Alfabeta - anno VII - n. 68 - gennaio 1985

Duccio Trombadori. Tu sviluppi, da qualche tempo, una critica di quello che chiami il «setteaprilismo», una specie di polemica interna ali'area che oggi medita sulle esperienze 'eversive' e sul fallimento delle teorie della 'lotta armata'. Ci vuoi tornare su, in modo approfondito? Oreste Scalzane. Pensare che il processo «sette Aprile» sia centrale, in modo assoluto, è per me causa di una deformazione politicoculturale che ha avuto effetti perversi e devastanti. Una tesi cara a quella lobby d'opinione che sosteneva l'assoluta estraneità politica della 'lotta armata' ai movimenti autonomi e vedeva le «organizzazioni combattenti» (BR in testa) come il nemico principale della autonomia. D. Quali sono Lecontraddizioni più forti con la Lineadetta «setteaprilista»? A quando risale Lapolemica? Scalzane. Gli elementi di divaricazione c'erano fin dal primo interrogatorio di Toni Negri. Ha prevalso però a lungo la discrezione, la tenacia inerziale dell'affetto, la speranza di una correzione di rotta. C'era poi il timore di poter ledere il diritto di Negri alla difesa. In più questo rischio era agitato pour cause, in modo sleale, per offrire non già alla sua persona, ma alle sue posizioni e scelte, una franchigia e un privilegio totali. Veniamo al merito. Io ero favorevole a una battaglia tecnica preliminare attestata su una serie di pregiudiziali che facessero ricorso ai principi 'garantisti' (esempio, non subire sfacciate inversioni dell'onere della prova). Negri, invece, si è messo da subito a tenere interminabili conferenze, tracciando il proprio identikit politico, nell'intento di dimostrare La propria innocenza ... Come fa un rivoluzionario a dimostrare a un giudice istruttore la propria 'innocenza politica'? Avevamo di fronte un processo fondato, all'inizio, su una accusa paradossale e falsa - il coinvolgimento nel1'affare Moro - e su un teorema spropositato come quello dell'unica direzione di tutto il terrorismo. In un processo di questo tipo, se si accetta di dover dimostrare la propria innocenza, si finisce inevitabilmente per danneggiare se stessi e criminalizzare gli altri. Poiché l'accusa si fonda su una rivisitata teoria del 'tipo d'autore', è chiaro che, mettendosi su quel piano, è facile cadere in una trappola, cominciare a spiegare la propria 'differenza' dalla tipologia in cui l'accusa ti ha collocato. E nel farlo, vengono prese in esame, tirate fuori tutte le tipologie criminali, vengono date per scontate tutte le categorie di colpevolezza ... È così che Negri ha cominciato a formulare giudizi di valore, ad accusare 'ideologicamente' gli altri. E questo, che lo volesse o meno, è un lavoro di criminalizzazione. D'altra parte, una delle radici meno coscienziali e morali, e più culturali e politiche dell' 'errore', è stata la sproporzionata speranza riposta in una soluzione giudiziaria. D. Dal processo, molte cose sono cambiate. La controversia non è più tra soluzione politica e soluzione giudiziaria, ma sul tipo di soluzione politica. È il dibattito sul 'post-terrorismo' ... Scalzane. Ci sono compiti nuovi. Da tre anni lavoro per fare emergere l'idea di una 'vertenza amnistia'. Un di~corso ignorato, deformato, calunniato da più parti. Ora, questa parola però comincia a non essere più un tabù. In questo ambito, che è e sarà di scontro, diventa decisiva la ricostruzione sul senso vero degli anni Settanta in Italia, la lotta armata e l'estremismo. Ed è a questo punto che viene a contare concretamente il contributo che uno con la mia identità e la mia storia può dare, ricostruendo la vicenda sociale, politica e culturale che ho vissuto come testimone diretto. Mi sembra un dovere morale e intellettuale, una piccola pietra che posso portare perché alcune centinaia di uomini e donne non vengano seppelliti nel disprezzo, e perché una dottrina della soluzione egualitaria e di libertà possa - anche sul terreno istituzionale, che non è il mio - fondarsi. D .. Una tematica amnistiale come si concilia con una autocritica della 'Lottaarmata'? Scalzane. Sono stato, nel tempo, spesso attaccato come 'moderato' nell'area di riferimento politico dell'estremismo e della sovversione sociale. Non solo io, anche altri, hanno combattuto battaglie teoriche di contenimento e rettifica rispetto a tangenti, derive, 'crociate': per esempio, contro le ideologie della 'clandestinità strategica', della 'giustizia proletaria', dell'attualità e legittimità del passaggio alla pratica dell'omicidio politico... Ora accade che tanti di quei fanatici rigoristi, con identico spirito normativo e settario di quando erano 'terroristi', sono divenuti vessilliferi dell' 'antiterrorismo'. E succede che quelli come me oggi debbano singolarmente far presente che è assolutamente mistificatorio