Alfabeta - anno VII - n. 69 - febbraio 1985

Cfr. La compagnia stabile del teatro filodrammatici Gl'innamorati di Carlo Goldoni Regia di Alberto e Gianni Buscaglia dal 14 gennaio 1985 In questa nuova regia di Alberto e Gianni Buscaglia troviamo in azionemolte buone regole di rilettura di un classico. Di recente ci si è interrogati sul significato del nostro rapporto con i classici e la risposta deve venire dal lavoro, com'è naturale e giusto. I fratelli Buscaglia hanno riletto, per cominciare, la critica più illuminante (e citano Mario Baratto e Ludovico Zorzi) e hanno poi trasformato Clorinda, la cognata che scatena la gelosiadi Eugenia, nipote terribile del vecchio Federico, in un «oscuro oggetto del desiderio», secondo la lezione di Bufiuel e non l'hanno por-ata fisicamente sulla scena, ma tenuta come «buco nero» sullo sfondo, dove s'indovina la vita già alienata di una città, Milano, non troppo astratta e ormai in crisi reale. Ecco, la gelosia come cartina di tornasole di un mondo che diventa sempre più facile preda dei mostri che partorisce («debiti più che autentica ricchezza»), secondo l'intuizione di Baratto. Ma è lo stesso Baratto a mettere in rilievo che Gl'innamorati è commedia essenzialmente di linguaggio; i fratelli Buscaglia di conseguenza hanno rigorosamente regolato i movimenti e le posizioni degli ottimi attori sulla scena seguendo le leggi linguistiche dell'autore, senza nulla concedere al «colore». Con in più una citazione preziosa, il vecchio servo Succianespole riflesso nello specchio del Giardino dei ciliegi. Nessuna prevaricazione, dunque, ma una lettura autenticamente contemporanea. E di fatto altre non sarebbero possibili. L'oggettiva filologia è un semplice miraggio, lo si sa. Certo, il linguaggio del Goldoni degli Innamorati è così forte da inquietarci a partire dal suo sottofondo di catastrofeimminente. Queste sue parole (nell'introduzione all'edizione Pasquali, Venezia, 1762) suonano angosciose nella loro suprema leggerezza: «Per maggiormente spiegare il carattere dei veri amanti, affascinati dalla passione, convien che ~ien leggeri, fantastici e quasi irragionevoli i motivi de' gelosi sospetti, e ciò per rendere vieppiù ridicola una debolezza che inquieta il Mondo ... ». Una debolezza cui si vanno sommando tutte le altre non meno inconsistenti che rendono vieppiù ridicolo il Mondo. Gesualdo Bufalino Argo il cieco Antonio Porta ovvero I sogni della memoria Palermo, Sellerio, 1984 pp. 216, lire 8.000 Gesualdo Bufalino, spericolato giovane scrittore di Sicilia (nonostante l'anagrafe sembri protestare il contrario) ha tentato l'impresa impossibile: scrivere un romanzo di felicità non proprio sulla felicità. Ha tentato cioè di fare coincidere scrittura ed esistenza, sia pure nel breve tempo di un'estate, travestendo questo inaudito coraggio con le umili vesti della finzione. È verissimo che le difese che BufalinÒ si è costruito sono eccellenti, a partire dall'affermazione che la «selva delle parole» non può ingannare oltre un certo limite, ma è altrettanto vero che nella medesima selva Bufalino crede con tutte le sue forze. È questa una delle chiavi del romanzo Argo il cieco: il procedimento ossimorico, altrimenti detto «dialettica dei contrari». Confesso che raramente mi accade di voler leggere un'opera di narrativa con tanto appetito. Ogni volta che posano il libro ero preso da una certa smania di riacciuffar- ,, lo, perché in ogni pagina vi trovavo qualche delizia; ma fino a un certo punto e mi so~o chiesto perché a circa tre quarti del racconto cominciassi a provare una certa sazietà. Forse perché, come diceva Leopardi, naturalménte citato da Bufalino, la felicità dopo un poco annoia, come la grande cucina e si ha voglia di cose più