razionale della forza-lavoro. La dimensione dell'internamento e le sue caratteristiche interne (lavoro carcerario) sono in relazione diretta con le condizioni del mercato del lavoro e delle sue fluttuazioni. La seconda, quella di Foucault, vede nel carcere la realizzazione più completa del principio di disciplina che percorre tutta la società borghese. Al paneconomicismo della prima si sostituisce «un pandisciplinarismo che corre il rischio di essere unilaterale non meno del primo» (p. 14). Rilevate le zone d'ombra di queste due «teorie generali», che rischiano di valorizzare e di universalizzare aspetti particolari (mercato del lavoro) o propri di una data fase (per es. panoptismo), Canosa e Colonnello operano una ricostruzione interna all'istituzione carceraria e il più possibile fattuale, ancorata cioè ai dati sul carcere come disponibili negli archivi italiani oltre che nelle opere dell'epoca. Buona parte del libro è, di conseguenza, dedicata -:ilio«stato delle prigioni» nei vari stati italiani (a Roma, nel Piemonte, a Bologna e a Firenze, a Napoli, a Palermo e a Milano) e costituisce una preziosa ricognizione e raccolta di quanto reperibile negli archivi di quelle città. Vi sono poi una serie di altri capitoli il cui materiale è organizzato per argomenti: il carcere nel diritto canonico, il trattamento dei «poveri» e delle «donne disoneste», «Lumi e carcere», «La crisi del bagno penale», ecc. L'origine Uno dei nodi fondamentali di tutte le ricostruzioni storiche del carcere penitenziario è la ricerca di suoi precedenti e la sua assimilazione (come precedente) agli «alberghi dei poveri», alle «case di correzione» ed alle altre strutture di internamento poliziesco-assistenziale diffusesi in Europa tra Seicento e Settecento. Essi infatti avevano in comune il fatto di costituire delle forme di internamento. E certamenteH carcere può essere considerato anche sotto l'aspetto di forma di segregazione, contrapposta a risposte sociali di tipo espulsivo. A questo proposito si può ricordare che, in campo penale, l'alternanza tra momenti di segregazione, interni alla società, e di espulsione è presente fino a tardi (l'Inghilterra che manda nelle colonie, gli stati italiani sforniti di marina che mandano 'i galeotti agli stati che ne sono dotati, ecc.). E in effetti è problema tipicamente moderno quello per cui il rapporto stato-cittadino (sia pur deviante) non possa essere così semplicemente pretermesso. Il penitenziario è da un certo punto di vista il massimo di affermazione di appartenenza che lo stato faccia nei confronti di un «suo» cittadino, specie se si considera il carcere nel suo rapporto di opposizione con la pena di morte (che ha evidenti connotati espulsivi dalla comunità). Ora, tornando ai problemi di «origine» del carcere, se si prescinde dall'elementare accostamento del dato segregativo - che esiste anche nelle varie «case» e «alberghi» - e si vanno ad esaminare in particolare le modalità,. il «titolo» e la stessa giustificazione sociale dell'internamento, si scopre che le differenze esistono, sono nel complesso nette e presenti sia durante la fase di massimo sviluppo dell'internamento correzionale che successivamente. Che la separazione tra i due tipi di internamento fosse netta risulta inoltre sottolineato anche da recenti studi sul sistema carcerario inglese nei quali si pone nettamente la differenza storica e giuridica tra «house of correction» e «gaols» (E. Stockdale, A short history of prison inspection in England, The British Journal of Criminology, July 1983, voi. 23, n. 3, p. 212 in particolare). Per l'Italia un campione significativo del tipo di ospiti di un albergo dei poveri è dato dalle disposizioni contenute nei «codocilli» del fondatore di quello di Genova, E. Brignole: vecchi di ambo i sessi inabili al lavoro, «figliuoli» orfani o abbandonati, adultere, gravide povere o comunque sfornite di un An iedeo Santosuosso ' luogo e dell'assistenza per il parto, tignosi, lebbrosi e inoltre ebrei, turchi ed eretici disponibili ad essere «catechizati», giocatori, crapuloni, oziosi, scandalosi, «mendichi poverelli storpii desturbatori per lo più nelle chiese ... » (pp. 1045). Il carcere invece, sia nella sua finalità originaria e ancora prevalente nel Cinque-Seicento (finalità di carcerazione preventiva) che in quella successiva (penitenziaria), «è sempre stato connesso con la commissione di un reato ed ha rappresentato la risposta della collettività a questo» (p. 108). In altri termini il primo (internamento da povertà, ecc.) si basa e si svolge secondo modalità di tipo amministrativo poliziesco, mentre il secondo di tipo giudiziario. -LASTMESSAGEhe re: ci si può infatti chiedere: cosa è «un reato», quali fatti vengono considerati reato, chi lo definisce, quali sono le strutture e le modalità attraverso le quali la società risponde ad esso, chi sono i destinatari reali di questi apparati, quale lo scarto tra effettive violazioni della legalità ed effettiva repressione penale, carceraria e non, e per quali motivi ... e si può continuare. In altri termini la ricostruzione per vie interne è un primo passaggio, indispensabile come momento di raccolta dei dati specifici disponibili, purché sia chiaro che essa comporta l'utilizzo provvisorio di