P arlando della musica e del mito alla fine di Mitologia 4, Lévi-Strauss istituisce una curiosa corrispondenza sessuale tra il compositore e l'osservatore. Chi ascolta la musica o la narrazione del mito, e vi investe uno o più significati virtuali, sarebbe una specie di creatore in negativo, i cui vuoti vengono colmati dall'autore del brano. Questo perché il non compositore possiede, da parte sua, allo stato latente numerosi significati che vanno a sovrapporsi e ad incarnarsi nei suoni, per cui la musica funziona da elemento scatenante di risposte precise e sovrapponibili, il suono e il senso, cioè la reazione intellettuale e quella emotiva dell'ascoltatore. Un vero accoppiamento, come un matrimonio alchemico di materie opposte. Si può pensare in questi termini anche all'arte figurativa e senza nessuna differenza, nemmeno di cerimoniale, perché l'osservazione è pilotata dallo spessore dei significati che l'artista è riuscito a fondere insieme e in questa griglia chi osserva predispone una serie di risposte che vanno ad aderire agli stimoli visivi. Inoltre l'atto del vedere l'opera può avere un'estensione nel tempo paragonabile a quella dell'ascolto musicale. E in una vera esegesi del discorso artistico che non sia solo ingestione vorace di immagini i due poli artista e osservatore devono intrecciarsi di continuo e separarsi per ampiezza di segno o per risonanza di significato. I due ruoli sono paritetici per LéviStrauss «in quanto ciascuno detiene uno dei due sessi» quindi nessuna tentazione di attribuire una parte attiva all'artista e una passiva all'osservatore. Questa coniunctio si può estendere tout court dall'artista a quella speciale figura di osservatore-fruitore che è il collezionista, ponendo il problema in termini di durata. Il collezionista è certamente un fruitore che ingaggia con l'opera una corrispondenza di segno-significato protratta nel tempo. Accetta e impegna energie anche materiali per una convivenza più lunga con il lavoro, mentre il semplice fruitore delega tutto questo al museo o alle istituzioni pubbliche. Possiamo parlare proprio di persistenza retinica o di un 'ascolto' dell'immagine che ha un'estensione paragonabile a quella dell'esperienza musicale. Ma quello che muta sostanzialmente, oltre il rapporto diretto tra artista e osservatore, è il fatto che la collezione crea una trama complessa che si dipana attraverso le singole opere che la compongono. Certamente la figura del collezionista non ha goduto di una grande fortuna negli ultimi decenni. Vi hanno pesato soprattutto i fondati sospetti sulla privatizzaziùne dell'opera come proprietà sottratta alla fruizione collettiva, ma vorrei chiarire subito che, parlando di collezionismo, alludo prima di tutto a una struttura di conoscenza del lavoro artistico che sta comunque alla base del museo stesso, quando sappiamo benissimo che, sia legata o no a una destinazione privata, la raccolta si delinea sempre secondo gli stessi modelli. Cioè, c'è una 'privatezza' anche in chi colleziona per istituzioni pubbliche, a condiAttribuzione e falso/5 Il collezionista zione che si assuma in prima persona la responsabilità delle scelte e quindi sia fatto salvo il programma, deciso coscientemente e coerentemente e non affidato, come spesso succede, alla totale casualità degli accessi. Il vero collezionista, quello più colto e avvertito, in passato come oggi, ha sempre un disegno in base al quale raccoglie gli oggetti. Quanto più questo disegno sarà chiaro e definito, tanto più ne risulterà decifrabile l'immagine dell'insieme. Che esista uno stile o una 'forma', se così vogliamo chiamarla, del museo, mi sembra di poterlo ricavare tra l'altro dal fatto che sono gli stessi artisti ad accorgersene e ad inventarsi uno 'stile museo', come fanno i concettuali degli anni Sessanta-Settanta con operazioni di accumulo e di registrazione scrupolosa di tracce o di reliquie personali, con cataloghi di eventi e di oggetti o con vere e proprie ricostruzioni imitative di bacheche del museo, in forma di frammenti di vetrine di antropologia o paleontologia. E penso soprattutto al lavoro di Claudio Costa di quegli anni ·e a Herbert Distel, artista svizzero che costruisce, nella tradizione dei musei enciclopedici contenuti in un solo armadio o in un solo stipo, un mobile a più piani con cassetti che riempie ciascuno con un'opera dei principali artisti europei e americani degli anni Settanta (Das Schubladenmuseum, 1976). e redo che tutto questo si possa leggere come un ~enomeno di 'mimetismo', in cui anche il museo viene assunto come elemento di un contesto più generale ridiventato presente, se non altro in modo singolare, trattandosi di una istituzione che tradizionalmente guarda al passato. Ma in più nasce da quella ipercoscienza della destinazione dell'opera che, proprio mentre si nega spazio al collezionismo, sembra essere una delle