Unsentimentoi_naHuale Jean Starobinski Histoire du traitement de la mélanconie des origines à 1900 Bàle, 1960, pp. 91 Democrito parla. (L'utopia malinconica di Robert Burton) in R. Burton Anatomia della malinconia a c. di Jean Starobinski trad. di Giovanna Franci Venezia, Marsilio, 1983 pp. 194, lire 18.000 Raymond Klibansky, Erwin Panofsky, Fritz Saxl Saturno e la melanconia. Studi di storia della filosofia naturale, religione e arte trad. di Renzo Federici Torino, Einaudi, 1983 pp. XXV-402, lire 60.000 N on è più di moda, oggi, la malinconia. Esiliato ormai da tempo dai territori della moda poetica e artistica, degradato a «osceno» sentimentalismo nell'inattualità del «discorso amoroso», emarginato finanche dal discorso psichiatrico e psicanalitico (che gli preferisce, da Esquirol, almeno, la «monomania triste»; da Kraepelin la «psicosi maniaco-depressiva», e da Binswanger la «forma» di un'«esistenza mancata»), il termine non gode più, tra noi, blasés e indifferenti, di buona fortuna. Farne la «storia», anatomizzarlo, sottoporlo a uno studio «genealogico» e corrosivo, stabilirne i presupposti e le interne differenze, come sta avvenendo da cinquant'anni a questa parte: tutto questo attesta in modo incontrovertibile la sua «inattualità»: la sua sparizione effettiva e irreversibile. Eppure, forse poche «figure» dell'immaginario collettivo, come la malinconia, hanno attraversato con più tenacia e incisività la storia della cultura occidentale, ripresentandosi ciclicamente, in una sorta di «eterno ritorno del nuovo» (R. Barthes) in epoche di «crisi» o di sviluppo, di stagnazione o di progresso, mutando segno e senso, attribuzioni e significati, ma permanendo nella loro residualità irriducibile. Questa eclissi della malinconia dal mondo contemporaneo era stata segnalata con grande chiarezza da Giacomo Leopardi, forse il massimo teorico della «melanconia poetica». In uno dei suoi Pensieri ( e precisamente il XXXIV), dopo aver affermato che «i giovani assai comunemente credono rendersi amabili, fingendosi malinconici», aggiunge: «Ma vera, è fuggita da tutto il genere umano; e nel lungo andare non piace e non è fortunata nel commercio degli uomini se non l'allegria: perché, finalmente, contro a quello che si pensano i giovani, il mondo, e non ha il torto, ama non di piangere, ma di ridere» (il corsivo è mio). Si può dire, in fondo, che tutto il pensiero leopardiano - tragicamente poetante - si ponga questo unico e decisivo problema: come individuare l'essenza della vera malinconia, al di là della sua apparenza fenomenica e mondana, nel momento in cui essa si appresta a sparire dal «genere umano», e si avvia a trasformarsi in «reperto» archeologico, per gli «storici» della scienza e del pensiero. Tutto il suo «manuale di filosofia pratica», lo Zibaldone, e tutta la sua scrittura poetica (in versi e in prosa), assumono la malinconia in positivo, nella sua radicale «negatività», come esperienza conoscitiva, e non più come esclusivo atteggiamento sentimentale, alla maniera miltoniana. Non c'è tema connesso con la storia della patologia atrabiliare che non si ritrovi nella «terapeutica» dell'animo infelice proposta da Leopardi: la musica, il viaggio, i caratteri, l'oppio, il vino, il riso, il genio, la solitudine, il silenzio. Stupisce pertanto che né gli autori del celebre Saturno e la melanconia, né Starobinski, abbiano accennato, sia pure di striscio, a questo «pensiero» che, in fondo, sembra tanto più interessante quanto risuona del tutto isolato in un'epoca che vede nascere, con il discorso medico-psichiatrico, la confisca «dell'alterità dell'alienato, sottraendo la sua malattia ai territori oscuri del mistero, del prodigio e della paura» (Mario Galzigna, L'enigma della malinconia. Materiali per una storia, in aut-aut, n. 195-196, maggio-agosto 1983). Come si evince dal libro di Klibansky-Panofsky-Saxl, fin dal suo primo apparire, la malinconia si presenta costitutivamente doppia: equivalente a «pazzia», essa diviene presto la «malattia degli eroi», associata com'è ai miti di Ercole, Aiace, Bellerofonte. Se nel Fedro di Platone la «{}Etaµ.avia» appare come la «forza universale capace di innalzare l'anima alla visione delle idee», già, peraltro, associata a una fonte corporea, l'umor nero (e anche a questo