astrazioni concettuali e giuridiche (reato, pena, collettività, ecc.) delle quali vanno saggiate la portata e l'effettiva consisténza nell'epo'ca alla quale vengono riferite. Mp. Anker, Berlino Reato, pena, collettività Facevo cenno all'inizio alla stretta relazione esistente tra il tipo di approccio storiografico e la concezione che si ha del carcere oggi e delle sue prospettive future. Il libro di Canosa e Colonnello ha l'importante merito di ripercorrere il farsi dell'istituzione carceraria nella sua concretezza. L'utilizzo di referenti «esterni» non è escluso per definizione, ma rinviato «soltanto ad una fase successiva» (p. 15). Tale impostazione metodologica ha le sue particolarità. Per esempio, affermare che il carcere è «sempre stato connesso con la commissione di un reato ed ha rappresentato la risposta della collettività a questo» (p. 108) consente sicuramente di sgombrare il campo da certe semplificazioni eziologiche (mercato, disciplina, ecc.), ma pone nuove questioni che richiedono a loro volta di essere storicizzate, se si vuole tentare una comprensione ampia del problema. Per ogni momento storico Basti pensare alla relatività dello stesso concetto di giurisdizione criminale, che, per esempio, nei Comuni italiani (sec. XI-XII) praticamente non esisteva. «Iustitia» era il nome riservato alla sola giustizia civile, mentre «vindicta» indicava non una giurisdizione come oggi intesa, ma la reazione della comunità attraverso i poteri pubblici contro coloro che avevano leso l'ordine e la pace cittadini (vedi su ciò R. Celli, Le origini della giurisdizione penale nei Comuni italiani, in Cheiron, 1983, n. 1, p. 32 in particolare). Ed inoltre, tornando all'arco temporale del libro del quale ci stiamo occupando, si consideri cosa significa nell'idea di pena il passaggio dalla «mera carnificina» di cui parla Andrea Alciato nel Cinquecento (i rei venivano strangolati, decapitati, mutilati, ecc.) a principi come quello della proporzione tra pena (carceraria) e delitto nel suo inscindibile rapporto con l'uguaglianza di tutti i cittadini nel poter essere ad essa sottomessi (una interessante ricostruzionedel dibattito su questi temi nella Costituente rivoluzionaria in Francia, 1789-1791, è in R. Martucci, La Costituente ed il problema generale in Francia, voi. I, Milano, 1984). D'altra parte i vari aspetti del carcere e dell'apparato giuridico concettuale che vi è connesso hanno origine diversa nel tempo e diversi tempi di mutamento storico. Per esempio l'idea «panottica»è di origine settecentesca ed ha la sua pur parziale realizzazione nel secolo scorso, mentre precedente di vari secoli è quel sistema di pene del diritto canonico nel quale il carcere conosce graduazioni, in ordine alla gravità e al tipo di reato, che sono ignote alla società «laica» e largamente anticipatrici. Mentre ancora precedente è quel concetto di «colpa» sul quale si basa ogni «pena», carceraria e non. Il carcere ottocentesco si presenta così come frutto dell'incontro congiunturale tra (questi e altri) vari elementi, che però, appena trovato un punto di contatto, tendono già a divaricarsi. Nei periodi precedenti e in quelli successivi quell'unità, ovviamente, non è più rintracciabile, in quanto ciascuno dei vari aspetti o si è «perso» o non ha più la stessa importanza. Una chiara dimostrazione dei rischi di eternizzare alcuni aspetti del carcere ottocentesco è data da certe descrizioni del presente in termini di carcerizzazione della società, nel senso di diffusione del modello carcerario a tutta la società. Ma il problema ovviamente esiste anche per le proiezioni all'indietro. Alle questioni fin qui richiamate va aggiunto infine uno dei problemi più grossi e lungi dall'essere risolto. Certe storicizzazioni frettolose, giustamente criticate dai nostri autori, si inserivano obiettivamente in un contesto teorico e politico in cui la dimostrazione di quanto recente fosse l'origine del carcere come pena si legava, più o meno esplicitamente, alla prospettiva di una sua abolizione in termini relativamente brevi (d'a1tra parte era ritenuto a «portata di mano» un mutamento generale della società). E spesso i discorsi sull'abolizione del carcere ~<C.ontenevano» quelli sull'abolizione della pena tout court, quasi che fossero la stessa cosa, mentre la seconda è un punto molto più duro del primo. Tanto che mentre, paradossalmente, l'abolizione del carcere può anche essere ritenuta a portata di mano nell'attuale assetto sociale (si pensi alla possibilità da alcuni ipotizzata di affidare alla «pubblicità da terminale» numerose funzioni preventive e repressive, sotto forma di «castigo» - una sorta di moderna gogna - o di premio), la coppia concettuale colpa- oe pena non si riesce ad immaginare "' superata (attraverso per esempio .s concetti come quello di responsa- ~ bilità) se non in un radicalmente Cl.. diverso contesto sociale in cui il ~ singolo si possa realmente identifi- "' ,9 care nei valori sociali «per conser- i: vare ciò che ama» (secondo l'e- :g spressione usata da Barbara. Gor- ~ °' res Agnoli, Sulla necessità di e/imi- 'C nare le pene, in Critica del diritto, i:: 1983, n. 31). ~ Ma su questo piano la strada è l veramente lunga. ~
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