semplici. Ma un risultato tuttavia Bufalino lo ha ottenuto, ed è quello che si prefiggeva: di catturare e trasmettere almeno qualche fetta di felicità. Di più non si può. Perché Argo il cieco? Lo rivela l'autore nell'epigrafe da Ovidio: «Argo tu giaci e tutta quella luce che avevi in tutti i tuoi lumi si è Torno un attimo alla bandina di presentazione (firmata g.b., dunque sua) e trovo una parola familiare: hilarotragedia, che n-iiriporta subito alla linea barocca della letteratura italiana (cui del resto ho già accennato parlando della «selva delle parole», cioè di Daniello Bartoli). Perché Argo il cieco diventasse una hilarotragedia la cittadina di Modica doveva diventare qualcosa di più di un semplice centro di bizzarrie di varia natura. La tragedia barocca è cosmica, non è isolabile in una carta geografica e qui si sente e si dichiara per di più, in molte occasioni, che siamo in Sicilia e che tanto non c'è da aspettarsi, come per una maledizione storica. Un luogo comune che frena Bufalino, mi pare. Ma non vorrei che la ricerca dei limiti ingannasse il lettore di questa breve nota: Argo il cieco è un romanzo da leggere, senza alcun dubbio. I limiti si cercano solo quando ne vale la pena. Antonio Porta Gradiva. A Journal of Contemporary Theoryand Practice Abbonamento annuale $12 estinta, e di cento occhi non ne Come ben si sa, gli Italian Stuinvade neppure uno». È questa la dies in America non si distinguono - prima grande menzogna dietro cui si nasconde Bufalino che in tutto il racconto dimostra di averli tutti bene aperti, i cento occhi della sua selva linguistica e di averli tenuti bene aperti anche prima che il linguaggio entrasse in azione sulla pagina. Un critico ha parlato acutamente di un certo modo di «barare al gioco», e precisamente in un solitario, giacché di un diarioromanzo si tratta (per dichiarazione dello stesso autore). Se dovessi trovare il limite del romanzo sta forse qui: che Bufalino non ha barato abbastanza, cioè non ha pigiato fino in fondo il pedale della finzione e tuttavia si è sentito in dovere di giustificarla anziché sbandierarla con l'umiltà di chi sa già che tutti sanno come «tutto è nulla». Il romanzo, infatti, è composto di XVII capitoli di cui cinque caudati da un bis in cui l'autore mette le mani avanti, si fa per dire, e uno che fa da cappello, contrassegnato dal numero O e l'ultimo con coda raddoppiata. Ce n'era proprio bisogno? lo credo di no. Si era capito o si doveva capire tutto o quasi dal racconto e le chiose, ahimè, sono una tentazione didattica da evitare. Il personaggio protagonista, che fa il professore nella vita, lo fa un po' anche nell'arte. per la loro apertura ai problemi teorici. Certo, non mancano studiosi di fama internazionale attentissimi al dibattito critico-filosofico, ma rappresentano poche eccezioni in un ambiente culturalmente (e politicamente) conservatore. Va perciò interpretata in modo doppiamente positivo l'iniziativa di ridare vita alla rivista Gradiva. A differenza dei primi numeri (1976-1982) che si occupavano principalmente dei rapporti tra letteratura e psicanalisi, questa nuova serie (diretta da Luigi Fontanella e George Carpetto) vuol dare spazio ad un dibattito teorico più articolato, allo strutturalismo e alla semiotica, alla fenomenologia, alla critica marxista e storicistica. Insomma, viene proposto un approccio pluridisciplinare che giustifica anche le notevoli diversificazioni interne a un comitato di direzione assai autorevole. In termini analoghi si pone l'approccio ai fatti artistici contemporanei, che rivela, tra l'altro, come la letteratura non venga qui concepita in modo asettico, ma anche come «elemento gioioso». Per cui, in questo primo numero, ai saggi (in italiano o in inglese) riguardanti