preoccupazioni dominanti degli artisti degli anni Sessanta-Settanta. Si verifica, paradossalmente, che l'opera sia già pronta per la sua destinazione fin dalla sua fase ideativa, cioè sia già museo prima ancora di essere museificata. Allo stesso modo sono stati mutuati schemi formali da discipline parallele, come la semiologia o lo strutturalismo, tanto che una revisione di tutto il periodo cosiddetto concettuale andrebbe riproposta con nuove denominazioni di 'arte semiologica', 'arte strutturalistica', 'arte antropologica'. Certamente, gran parte della produzione artistica del Novecento deve essere riconsiderata per il carattere di 'stile collezionistico' che manifesta proprio a partire dalle avanguardie e dal surrealismo in particolare. Un museo presentificato è già nel paesaggio di frammenti riuniti nei dipinti metafisici di De Chirico, così come c'è l'idea di accumulo e di stratificazione progressiva nel collage dadaista e surrealista. Il Merzbau di Schwitters è una Wunderkammer del Novecento, il luogo e la stanza dove si lasciano depositare gli oggetti più diversi e l'assemblaggio surrealista è una forma di ordine del caos, lasciato ad obbedire alle sue stesse leggi, in cui frammenti, parole o brandelli Adalgisa Lugli di immagini vengono semplicemente messi a contatto. È la vicinanza, cioè il gesto dell'artista, che crea le analogie. E fa parte essenziale del gioco un altro elemento tipico del museo, cioè lo spaesamento e lo sradicamento dell'oggetto, distolto da un contesto e portato in un altro. Di questo procedimento si erano serviti largamente i collezionisti enciclopedici delle Wunderkammern, estraendo frammenti dalla natura e dall'arte, cioè dalla produzione artistica antica e contemporanea e facendoli convivere insieme. Si diceva che il collezionista è un tipo speciale di fruitore che si affida alla durata dell'opera, anzi ingaggia con essa una specie di 'sfida' sul suo valore. Certamente l'effetto del suo lavoro travalica quello del semplice fruitore. Il collezionista può essere 'logografo' e scrivere una sua storia esemplare attraverso gli oggetti, dando giudizi di valore attraverso le sue scelte. Può riflettere gli orientamenti critici di un determinato momento o comunque operare lui stesso secondo le linee di una critica parallela. Forse per il Novecento l'esempio più alto di questa forma di collezionismo è la raccolta di opere dell'avanguardia russa riunita da Costakis a Mosca a partire dal 1946. Costakis non è un critico e nemmeno un artista, ma raccoglie dipinti, sculture, disegni, oggetti ai quali nessuno _inquel momento dava più importanza, nemmeno gli stessi autori talvolta o i loro eredi. Salva numerose opere dalla distruzione e riunisce nella sua casa di Mosca la grande collezione costruttivista che nessun museo sta organizzando in quel momento. In questa opera paziente di scavo e di ric~rca ha al suo fianco due protagonisti del movimento, R6dcenko e la Stephanova, e poi via via altri artisti, quasi tutti in gravi difficoltà materiali, ma soprattutto molfo provati e sfiduciati dal grande silenzio che si è fatto intorno a loro. Con loro il collezionista istituisce un progetto comune e si incarica di costruire un'immagine della collezione che rispecchi il più fedelmente possibile la visibilità e il tramando della ricerca artistica. Senza dubbio siamo di fronte al caso pressoché unico di un'indagine condotta attraverso le opere e in loro effettiva presenza, escludendo completamente il critico. Un collezionista e un artista più o meno a distanza di dieci anni dalla fine del movimento ne ripercorrono i momenti più salienti in totale assenza di qualsiasi sistemazione storica. Credo che questa sia una collezione su cui dover meditare proprio per lo scrupolo sottile con cm e riuscita a scavare nel movimento, salvandone tutta la progettualità, gli esperimenti, anche quelli marginali, le personalità minori, in una parola tutto il sommerso. Certo lo sperimentalismo delle avanguardie dovrebbe insegnare molto al collezionismo e alla museografia contemporanei, proprio ad andare oltre l'opera finita e a recuperarne i materiali. Non mi risulta che tutto questo si faccia se non in misura molto ridotta. L a raccolta, quando è organizzata con cosci_enticriteri di valore estetico e critico, riesce comunque ad aggiungere molto alle opere. Intanto perché rinsalda i loro legami e mette in rilievo le differenze, che è quello che normalmente fa il critico, ma in più le visualizza come la riflessione di una metà nascosta e simmetrica. In realtà la collezione va prima di tutto letta come un testo che può avere rotture logiche e frantumazioni sintattiche, ma che obbedisce a una logica comunicativa. È una scrittura fatta di oggetti e perciò una scrittura geroglifica. L'osservatore è invitato a percorrere questo alfabeto materiale e comunque è fruitore di questa opera ulteriore che è la