Alfabeta - anno VII - n. 68 - gennaio 1985

H o letto con grande interesse l'articolo di Ernesto Mascitelli sul n. 66 di Alfabeta. Egli mette efficacemente in luce la scarsa presa sui ricercatori del modello conoscitivo neo-empirista, dovuta «ad almeno tre motivi: un livello di astrazione raggiunto con sublime indifferenza per le tappe intermedie; l'assenza di considerazione per il farsi della scienza, frutto dello scetticismo verso quanto non poteva essere tradotto in formule governate da un sistema deduttivo; la negligenza del fatto piuttosto ovvio che certi procedimenti validissimi quando non irrinunciabili, in certi ambiti disciplinari, non riguardavano la sostanza di altri discorsi». E conclude affermando l'inscindibilità di scienza e valori: «Il che ricongiunge la scienza a una sfera interpretativa del reale che non è frutto né oggetto della scienza stessa, ma, come si diceva con qualche enfasi, regno dei valori o, detto in termini più S ipotrebbe credere che un futuro storico delle idee non dovrebbe, forse, incontrare troppe difficoltà nello stendere un profilo del!'estetica (e della filosofia in genere) della seconda metà del Novecento. Sin d'ora, non è difficile ravvisarvi una lignée predominante, per la quale l'arte viene trattata principalmente in termini di linguaggio, e ciò da molti punti di vista (il medium linguistico è sia l'occasione della produzione estetica, sia il materiale delle opere, sia, ovviamente, lo strumento delle indagini estetologiche) - e a partire da una convergenza di tradizioni e metodi anche molto eterogenei, dal modello linguistico-strutturale a lungo predominante nelle scienze umane e nelle loro applicazioni ali'estetica, sino alla ripresa e alla diffusione del pensiero ermeneutico, nella linea Nietzsche-Heidegger-Gadamer. (Questo trend succedeva del resto a una metafisica influente di altro tipo, largamente diffusa nellaprima metà del secolo e con ampie propaggini nella seconda, ossia le numerose versioni dello storicismo.) Il libro di Stefano Zecchi, La magia dei saggi, pubblicato nella primavera dell'anno scorso, esce molto visibilmente da questa categorizzazione, e si presta a un ripensamento sia della funzione e del campo de~'estetica, sia della legittimità dello schema storiografico che ho appena abbozzato. Il volume si compone sia di studi sul!'estetica husserliana, sia di saggi su autori come Blake, Goethe, Lawrence, e segue il filo conduttore di uno sviluppo delle implicazioni estetologiche della fenomenologia (una corrente che, almeno negli ultimi anni, appare relativamente minoritaria rispetto al prevalere dei modelli linguistici nellafilosofia e nelle scienze umane). Quella che Zecchi propone, in sostanza, è una fenomenologia delle opere (e non tanto delle poetiche, che sono state il campo, in particolare, delle ricerche di Luciano Anceschi); una fenomenologia che si propone di indagare i rapporEticaesciema scolastici, argomento proprio della filosofia morale». Oltre a condividere queste conclusioni, ritengo che l'opinione contraria sia contrassegnata da alcuni fraintendimenti. Molto istruttivo è, a questo proposito, il libro di Janik e Toulmin (La grande Vienna, Milano, Garzanti, 1975) sulle origini del pensiero di Wittti fra opera, corporeità, sensibilità e immaginazione intese come fondamenti, e non come effetti, dell'espressività anche linguistica del- !'arte. La polemica contro un certo riduzionismo linguistico o storicistico è dunque esplicita: ravvisando nelle opere gli esiti inerti e quasi meccanici della storia e del linguaggio, scrive Zecchi, «l'esteticaperde la sua funzione di interrogazione delle dinamiche del mondo sensibile, sostituita con l'elaborazione di una strumentazione pragmatica in grado di controllare e sottoporre la sensibilità stessa a una pratica di codificazione» (p. li); certe metodiche, in sostanza, rischiano di perdere ogni cognizione di sé, e di pensarsi non come strumenti interpretativi, ma come sostanza vera epropria del!'opera, che viene perciò tradotta a immagine e somiglianza delle metodologie critiche che sono chiamate a indagarla. (Ciò, si direbbe, non solo nei campi in cui il processo di tradLl;zionedall'opera alla critica è più evidente, come nel passaggio dal visivo al verbale; ma anche quando si ha a che fare con un testo vero e proprio - penso ai rimproveri, spesso fonda ti, mossi a quelle analisi di testi letterari che Paolo Vineis genstein. Il grande problema con il quale Wittgenst_einsi è confrontato per tutta la vita fu quello di tenere nettamente distinte la sfera della conoscenza del mondo materiale e la sfera dei giudizi morali. Tuttavia, questa ricerca non sottintendeva il desiderio di mostrare in primo luogo l'oggettività della conoscenza scientifica, pi1,1ttost9l'obiettivo era quello di riconoscere chiaramente all'etica il suo carattere soggettivo e la non-deri_vabilità dei suoi giudizi da conoscenze di fatto. Contrariamente all'interpretazione datane dai neo-empiristi, la .famosa frase «di ciò di cui non si può parlare si dovrebbe tacere» non corrispondeva a un reale interesse per la descrizione oggettiva del mondo della natura, ma piuttosto a un forte impegno in senso etico. Questo emerge sia da testimonianze indirette, come quella di Paul Engelmann («I positivisti infatti sostengono, e in ciò sta la loro caratteristica essenziale, che ciò di riflettono prevalentemente sulla metodologia adottata, e molto