livello giocando ambiguamente, perché l'atrabile è, a un tempo, fisiologicamente «fondata», accanto agli altri tre umori, e condizione patologica); in Problema XXX, 1, attribuito ad Aristotele, essa diviene il presupposto per la preminenza intellettuale, aprendo così la strada alla moderna teoria del «genio», che sarà impostata nella Rinascenza da Marsilio Ficino ( De vita triplici). Teofrasto, primo teorico della malinconia, e «scienziato del cuore umano» (per dirla, ancora una volta, con Leopardi), segna la fine di un pensiero che aveva ruotato attorno alla decisività teoretica del problema malinconico: laddove il soma e la psiké costituiscono ancora una totalità inscindibile è possibile affrontare la malinconia come conseguenza diretta della tragedia: e precisamente di quella tragedia priva di riscatto nella quale viene a trovarsi l'uomo che è stato abbandonato dagli dei. Bellerofonte, appunto, come ci ricorda Starobinski, «oggetto di odio per gli dei, / errava solo nella pianura d'Aleion / il cuore divorato da tristezza, / evitando le tracce degli uom1m» (Omero, Iliade, Canto VI, vv. 200-203). Dopo Teofrasto solo con il Rinascimento sarà possibile ri-pensare l'uomo come un'armonia instabile, come un luogo totale, continuamente minacciato nel suo precario equilibrio. Ma già la tarda antichità separa: separa l'anima dal corpo, la salute della malattia, la luce dall'ombra. Con Rufo di Efeso che, attraverso Galeno, condizionerà il pensiero medico fino alle soglie dell'età moderna «anche l'ultima traccia dell'alone eroico che circondava il malinconico dileguò; in particolare si venne perdendo sempre più Alberto Folin di vista la sua connessione con la profunda cogitatio» (Starobinski, Histoire du traitement, p. 50). D a questo momento, e per tutto il Medioevo, la malinconia, malattia dell'animo, e punizione corporea di Dio, acedia opaca e intrattabile, emarginata, braccata, perseguitata, acquista i tratti del peccato, divenendone condizione universale. Del rovesciamento democriteo, il cui riso malinconico accusa il mondo di essere lui il malato, avendo perduto la capacità di interrogare «la voce degli uccelli» e di «viaggiare nello spazio infinito», così come ci tramanda «Ippocrate», non c'è traccia in un'età come quella cristiana, che ha finito per sempre di interrogarsi, perché ogni domanda ha già da sempre la sua risposta «piena» e «fondata» in se stessa. Un'età, dunzione teo-logica già de-cisa. «Solo nel XV secolo - affermano Klibansky, Panofsky e Sax! - la nozione ancora semi-teologica di acedia fu sostituita da quella umanistica di 'melanconia' nel senso spiccatamente 'aristotelico'. E solo allora l'espressione furor venne solennemente riabilitata nel senso del 'divino furore' platonico» (p. 235). La «melanconia generosa» così come appare nel trattato De vita triplici di Marsilio Ficino è la risultanza di una concezione del mondo che si vuole perfetta, assoluta, ove la ricomposizione dell'uomo diviso tra anima e corpo, nella medietas dello spiritus humanus, corrisponde al rapporto armonico ristabilito, nello spiritus mundanus, tra materia universale e intelletto universale. Ma la totalità così ricomposta non è affatto un'utopia, così come sarà nell'esperienza Festival of Arts-Arno Arts, Oosterbeek, Olanda que, che non ride più, perché ha smarrito il senso del tragico e della de-cisione tragica. Alla separazione risolta nella medesimezza dell'Uno - gar-antita e definita dal compromesso «teologico» e «trinitario», dall'architettura gotica della «Summa» - il malinconico oppone una separazione irrisolta: quella, a un tempo, problematica e oppositiva, insita nel Due: male/bene; divino/terreno; temporale/eterno; finito/infinito; al L6gos divino, l'acedia «gnostica» contrappone il silenzio e il «mormorio» glossolalico. Nella descrizione della tristitia, il teologo Teodolfo di Orléans, rappresentante della «rinascita carolingia», così si esprime: «Hanc modo somnus habet, modo tarda silentia prensant, / Ambulat et stertit, murmurat atque tacet» (Klibansky-Panofsky-Saxl, p. 74), mentre per Dante gli accidiosi non riescono a giungere al senso, il quale gorgoglia loro «nella strozza / ché dir noi posson con parola integra» (Inferno, VII, vv. 125-126). Perché la malinconia ritorni a uno statuto epistemologico «positivo», c'è bisogno che l'uomo acquisti coscienza del proprio sé, insediandosi nella crucialità del tempo e dello spazio individualmente, senza l'aiuto di nessuna rassicura- «malinconica» di Robert Burton: il soggetto moderno come viene delineandosi nel trattato di Marsilio Ficino è anti-utopico, perché radicalmente teso tra l'uBQLSdella propria «inaudita» voluntas, e la disperazione della propria limitatezza «mondana». Il senso di un sistema, come quello rinascimentale, che sostituisce l'astrologia alla teologia non è affatto spiegabile con il «cammino» della scienza moderna, anti-metafisico e immanentistico, «ottimista» e «progressista». Alla radice della cd'ncezione modérna del «genio» c'è in realtà un sentimento del tragico intimamente connesso all'affermazione problematica della propria libertà. La «malinconia» sarà la condizione del «genio», chiuso in una sua aristocratica «bellezza», proprio perché è lì che si gioca l'indecidibilità tragica tra libertà e destino, tra corso astrologico del tempo e temporalità del volere. L e pagine memorabili che Panofsky dedica all'incisione di Diirer Melanconia I sono troppo note perché ci si soffermi a lungo. In esse, comunque, ritorna la stessa concezione di cui si è parlato a proposito del Ficino, di una «melanconia» come tragicità del pensiero. In Diirer, tuttavia, a differenza che negli umanisti fiorentini, la «manque» riguarda più il discorso tra arte e pratica, che quello, tipicamente «intellettuale», tra pensiero e libertà. Con Diirer, insomma, si esce da una riflessione «regionale» (la letteratura) e corporativa, per investire il problema del soggetto moderno e contemporaneo: quello della sua infelicità costitutiva, e riflessa nell'impossibilità di coniugare la cogitatio e l' ars, il pensiero e la téchne. L'interesse dei due saggi di Jean Starobinski va ben al di là di una pura curiosità erudita per la storia della medicina. Il percorso che egli indica nel rintracciare i segni di una «malattia» come quella «malinconica» dagli antichi fino al Novecento rende ancora più chiara questa irriducibilità dell'essere malinconico alle strategie del potere. Se con Burton già inizia ad affermarsi una «confisca» del pensiero negativo, emarginato dalla «tentazione utopica» e dalla volontà di «pianificazione», è solo con il XVIII secolo che prende corpo questa spogliazione del malato «immaginario» della sua dignità tragica. Autori come Pinel ed Esquirol, disancorando la sindrome «melanconica» da un fondamento corporeo (umorale), ripropongono, a livello di «sensibilità nervosa», una diagnosi e una terapia non dissimili, nella sostanza, da quelle elaborate dagli antichi. Il trattamento terapeutico privilegiato diverrà ora il trattamento morale, vero antecedente storico dell'attuale «psicoterapia». Che l'idea «dominante» (più tardi Binswanger dirà «esaltazione fissata») diagnosticata come sindrome tipica della «lypémanie»(o «monomania triste») debba essere espulsa come «cosa», rende evidente l'equivalenza tra «parassitismo dell'idea esclusiva» e l'antico «parassitismo umorale della bile nera» (Starobinski, Histoire du traitement, p. 54). Ora tutto viene applicato al pensiero, come una volta veniva applicato agli umori del corpo. Giunti così alle soglie del Novecento, viene legittimamente da domandarsi che cosa sia rimasto, oggi, della malinconia. A menodi non identificarla con quel silenzio opaco delle «majorités silentieuses» che Jean Baudrillard ha teorizzato, è difficile rintracciarlasulla scena dell'immaginario contemporaneo. E viene da domandarsi se la sua impossibilità non sia data proprio dall'impossibilità stessa della forma tragica che, con l'avvento del Moderno, appare come rinuncia a de-cidere tra proposizioni equivalenti (cfr. M~ssimo Caccian, Dallo Steinhof, Milano, Adelphi, 1980; e in particolareil capitolo intitolato ~ppunto «Impossibilità del tragico», pp. 59-64). Quella «dolorosa malinconia», sentimento delle Vergiinglichkeit (caducità), che Freud nel 1916ancora notava nel «giovane poeta» , suo interlocutore, si è probabilmente disintegrata in relitti silenziosi e taciturni, privi di identiteà patria, in un mondo, come quello in cui viviamo, dominato dauna angosciosa, ma certo non tragica, «allegria».
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