il volume einaudiano della letteratura (Della Terza, Nelson, Asor Rosa), a quello psicanalitico (Slochower), a quelli su Antonio Delfini (Garboli, Fontanella), seguono testi poetici di Soupault, Sanguineti, De Angelis e Giuliani, nonché due brevi .interventi di Lunetta e Gavronsky. Chiuqono il fascicolo un'intervista a Chomsky su «Intellettuali e Potere» e una serie di recensioni. (Per ricevere Gradiva scrivere a: Dept. of French & ltalian, SUNY-Stony. Brook, Stony Brook, NY 11794-3359.) Stefano Rosso Stefano Tani The DoomedDetective. The Contributionof the Detective Novel to Postmodern American & ltalian Fiction Carbondale & Edwardsville, Southern Illinois University Press pp. 184, $17.95 Lo studio di Tani è il primo in grado di esaminare profondamente le modalità con cui il poliziesco è stato rivisitato ironicamente dalla fiction postmoderna e a mettere in luce i percorsi seguiti da un genere tradizionalmente 'basso' per acquistare dignità letteraria (sulle relazioni tra detective e post-moderno, da una prospettiva «distruzionista», si veda anchè il saggio di William Spanos, The Detective and the Boundary: Some Notes on the Postmodern Literary Imagination, in boundary 2, I, 1, Fall 1972, pp. 147-68). Tani sceglie come terreno d'indagine gli Stati Uniti e l'Italia in quanto i due paesi, pur avendo alle spalle tradizioni di poliziesco assolutamente diverse (il poliziesco nasce in America, e si sviluppa gradualmente fino ai 'duri' di Hammet e Chandler, mentre in Italia è praticamente inesistente fino agli anni Trenta), pervengono nel dopoguerra a esiti analoghi. E infatti, dopo un'estesa introduzione (corredata di preziosa bibliografia) sull'evoluzione del giallo da Poe fino ai progenitori del1'«anti-detective nove!» postmoderno (innanzitutto Borges e Nabokov, poi Robbe-Grillet, fino al Gadda del Pasticciaccio), Tani propone una triplice tipologia del romanzo poliziesco postmoderno: a) innovativo; b) decostruttivo; c) metanarrativo. Al primo tipo appartengono opere come The Sunlight Dialogues di John Gardner, A ciascuno il suo di Sciascia, e Il nome della rosa di Eco, dove l'aspettativa del lettore viene soddisfatta· solo parzialmente (una soluzione c'è, ma la giustizia non trionfa e il detective è incapace di mantenere il necessario distacco) e ampio spazio viene concesso a questioni estranee all'intreccio (problematiche socio-politiche, ecc.). Al secondo tipo appartengono romanzi «senza soluzione» come The Crying of Lot 49 di Thomas Pynchon, Talling Angel di William Hjortsberg e Todo modo di Sciascia. Infine, esempi del tipo metanatrativo sono Se una notte d'inverno un viaggiatore di Calvino e Pale Fire di Nabokov: qui la detection compare nella relazione scrittore/lettore. Senza entrare nel merito delle articolate analisi di Tani, va osservato come egli non consideri scontata la questione del «postmoderno». Infatti, come emerge dal suo discorso, se è vero che l'epilogo «inconcluso» o «insoddisfacente» è una caratteristica di tanta fiction postmoderna, bisogna però guardarsi dal considerare postmoderno (e ciò è stato fatto da autori meno avveduti) tutto ciò che si limita «semplicemente» a non rispettare il rituale della conclusione totalizzante. (11 volume può essere richiesto in Italia alle librerie Seeber· e Feltrinelli di Firenze.) Stefano Rosso prllllll MENSILEDI EDITORIA lnf ormarsi per .capire meglio l'informazione In edicola a metà mese Abbona mento: 55.000 (undici numeri); estero 110.000. Indirizzare assegno sbarrato intestato a Nuova Società s.r.l. via Boccaccio 35 - 20123 Milano oppure servirsi del conto corrente postale n. 38329207 intestato a Prima Comunicazione via Boccaccio 35 20123 Milano

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==