poco sull'opera presa in esame.) Di qui, prosegue Zecchi, la necessità di una riformulazione del concetto di opera e di una ristrutturazione della gerarchia fra teorico e sensibile. A questo fine, le poetiche di Blake, Goethe, Lawrence forniscono uno strumentario teorico e tematico molto utile: la polemica di Blake contro l'Illuminismo, la revisione del rapporto fra scienze della natura e scienze dello spirito in Goethe, la tematizzazione del corpo e del sensibile in Lawrence convergano nella riformulazione di un concetto di opera e di arte in cui la corporeità, l'immaginazione e la sensibilità predominano nettamente sulle determinazioni storiche e lin-- guistiche dellaproduzione artistica. Immaginazione e sensibilità (qui anche l'estetica kantiana porta un contributo importante) sono i veri a priori del!'arte, e definiscono anche il tipo peculiare di conoscenza che essa ci porta: « La forma conoscitiva del!'arte non è veicolo di significazioni e non segue un senso precostituito dalla teoria: è fondata su una prassi in cui il corpo è bisogno di espressione che non solo attualizza, attiva elementi significativi, ma cui possiamo parlare è tutto ciò che conta nella vita. Wittgenstein invece crede appassionatamente che tutto ciò che conta veramente nella vita è proprio ciò di cui, in prospettiva, dobbiamo tacere»), sia da affermazioni dello stesso Wittgenstein (come in una lettera all'editore Ficker relativa al Tractatus: «È un libro di argomento etico ( ... ) il è anche il loro campo, è orizzonte di possibilità» (p. 194). L'arte come prassi del corpo versus. la pragmatica dei metodi critici. Il che non equivale affatto a una esclusione di una filosofia de~'arte. Indagando la dimensione sensibile del!'opera, l'estetica si automatizza rispetto alle scienze umane e alle filosofie di cui, in una prospettiva linguistica o storicistica, è spesso un semplice momento applicativo. Non si trattapiù di 'leggere' (termine che la dice lunga su numerosi equivoci) le opere con strumenti e vocabolari estrinseci, con concetti nati in altri campi e con altri scopi (psicanalisi, linguistica ecc.), ma semmai di far valere le fondate ragioni delle opere, e il loro insegnamento anche 'extra-estetico' (JeanFrançois Lyotard definisce questa riformulazione di gerarchie già nel titolo di un suo saggio molto noto: Freud secondo Cézanne). Abbiamo dunque a che fare, nella prospettiva di Zecchi, con una duplice riformulazione di statuti che di recente - ma il processo prende avvio, almeno con la critica illuministica del mito - si caratterizzavano per un'irragionevole fissità: da una parte, l'opera come sfera del corpo, del bisogno, del piacere e mio lavoro consiste di due parti, una che è presentata qui, più un'altra che non ho scritto, ed è proprio questa seconda parte quella più importante»). • È vero dunque che, come si esprimono Janik e Toulmin, «almeno quattro quinti del Tractatus potevano ·essere usati senza evidenti forzature come fonte di diretti e sensati slogan positivisti», ma è anche vero che Wittgenstein rifuggiva da questa interpretazione, tanto che considerò l'Introduzione di Russell unfraintendimento. Ma, soprattutto, una ricostruzione molto accurata delle influenze subite e del percorso culturale di Wittgenstein, come quella di Janik e Toulmin, cambia alquanto la prospettiva dalla quale considerare il filosofo austriaco. Egli si incontrò in un modo relativamente secondario con le teorie di Frege e Russell, mentre per tutta la vita le fonti della sua interrogazione filosofica erano costituite da della sensibilità suggerisce una diversa considerazione filosofica di campi spesso trattati come residui antropologici (filogenetici od ontogenetici: infanzia dell'uomo o della umanità); dal!'altra, l'estetica trova una nuova giustificazione, che non consiste più ne~'applicazione più o meno tautologica o empirica di metodiche estrinseche, ma nell'indagine di una regione della sensibilità che ha un rilievo anche teoretico (la corporeità messa in questione dalle opere non si riassume nella fisiologia; la sensibilità del!'estetico non è pura sensiblerie, buona per le indagini della storia delle idee o del- ['etnologia; il bisogno e il piacere non sono dominio esclusivo dell'economia o della psicoanalisi). In breve, si tratta del recupero del valore di verità de~'arte. Il che ci aiuta a rivedere anche la classificazione un po' sommaria tracciata in apertura. Di fatto, una fenomenologia della sensibilità non sembra opporsi a certe prospettive 'maggioritarie': Heidegger e Gadamer muovono proprio dall'esperienza dell'arte per indicare i tratti di un'esperienza filosofica della verità, Adorno vede nell'estetica una via importante per superare i dogmatismi impliciti nella dialettica del/'Illuminismo. Ciò che viene posto in questione da una prospettiva come quella di Zecchi è piuttosto il dogmatismo metodologico che ha spesso determinato ilpredominio di 'letture' delle opere d'arte basate su un pregiudizio scientistico. Una riformulazione dello statuto del!'estetico e del!'estetica deve quindi comportareanche una revisione dei rapporti tra filosofia, scienze umane, e filosofia del!'arte, che avrebbe un valore terapeutico non solo per la comprensione delle opere, ma anche per un'autocomprensione delle teorie. Stefano Zecchi La magia dei saggi Milano, Jaca Book, 1984 pp. 199, lire 15.000

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