collezione, che è naturalmente un'opera mediata, perché l'autore non è 'faber', ma utilizza artefatti già esistenti. Il collezionista è stato sempre cosciente di questa sua funzione metalinguistica e qualche volta ha tentato, rimontando da un gradino all'altro, di recuperare la manualità e il livello creativo primario che le è connesso. Ma sono casi isolati, molto più frequenti in passato quando la collezione era prima di tutto uno strumento di lavoro e quando, attraverso la manipolazione dei materiali, nelle officine-laboratorio dei collezionisti-scienziati o di principi curiosi come Francesco I de' Medici, si perseguiva un ampliamento delle conoscenze. Collezionisti molto vicini a quel prototipo perfetto di collezionista che è l'Eduard Fuchs esemplificato da Benjamin nel suo noto saggio, un collezionista-studioso che attraverso la raccolta allarga i propri interessi e modifica il proprio quadro culturale. Certamente chi colleziona accetta di esprimersi per metafora e in questo senso giustifica il suo appropriarsi di un feticcio, cioè di un oggetto dotato di un grande potere simbolico, tanto da poter sostituire un tutto. Egli è nella condizione infinitamente ambigua di possedere e di essere posseduto nello stesso tempo. Può essere come il folle di un villaggio primitivo che scambia il proprio corpo e la propria voce con quella di un animale della foresta. Ma nello stesso tempo detiene l'opera, è artefice del suo destino e autore delle associazioni che può costruire intorno ad essa. In questo senso può costituire una minaccia per l'opera stessa e anche secondo questa linea mi pare che andrebbe riletto l'atteggiamento sempre diffidente delle avanguardie nei confronti del museo. Intanto perché molte opere vorrebbero nascere orfane e a molti artisti il confronto non piace. Basti pensare a quell'istituto ormai consolidato che è la retrodatazione e che gioca ampiamente proprio sul fatto a cui accennavo prima, l'inesistenza di documentazione e di archivi sul contemporaneo e comunque la falsa coscienza che la storia si sta ancora scrivendo e che è necessario ogni tanto farle chiudere un occhio. N egli anni Sessanta-Settanta, quando avevano peso le polemiche sulla mercificazione dell'arte e sull'accumulo di oggetti del mondo capitalistico, molti esponenti dell'arte povera decidevano di disinteressarsi completamente della destinazione delle loro opere, lavorando sull'effimero, sulla non durata e sulla deperibilità. E c'è da stupirsi che questo aspetto così nuovo e importante della ricerca artistica venga oggi completamente censurato nei tentativi di storicizzazione del movimento come quello della mostra terminata da poco a Torino («Continuità dell'avanguardia», alla Mole Antonelliana). Proprio quando l'arte povera si appresta ad entrare definitivamente nel museo, per coerente realismo mercantile si scelgono le opere più durature, quelle in cui si avverte di più il peso della materia e in cui le novità sono già diventate monumento. Credo che finalmente le avanguardie del Novecento abbiano fatto la pace col museo. E vorrei aggiungere ancora che, posta la necessità di avere in qualche modo una visione dell'arte per fare una collezione (i collezionisti enciclopedici avevano comunque una precisa idea del mondo e la volontà ferrea di catalogarlo in tutti i suoi aspetti, le regole e le eccezioni, il bello e il mostruoso), mi chiedo se possa esistere una collezione coerente, come insieme e quindi come immagine, fuori dell'avanguardia. Solo il discorso sintatticamente e strutturalmente conseguente della sperimentazione può offrire il materiale più utile per una raccolta altrettanto compatta di indagini. Al di là di questo può essere molto difficoltoso tenere insieme la poi~ verizzazione degli esperimenti. In questo senso il Novecento potrebbe essere di nuovo l'età dell'oro della collezione. La seconda considerazione è che in antico come oggi la collezione è una rappresentazione che ha bisogno di un teatro, di un luogo e delle sue quattro pareti per essere mostrata e che dentro questo contesto come dentro il teatro si verifica una piena perdita dell'identità e una distruzione delle barriere tra il mondo inglobato nella collezione e l'io (del collezionista e del fruitore) raccolto come perno o come elemento che quella continuità fa scattare. Ma sempre in termini di finitezza. Mi domando se invece il .,,,._ vero paradigma della collezione .s non vada ricercato più a monte, in ~ quel complesso e affascinante tea- l::l... tro della preprogettualità che è lo ~ studio dell'artista. Qui i materiali -. .si compiono un passo indietro e tor- c::s i:: nano a quella dissoluzione caotica ~ precreatrice che lasciava al colle- 0-0 zionista antico l'illusione di essere ~, come Adamo nel Paradiso Terre- ~ stre, colui che dà il nome alle piante e agli animali.
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