Tendenze di ricerca/Epistemologia Loschermdoiscorrimento Già nel manifesto per l'incontro di Palermo relativo a « Il senso della letteratura» (8-10 novembre 1984) era dato il sottotitolo «Tendenze della ricerca oggi in Italia». È questo l'argomento successivo di una serie di scritti (e di incontri da decidere) che incominciamo qui: esteso alla ricerca nelle arti, con dibattito inizialmente avviato già, e nella musica, è anche esteso alla ricerca epistemologica sui problemi comuni agli altri campi. Diamo per cominciare un intervento di Aldo Gargani, che è un anticipo sui materiali di Palermo, perché letto nel convegno; esso, che si presta bene al nuovo sviluppo, è completo anche in se stesso; e diamo alcune dichiarazioni di Stockhausen. (Il Supplemento letterario nel numero di febbraio prossimo darà da parte nostra gli atti dell'incontro «Il senso della letteratura», con indice completo, testi scritti e a voce degli interventi teorici - o stralci, in una misura comune a tutti di 4-5 panze, di persistenti discrepanze e divisioni. Di fatto, egli non vede il mare o i ciuffi d'erba sulì'argilla attraverso una concezione o una teoria; piuttosto egli vive la fatica e la sofferenza del loro confronto. Lui non sta lì sospeso tra la dottrina referenzialistica dei linguaggi, per cui la parola combacia con la cosa, e la dottrina delle descrizioni e delle versioni plurime, alternative del mondo. Piuttosto, qualunque cosa creda, egli la proietta sulla scena della realtà naturale. Ma non la proietta per compiere mitologiche verificazioni; semplicemente la proietta e soffre questo confronto. È piuttosto come se teorie e scene naturali si proiettassero l'una sull'altra tracciando la linea lungo la quale egli è uno spettatore soffecartellealmassimo-, campioni del- I/./: //('/ ' /:\/' le letture di testi letterari, e il resoconto registrato completo della discussione. Inizialmente sarà data una proposta dei direttori di Alfabeta che hanno coordinato la riunione di Palermo.) L e teorie, i concetti ai quali si paga il proprio debito nello svolgimento delle pratiche intellettuali, vengono portati e insieme non vengono portati nelle circostanze ordinarie della nostra vita; quando per esempio si va a fare una passeggiata in riva al mare. Vorrei dire: un uomo è anche un essere naturale, e non nel senso che sia genuino o autentico di fronte a se stesso, ma che sia visto proprio all'opposto come un essere affastellato di concezioni, di teorie che sono anche dentro di lui, ma che non sono uno specchio di qualcosa di cui egli sarebbe il portatore limpido e vigile. Piuttosto, egli va in giro per le strade, incontra persone, va in riva al mare in una giornata di sole e avverte il peso, l'aggravio che appartiene né alla vita come tale, né alle teorie e credenze come tali, ma al punto del loro incontro. Questa esperienza, che gli dà malessere, egli la percepisce tutt'al più con la coda dell'occhio, abitualmente per fugarla frettolosamente, con l'aggiunta di un profondo sentimento di colpa per la sola circostanza di averla intravista. Diventerà rigido, pallido di fuori, stravolto all'interno come se fosse incorso in un incidente stradale. In sostanza, aspetta che quella situazione abbia termine, con la stessa depressione che si esperimenta durante le festività. Ora, le festività sono contingenze difficili per gli uomini, perché V) essi sono destinati a viverle come il .s lascito di credenze e pratiche di cui ~ si sono perse la sensazione interna ~ e la direzione di verità. Andando in ~ giro, visitando un posto, andando -., in riva al mare egli crede, tutti lo -~ credono, che la realtà naturale sia ~ fusa con il sistema delle concezio- "" :io oO 'O ni, _dottrine, credenze. Mà questa fusione è una finzione; se egli guardasse meglio, se tutti guardassero ~ meglio, egli vedrebbe, tutti ve l drebbero che quelle situazioni so- ~ no altrettante esperienze di discrerente. Uno spettatore che ha l'esperienza che tutto sia sopravvenuto da sé. No, la scena naturale non serve da riferimento, né da banco di