riguardare quella realtà con un 'filtro' che ne seleziona solo l'arbitrarietà e le miserie. I 'terroristi' non sono stati né come li descrivono i 'pentiti' né come li giudicano quelli che si proclamano «stellarmente distanti» da loro, né come ricordano quelli che oggi sono contriti e convertiti. C'è stata sconfitta, e forse non poteva essere altrimenti, e si può anche pensare che l'errore era talmente grande che la sconfitta era inevitabile, e perfino nemmeno il peggiore dei mali. Ma quella esperienza comunque non era priva di ragioni e, a volte, di grandezza. Veniamo ora all'amnistia. Non è la grazia concessa dal Principe. Così come non è, d'altro canto, l'abolizione del principio della punizione. È in un certo senso il ripristino di un sistema di relazioni civile. Il concetto di 'colpevolezza' è comunque relativo, e molto spesso deciso dalla forza ... Chi è sconfitto - come dice Emanuele Severino- è sempre colpevole. E soprattutto è 'colpevole' chi non può vincere, epperò ha accettato la scommessa del vincere o perdere. Comunque è inutile parlare della amnistia. Non c'è, e ci sarà sempre meno, un solo discorso sull'amnistia. Amnistia, amnistie ... L'amnistia di cui parlo io è una metafora della liberazione e, al tempo stesso, un discorso sull' 'uscita dalla guerra'. È importante spiegare questo carattere polisenso. Vedi, io credo che le genti più diverse, le 'famiglie' culturali e ideologiche più diverse - che abbiano come origine comune i movimenti sociali - potrebbero, su questo denominatore comune, ritrovarsi. Portandosi dietro i rispettivi linguaggi, intenzioni, speranze. Certo, la scelta del terreno dell'amnistia sottende un superamento del concetto di 'inimicizia assoluta' (di guerra permanente, di lotta armata come sintesi suprema dei movimenti di lotta, di guerra come esito necessario del conflitto sociale). Dire 'amnistia' ha significato riconoscere la 'fine di uno stato di belligerenza', di conflitto portato al livello militare-distruttivo; ha significato mettere in crisi l'idea del 'senza tregua', ha significato riconoscere la permanenza delle forme economiche, sociali e statuali vigenti, e scegliere di operare in uno scenario che veda questa permanenza, tentare di trovare delle modalità, quantomeno provvisorie, per conviverci (nel senso di 'viverci accanto', senza lasciarsene schiacciare o fagocitare, reinventando continuamente possibilità di indipendenza, di autodeterminazione, di conflitto, di estraneità ostile e di speranza di liberazione). D'altra parte, tutto ciò non significava- e meno che mai può significare - sacrificare al Moloch dell'esistente, convincersi e voler convincere della naturalità, desiderabilità, inviolabilità delle forme sociali vigenti, delle norme, e ancor meno degli assetti congiunturali, di regime politico, che le gestiscono. Che si assumesse semplicemente una sconfitta prendendo atto di un rapporto di forze, e che si scandagliasse un errore, quello che c'era e c'è dietro l'idea-forza dell'organizzazione di una lotta culturale, rivendicativa, politica per l'amnistia e contro il carcere, non è certo un riaffezionarsi all'ordine costituito e allo Stato, e meno che mai un concedergli la minima collaborazione nel demonizzare e sfigurare una qualsiasi forma della ribellione.· D. In ogni caso, un discorso sull'amnistia deve incontrare interlocutori politici, deve incontrare La volontà dello Stato democratico. Quanto mi dici finora sembra appartenere piuttosto a problemi interni. Scalzane. Questo è vero solo in parte. Di una 'soluzione politica' è ormai evidente che c'è bisogno da più parti, e dunque anche dal punto di vista del governo sociale. Naturalmente ci sono delle resistenze come quella manifestata dai trentasei magistrati della ormai celebre lettera a Pertini, che vedono come il fumo agli occhi qualsiasi discorso che metta in discussione lo stato di eccezione, perché in un supera~ mento delle pratiche dell'emergenza vedono minacciato il surplus di potere, di funzioni, protagonismo, ruolo sociale e forse prebende, che da questo 'regime' gli deriva. Ma, al di là delle lobbies più tetragone, è evidente che alla predisposizione di una serie di dispositivi di decompressione e di relativa normalizzazione si dovrà comunque andare. Ora, un modello di soluzione funzionale alle esigenze di autoconservazione degli equilibri che connotano il regime politico nel Paese, e di autoassoluzione e autoconfermazione dell' establishment istituzionale, esiste: è il modello - già sperimentato in questi anni a livello penitenziario - del regime differenziato, che si fonda sulla possibilità di stabilire delle tavole tipologiche, e di collocare rispetto a questa griglia, i prigionieri. In questo modello, si tratta di distinguere - secondo una fondamentale discriminante manichea - fra 'refrattari' e 'recuperabili', e di aggiungere poi a questa fondamentale partizione una graduazione quanto più è possibile sofisticata e disaggregata. Questo dovrebbe permettere, nel giro di qualche anno: a) di circoscrivere il nucleo degli 'irrecuperabili', da destinare alla segregazione e all'annientamento, senza dover metter nel conto troppi contraccolpi e troppi costi; b) di ridi-- mensionare, banalizzare e sdrammatizzare il problema-carceri, che è diventata una questione nazionale; c) di cooptare progressivamente tutti quegli ex estremisti che- più o meno coinvolti nella lotta armata - siano disponibili a concedere allo Stato la rappresentazione pubblica della loro abiura, conversione, e professione di fedeltà alle regole e agli istituti dello Stato democratico. La soluzione politica differenziata ha un carattere corporativo, ini-- quo, discriminatorio, assolutamente congruo alla sua natura statale. Nella società, una soluzione carica di libertà e di speranza può evocare e mobilitare una quantità di forze, di passioni, di energie, certamente maggiore e più profonda di una soluzione semi-privata, un po' indecente e incapace di parlare alla gente. So bene che si potrebbe obiettarmi che il 'senso comune sociale', su questo tema delle libertà, è assai in arretrato. Ma sappiamo (senza dover confortare questo asserto tirando giù intere biblioteche) che questo ha, nelle moderne società di massa, delle ragioni precise, leggibili e lette. io dico che la gente può capire, ed è per questo che ha valore l'impegno, il lavoro a volte oscuro e sott~rraneo, per anni. Non perché si possa tirl;lre la gente per la giacca, e costruire una presa di coscienza mattone su mattone; ma perché le idee-forza - è questo l' enjeu - possono, in determinate circostanze, incontrarsi con delle grandi ansie di mutamento, e con le correnti, le accelerazioni, i 'punti di catastrofe' che ad esse si legano. Oggi, guardare alla società ha una ragione specifica: io ritengo che stia maturando una crisi effettiva - di legittimazione e di consenso, oltre che di funzionamento - dell'assetto del sistema politico, del regime partitocratico-corporativo esistente in Italia. Non parlo - vedi? - di chi sa quale generale ca- ·tarsi rivoluzionaria, catastrofica, 'anonima e tremenda'. Parlo di una cosa assai più modesta, limitata, e in qualche modo abbordabile. Una 'crisi di regime' che costringerà a cambiamenti radicali, che aprirà spazi a movimenti orgogliosamente capaci di autodeterminazione e di offensiva, che potrà offrire terreno all'apertura di una serie di spazi di libertà. 'Potrà', certo non necessariamente; ma _è a questa prospettiva che il discorso, mi pare, dovrebbe essere agganciato. Su una ripresa di parola - per non dire un'esplosione - del 'molecolare', del locale, dei saperi compressi ed emarginati, della passione per le libertà forse si può oggi scommettere, esattamente come vent'anni fa - contro ogni previsione corrente - si era nel giusto se si scommetteva sul salario. D. Mi hai dato una risposta indiretta e, in un certo senso, obliqua; in soldoni, tu riconosci che L'ipotesi dell'amnistia non ha a tutt'oggi delle 'teste di ponte' a livello istituzionale. AL tempo stesso, ne profetizzi delle latentipotenzialità. E tra L'isolamento attuale e Lapossibilità di un dispiegamento potente, metti uno show-down preventivo tra Lacultura dell'amnistia e quella della 'dissociazione'. È così? Scalzone. E così, ma non solo. Amnistia, amnistie ... Come dicevo anche prima, l'amnistia di cui io parlo è un discorso diverso da quello della guerra, ma anche - e in modo altrettanto radicale - da quello della pace sociale; è un discorso che, certo, non è 'fuori del capitalismo' (ma neanche il salario, o l'orario di lavoro, o ancor più le cose che vogliono i movimenti di lotta o le guerriglie di mezzo mondo sono 'fuori del capitalismo'!): se è così, non c'è - né ci può essere - alcuna omologia, né alcuna continuità fra l'immagine della 'nostra' amnistia e quella che potrebbe essere la risultante, la proscrizione dell'intera sequenza di lotta sul terreno istituzionale. In altre parole, l'amnistia come legge - o sequenza di leggi :- dello Stato sarà una cosa profondamente estranea alla nostra logica e alla nostra cultura. Ma sarà, puoi starne certo, anche funzione del movimento che avremo raccolto e rilanciato, e condizionata dalla sua forza e dalla sua qualità. È come se dicessi che bisognerebbe tentare di governare, per quanto possibile, l'eterogenesi dei fini... Per concludere dandoti una risposta diretta: cosa vuoi che possa dire io (quale mai voce in capitolo posso avere) - sul terreno di un dibattito istituzionale, giocato tra dottrina giuridica e dottrina politica - sull'amnistia?

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