verifica, ma è lo schermo sul quale si accavallano e scorrono stili, concezioni; sul quale scorre, per così dire, tutta lagrafica del pensiero umano. Il mare è il mare in questa dolorosa linea di confronto, e una concezione, un concetto sono una concezione, un concetto lungo la medesima linea. Ognuno è se stesso ma lo è, stranamente, proprio in questo confronto che è inaspettato perché sopravviene da solo. Paradossalmente, ogni cosa e ogni teoria ricevono una fisionomia indipendente proprìo perché non stanno lì da sole, ma perché stanno lì esposte allo spaesamento di quel confronto. I o credo che questa sia l'ultima occasione di verità per gli uomini, in questo scorrere delle scene naturali, degli eventi e delle teorie e concezioni gli uni di fronte alle altre come nel giro astronomico dei corpi celesti. La parola non dice le cose, e non le descrive, e d'altronde la cosa non comanda il linguaggio; quello che però è vero è eh qualcuno, qualche uomo, sta lì in mezzo, come un soggetto che soffre, e non si può dire altro, non più di questo, perché egli si trova Aldo Gargani sulla linea corrente tra l'una e l'altra, che non.divide, e non separa, ma semplic~mente gli dà pena. È, forse, a questa particolare postazione degli uomini che risalgono la nozione di sogget1o e quella del sé. Voglio dire, l'uni :a ancora trattabile, esente da_in0enuità e da illusioni. Comunque, è certo, l'uomo la prova, qualcuno almeno la prova. Si potrebbe dire che sullo specchio del mare in una luminosa giornata scorrono teorie, stili, modi di approccio, interpretazioni. In linea di principio scorrono o possono scorrere tutti. Ma ciò che oggi scorre per qualcuno che ci vada e ci si affacci è intanto il sentimento della differenza e del distacco. Qualunque cosa creda o abbia creduto, egli ora proietta Moby Dick e lo vede scorrere, oppure proietta La Mer di Debussy, e la vede scorrere. Prende ora il mare come la cosa che fa una dolorosa differenza tra Moby Dick e La Mer. Al tempo stesso prenderà distanza o si accorger~ di quanto lui, che scruta e osserva, sia cambiato. Quel mare ha l'effetto di farlo sentire diverso da se stesso, perché egli incontra ora, oggi, difficoltà a convertire il mare in Mohy Dick o nella Mer. Non è che lui si ricordi o avverta di essere più dal lato o in prossimità del primo o della seconda; perché egli soprattutto percepisce ora la dolorosa esperienza di entrambi. Se volesse, e non è detto che lo voglia, potrebbe da quell'occasione, che è casuale, trarre una sorta di iniziazione al proprio sé. In ogni caso, tutto il suo essere consiste nel soffrire quella differenza, ossia quella circostanza per cui il mare pur essendo rimasto il mare, lo stesso mare, ha scalato per così dire una varietà di interpretazioni, di modi di descriverlo e di sentirlo. Ma non è d'altronde che il mare sia qualcosa di diverso o di più di quello che semplicemente è, e cioè quel fattore o quella condizione che ha scalato la moltitudine di applicazioni intellettuali alle quali è andato soggetto. Il mare non è la descrizione naturalistica del mare, né il mare è l'espressione del mare, né il mare è l'espressione del palpito o del grido della nostra anima nella rappresentazione del mare. Il mare è invece lo schermo di scorrimento di questi approcci e oggi l'uomo ha l'incerto ma unico avvertimento di sé unicamente lungo quella linea divisoria. Lui, se si prende in maniera diversamente seria da quella convenzionale, cioè se non si limita ad apparire rigido e pallido, deve soffermarsi su quella divisione e discrepanza, che gli sopravviene come per caso, ma che è anche tutto ciò in cui ora, oggi, consiste. Appartiene a un passato che sembrerebbe irrecuperabile - ma il passato non andrebbe appunto preso sul serio? - che lui dica il mare o che il mare dica per lui. Ciò che voglio dire è che l'una o l'altra cosa è un muoversi, un partire per qualche parte, e invece lui deve stare dove si trova. E perché bisognerebbe sempre partire, muoversi, agitarsi, andare da qualche parte, anziché rimanere dove si è? Verrebbe voglia di dire: che egli rimanga lì, di fronte a quel mare, che è tutto il mare dei suoi interrogativi, disagi e inquietudini senza forma. Per questo appunto egli è propenso a schivarli, perché non hanno forma. Può allontanarsene pallido e stanco, come se fosse invecchiato di colpo, o può prendere la decisione di soffermarvisi. La forma, se sorgerà, non sarà il programma di una forma, ma sarà l'impronta della sua fermata. «Io non so neanche come sia arrivato a tutto questo» potrebbe egli dire un giorno di fronte al mare; e così comincerà a scavare la sua orma. Per quanto possa apparire strano, comincerà a fare, ad essere attivo, proprio mentre ritiene di aver rinunciato a qualunque intrapresa, di essersi arreso. Sì, perché si tratta di ritornare su di sé mentre contemporaneamente si ha l'impressione di disperdersi nei fiocchi della propria cenere. Ciò che di fatto appare irreale è la tenuta temporale lineare delle teorie, delle concezioni, delle dottrine, perché l'esperienza di fronte alla quale è messo quell'uomo lungo la spiaggia è la circostanza che i nostri pensieri prima o poi diventano falsi. E non perché essi abbiano cessato di combaciare con la realtà, perché in effetti non c'è mai stato il momento nel quale hanno comba- • ciato, così come non c'è nemmeno stato quello in cui avrebbero cessato di farlo. Voglio dire che qualunque momento potrebbe egualmente prestarsi al loro combaciare così come al loro divergere. e iò di cui bisogna prendere atto è la continua, ininterrotta frantumazione di idee, concetti nel fluire dei granuli del tempo. In un certo senso è come se certe idee e concetti diventassero prima o dopo falsi senza essere stati prima veri (nell'accezione in cui essere vero significava corrispondere ad una cosa o designarerigidamente qualcosa). La supposta permanenza e compattezza di essi dipendeva dalla stessa immagine lineare, assoluta, rappresa del tempo che promana da ciò che chiamiamo 'idea', 'concetto' o 'teoria'. Ma nell'esperienza effettiva dello scorrimento di idee, concetti e teorie in presenza degli eventi, delle realtà naturali che avevano suscitato il compito di essi, gli uomini possono ora avvertire quella discrepanza del tempo che è la stessa cosa della esperienza della divisione di loro rispetto a loro stessi. Per cui, anziché la presenza di concezioni o di teorie, gli uomini a un certo punto accertano solo tracce di sé, e della lontananza che nel frattempo - c'è sempre un 'frattempo' - hanno preso da sé. Io vado dunque lungo la spiaggia, rivedo la medesima spiaggia, i medesimi pini che nonostante siano logorai:i dalla salsedine continuano a protendersi verso il mare come a un'amante che li abbia sempre respinti. È il medesimo mare e sono i medesimi pini, ma sono anche differenti perché sono tutto il passato delle stratificazioni che le mie idee, i miei concetti vi hanno sovrapposto nel corso degli anni. In realtà, se li prendo seriamente, l'esperienza che ne faccio è quella della differenza e dello spaesamento che mi impongono. Se potessimo immaginare che parlassero, direbbero qualcosa come: «Hai detto questo una volta su di noi, e poi hai anche detto quest'altro, e poi ancora quest'altro, e noi siamo le tracce di tutta la tua differenza». Io allora non vedo qui il mare o i pini o qualsiasi realtà naturale o un evento attraverso una concezione, una teoria; propriamente non vedo qualcosa, ma esperisco delle velocità coesistenti che corrono parallele lungo una linea nella quale avverto la mia vita come una consumazione. Le dottrine, le concezioni (nonostante la loro compattezza e lisciatura) non comandano la visione di quello che succede, non guidano la propria applicazione alle cose e agli eventi, ma subiscono, ad opera dei dintorni che le circondano nella circostanze della vita umana, un destino: la loro conversione nella natura di tracce, di lontananze in cui gli uomini avvertono l'allarme del proprio sé. Per quanto possa costituire un sacrificio intollerabile, l'unica oc-
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